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Albignasego

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Villa Obizzi, municipio, Albignasego
Villa Obizzi, municipio, Albignasego

Albignasego (Albignàxego in veneto) è un comune italiano di 26 921 abitanti della provincia di Padova in Veneto. È parte integrante dell'area metropolitana della città di Padova e risulta essere il secondo comune della provincia per popolazione, dopo il capoluogo. Albignasego è situato nella pianura padano-veneta a sud di Padova e a pochi chilometri dai colli Euganei. Il toponimo Albignasego deriva dal nome latino di persona Albinius, che molto probabilmente fu il nome di un proprietario terriero di queste terre, ed all'accostamento ad esso del suffisso -aticus che indica appartenenza, perciò il nome della cittadina significherebbe "appartenenza di Albinio". Il territorio comunale risulta essere stato abitato fin dall'epoca preistorica. Reperti dell'Età del bronzo sono stati rinvenuti agli inizi del XX secolo in località Mandriola ed attualmente sono conservati al Museo civico di Padova. La presenza dei corsi d'acqua insieme alla fertilità del territorio garantirono fino all'epoca romana una continuità abitativa nel territorio albignaseghese. Con l'arrivo delle legioni romane in Veneto la zona fu interessata dalla centuriazione e bonificata per permettere un migliore sfruttamento del suolo. Tra il 49 a.C. e il 45 a.C. il territorio del comune entrò nella sfera amministrativa del municipio romano di Patavium (attuale Padova). Il primo documento noto in cui si cita Albignasego è un diploma dell'imperatore Berengario I con il quale veniva ribadito il diritto di assegnazione delle decime di Villa Albignasega ai Canonici della Cattedrale di Padova. Lo stesso toponimo appare in altri documenti dello stesso genere, mentre se ne ritrova uno diverso in una "stima" papale del 1297, dove viene citata la parrocchia cittadina come San Tommaso de Bignasico. Dal XV secolo Albignasego lega la sua storia alla famiglia degli Obizzi, casato originario di Lucca con discendenze in diverse città del centro-nord Italia, tra le quali anche Padova. Lo stemma e il gonfalone di Albignasego sono stati concessi con regio decreto del 7 gennaio 1938. Il campo verde fa riferimento alla diffusa agricoltura e ai vasti boschi presenti all'epoca della concessione dello stemma. Il bue rappresenta gli antichi allevamenti di bovini ed è inoltre simbolo dell'eroismo e della forza d'animo dimostrata dalla comunità albignaseghese. Il gonfalone è un drappo di verde riccamente ornato di ricami d'oro. Il complesso architettonico, detto anche della Mandriola, posto nei pressi del terzo chilometro della Strada statale 16 Adriatica, fu costruito della famiglia veronese dei Conti di San Bonifacio nel XVI secolo. La villa fu fatta costruire nella zona attualmente conosciuta come Mandriola, ma detta in epoche storiche anche San Bonifacio, dalla nobile famiglia veronese dei San Bonifacio, visto che la Famiglia dei Conti di San Bonifacio si divide allora in due rami, di cui l'uno rimane a Padova e l'altro torna a stabilirsi in Verona. La facciata principale della villa risulta in parte mutila dell'originale frontone perso in seguito a una tromba d'aria che si è abbattuta negli anni settanta del secolo scorso sulla zona. Inalterato, invece, risulta il monumentale Salone delle Feste o Sala da Ballo della Villa che occupa l'altezza dei due piani dell'edificio. Ha le pareti decorate da affreschi raffiguranti le fatiche di Ercole e il soffitto è decorato da un grande affresco di scuola "tiepolesca ", dai colori leggeri che raffigura Apollo e le Muse ed è attribuito a Gian Battista Canal. Di notevole interesse è la balaustra lignea che delimita il ballatoio che corre lungo tutto il perimetro della sala. Rilevante l'annesso Parco romantico di circa cinque ettari, che circonda la villa, abbellito da viali intervallati da grandi statue settecentesche rappresentanti personaggi mitologici che conducono attraverso il grande bosco composto da una vasta quantità e varietà di piante secolari e monumentali altre che al laghetto. Adiacente alla villa è presente un edificio risalente al XVI-XVII secolo, restaurato nel Settecento per le nozze di Ercole San Bonifacio con Teresa degli Obizzi. Infine, va citato l'annesso oratorio dedicato a San Jacopo (risalente al Seicento), che presenta un campanile a cuspide di tipo romanico a pigna. Questo oratorio aveva nome di Abbazia e fu la prima chiesa della comunità di "Mandriola". Dentro la villa furono girate alcune scene del film L'ingenua di Gianfranco Baldanello con Ilona Staller (1975). La piazza si trova nel centro del paese e accanto a Villa Obizzi. Inizialmente adibita a parcheggio, è stata riqualificata nel 2020. La Villa Obizzi risale al XVII secolo, ed è accostata alla figura di Pio Enea II Obizzi. Essa sorge nel centro del paese ed è circondata da un giardino, il quale ora è diventato il "Parco della Rimembranza". La villa è adibita a sede di uffici comunali e alla biblioteca della cittadina. Numerosi i restauri, l'ultimo dei quali ha riportato la villa al suo antico splendore nel 2007. La villa, il cui nome completo è Villa Lion Salom Bragadin si trova nella frazione di Lion (unico centro storico presente nella città) ed è attorniata da un grazioso parco con un piccolo laghetto. Essa fu costruita sul finire del XVI secolo su mandato della famiglia veneziana dei Bragadin. Nei secoli successivi subì diverse ristrutturazioni da parte dei successivi proprietari, gli Obizzi ed i Salom: questi ultimi fecero costruire nel parco un piccolo castello in stile "romantico-decadente". La maggior parte della villa è posseduta dalla famiglia Michieli e ospita un celebre ristorante-prosciutteria, mentre la zona del castelletto e delle cantine è posseduta dalla famiglia Gulisano. Abitanti censiti Al 31 dicembre 2022 la popolazione straniera era di 1 599 abitanti, pari al 7,26% della popolazione. Sono due i quotidiani storici che si occupano attualmente della cronaca locale della città: il Gazzettino e il Mattino di Padova. Dal 2020 viene distribuito gratuitamente a tutte le famiglie l'edizione locale del mensile Il Giornale Di nel supplemento denominato "Il Giornale di Albignasego". Albignasego conta sette ambiti territoriali omogenei (ATO) all'interno del suo territorio comunale: S. Tommaso - S. Lorenzo - Ferri (7,09 km², 11.700 ab.) Sant'Agostino (dal nome della parrocchia, Sant'Agostino, 1,48 km², 4.250 ab.) Mandriola (1,82 km², 2.050 ab.) San Giacomo (3,41 km², 2.350 ab.) - Geograficamente situata a sud-est, è la frazione più giovane del Comune, diventando autonoma a livello di Parrocchia dalla frazione di Lion solo nel 1960. L'edificio più importante è la Chiesa di San Giacomo (1970), che sostituì quella originale risalente al Trecento in cui rimangono ancora alcune tracce dell'antica costruzione. Lion (2,21 km²,1.450 ab.) Carpanedo (2,28 km², 2.000 ab.) Zona produttiva (2,75 km², 350 ab.) Va aggiunto, inoltre, che l'ATO "S. Tommaso - S. Lorenzo - Ferri" è suddiviso nei tre quartieri di San Lorenzo, San Tommaso e Ferri (Santa Maria Annunziata), corrispondenti alle tre parrocchie qui esistenti. Attraversata in senso longitudinale nord-sud dalla Strada provinciale 92 "via Guizza", Albignasego è collegata con Padova mediante autoservizi svolti da APS Holding e Busitalia-Sita Nord. Fra il 1888 e il 1954 nella cittadina fu presente inoltre una stazione della tranvia Padova-Bagnoli di Sopra, gestita dalla Società delle Guidovie Centrali Venete (gruppo Società Veneta), parte di un gruppo di infrastrutture che contribuirono in tale periodo al rilancio economico della provincia di Padova. L'Amministrazione comunale di Albignasego, con quelle di Casalserugo e Maserà di Padova, fa parte dell'Unione Pratiarcati, una Unione dei comuni della provincia di Padova. Galanta, dal 2007 La principale squadra di calcio della città è l'Albignasego Calcio, nella stagione 2017-2018 milita in Promozione. Fondata nel 1959 nella sua storia conta due campionati di Serie D nelle stagioni 2008-2009 e 2009-2010. Nell'estate 2010 la società si fonde con il San Paolo Padova e scompare. Viene così costituita una nuova società grazie anche alla sezione calcio del CUS Padova. Nasce così sempre nel 2010 l'Universitaria Albignasego che successivamente cambierà nome in Albignasego Calcio. Attualmente milita nel campionato di Eccellenza. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Albignasego Sito ufficiale, su comune.albignasego.pd.it. Albignàsego, su sapere.it, De Agostini.

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Villa Obizzi, municipio, Albignasego
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Salboro
Salboro

Salboro è una frazione del comune italiano di Padova. Sorge a sud del centro storico di Padova dal quale dista circa 5 Km, lungo la strada provinciale 3 diretta da Padova ad Anguillara Veneta. Nei pressi si snodano i confini comunali con Ponte San Nicolò (frazione Rio) e Albignasego (frazione San Giacomo). Dei corsi d'acqua si cita lo scolo Baracchia, che si muove in direzione ovest-est lambendo Pozzoveggiani, località minore che si estende a sud del paese. per poi confluire sul fiume Bacchiglione nei pressi di Roncajette. Per la sua posizione periferica, la zona mantiene ancora i suoi caratteri rurali e vi sussistono tutt'oggi alcune aziende agricole e zootecniche. Di Salboro si hanno notizie dal X secolo d.C. ma ha probabilmente origini più antiche data la posizione lungo la romana via Annia. Del medesimo periodo sono i resti di una centuriazione, ancora riconoscibile nelle attuali vie Palla Strozzi e San Giacomo. In un diploma dell'imperatore Berengario del 918 è attestata Publiciano o Pobliciano, divenuta nel 1027 Puteus Vitaliani: è l'attuale località Pozzoveggiani, in cui sorge la chiesa di San Michele che è la più antica della zona. Il toponimo potrebbe legarsi alla presenza di un puteus "pozzo" e a un possidente di epoca romana, Vitellius; esiste una tradizione che lo rimanda a Vitalianus, padre della martire Giustina di Padova che sarebbe stato proprietario dei terreni circostanti. Nel 1045 compare il locus ubi dicitur Selburia, mentre nel 1055 si cita la villa que dicitur Spasano. Probabilmente Spasano, sede della chiesa di Santa Maria Assunta, era il centro principale, mentre Salboro rappresentava una località minore. In seguito i ruoli si ribaltarono, tanto che nel 1595, per la prima volta, la chiesa di Santa Maria è detta "di Salboro". Salboro sembra avvicinarsi al latino silvarium, ad indicare una località boscosa; Spasano è forse derivato da spatium e da patēre "essere aperto", nel senso di "ampia distesa pianeggiante". Le chiese di Spasano-Salboro e di Pozzoveggiani erano unite sin dai tempi più antichi, anche se la seconda ebbe per diverso tempo un proprio cimitero e una propria fabbriceria. Inoltre, il rettore di Spasano-Salboro doveva celebrare messa alternativamente nei due luoghi di culto. Citata per la prima volta, accanto alla chiesa di San Michele, in un diploma del vescovo Bellino di Padova del 1130, fu cappella dipendente dall'arcipretato di Padova. Nel 1686 fu visitata dal vescovo Gregorio Barbarigo che la reputò di dimensioni insufficienti, tuttavia venne ampliata solo a partire dal 1859; nell'occasione, coro e presbiterio furono spostati da est a ovest. Nonostante i rifacimenti, la vecchia chiesa di Salboro non era ancora sufficiente ad accogliere l'accresciuta popolazione: il 19 ottobre 1954 il vescovo Girolamo Bartolomeo Bortignon notò che la chiesa era povera e di dimensioni anguste, ma anche che gli abitanti erano restii a sostenere le ingenti spese per una nuova costruzione. Ciononostante, il 21 novembre 1970 iniziò l'erezione del nuovo luogo sacro accanto all'altro, su progetto degli architetti Pietro Bettella e Filippo Navarra. Fu inaugurato nel 1974 e consacrato nel 1977. A pianta curvilinea e alzato a stella, culmina con una volta sostenuta dalla trabeazione perimetrale, conferendole l'aspetto di una tenda. Il presbiterio è sovrastato da un Cristo in rame sbalzato di Giampaolo Menegazzo. Vi sono conservate anche alcune opere d'arte provenienti dalla vecchia chiesa: spicca una tela di Giovan Battista Bissoni del 1609, raffigurante l'Assunzione della Madonna con i dodici apostoli e il committente; più recente il fonte battesimale scolpito nel 1943 Luigi Strazzabosco, con quattro scene tratte dalle Sacre Scritture. Come già detto, è citata accanto all'attuale parrocchiale a partire dal 1130, ma è probabilmente la più antica chiesa della zona. Conserva un ciclo di affreschi del XII secolo, raffigurante Cristo in maestà, gli evangelisti e gli apostoli Taddeo, Matteo, Giacomo, Giovanni e Pietro. La chiesa di San Michele Arcangelo si trova a cinque chilometri da Padova sulla strada per Bovolenta nella frazione Pozzoveggiani, questo nome deriva anticamente da PUTEUS VITALIANI, dove "puteus" significa "pozzo" (sul lato sud è presente infatti un pozzo) e "Vitaliani" un ricco terriero era stato il padre di Santa Giustina e uno dei primi cristiani. Questa zona è stata occupata dai Longobardi nel VI secolo, qui vicino vi era la capitale Cividale, mentre Treviso, Vicenza e Verona erano sotto il dominio di Alboino. Venne edificata nel XII secolo sopra un edificio più antico, una cella memoriale del VI - VII secolo di forma cubica, con l’abside eccezionalmente rivolta ad ovest invece che ad est com'era consuetudine degli antichi edifici. Per questo motivo fu "ritrasformata" ribaltandone la facciata e la posizione dell'altare di modo che fosse rivolto ad est. Inoltre fu notevolmente ampliata in tre navate e tre absidi semicircolari. Successivamente tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo fu trasformato in oratorio utilizzando solo la navata centrale. La navata sud è stata demolita ed infatti dall’esterno si vedono ancora le colonne murate. Nonostante questi pesanti cambiamenti la chiesa conserva lo stile iniziale bizantino con forte influenza carolingia. Il muro ha una distribuzione di mattoni a spina di pesce, una metologia costruttiva già abbastanza avanzata per l'epoca. È una delle chiese più antiche della provincia di Padova, rimasta intatta fino a noi, forse anche perché in disparte da un centro abitato, quasi nascosta. Una chiesetta campestre ai margini del bosco proveniente dalle prime costruzioni cristiane, conservando le origini della religione come dentro uno scrigno. Sul fianco meridionale interno sono state innestate due formelle in terracotta riportanti figure geometriche e zoomorfe. All’interno sono presenti splendidi affreschi romanici del X-XIII secolo che ricoprono la cella memoriale (antico edificio) e l’abside. I più antichi sono le immagini degli Apostoli che si trovano nelle arcate. Poi nel catino absidale emerge un Cristo Pantocreatore nella mandorla con attorno i quattro evangelisti. Vi è anche il simbolo del Cristo, un pellicano che dà nutrimento col proprio sangue ai piccoli. Nella parte inferiore vi sono cavalieri in armatura. Nella fascia inferiore dell'abside, quella più in prossimità del suolo, sono rappresentati a "sinopia" cavalieri in duello, animali e figure zoomorfe e antropomorfe. Questo gruppo figurativo poco ha a che fare con e sacre immagini soprastanti, essendo rappresentazione "a sé" senza un riferimento sacro o narrativo. Simile e quasi identica ai cavalieri presenti nella chiesa di Summaga, sempre in Veneto, la fascia di San Michele Arcangelo si trova nella zona più sacra della chiesa, dietro l'altare. Perché raramente, ma comunque più volte e in una chiesa vicina, sono stati rappresentati a "sinopia" cavalieri in duello all'interno di un luogo sacro? Uomini a cavallo che nulla hanno a che fare con guerre sante, templari o santi guerrieri, personaggi sconosciuti con scudi e lance, attorniati da animali e figure antropomorfe. C'è chi ha spiegato l'immagine come "gioco di penna", come se l'artista si fosse allenato o avesse provato gli strumenti prima di coprire le immagini con figure sacre. Oppure semplicemente in questo luogo era sacra la figura stessa del cavaliere perché sapeva difendere la gente, proteggere gli indifesi, grazie al suo onore puro e volto a Dio. Dopotutto armi e armature erano estremamente care nel medioevo, in pochi se le potevano permettere, i contadini naturalmente si difendevano come potevano, quindi un uomo d'arme che prestava la sua protezione era visto come un "salvatore". Si trova nel centro abitato, all'incrocio tra via Lago Dolfin e via Pietro Bembo. Costruita nell'Ottocento, si caratterizza per il grande parco che si sviluppa a nord della casa padronale, progettato da Giuseppe Jappelli. Lo spazio a sud, che un tempo doveva costituire un giardino più raccolto, aperto verso la campagna, è ora occupato da un maneggio. Lo stesso palazzo ha subito delle modifiche interne poiché è stato adibito a ristorante. Questo edificio è un volume di forma allungata orientato in direzione est-ovest. È costituito da un corpo porticato alle cui estremità si innalzano due corpi a torre, anch'essi con arcate al piano terra. Questo schema "torre-loggia-torre" non è unico, ma si ripete anche in alcune ville venete della provincia di Vicenza: si citano il castello di Thiene, villa Pisani a Bagnolo di Lonigo, villa Rezzonico a Bassano del Grappa. Delle facciate del palazzo, quella nord, rivolta al parco, e quella ovest, lungo la strada principale, si distinguono per una maggiore attenzione decorativa: al piano terra è stato utilizzato il bugnato rustico, le finestre sono incorniciate e sopra gli architravi si trova una modanatura lavorata a listelli. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Salboro

Guizza
Guizza

La Guizza (Quartiere 4 Sud Est) è uno dei quartieri collocati più a sud della città di Padova, estendendosi dalla zona del Bassanello sino al confine settentrionale del comune di Albignasego. Zona residenziale, con una forte densità abitativa, la Guizza è attraversata dal principale asse del Metrotram cittadino, il cui capolinea sud si trova in questo quartiere. Rappresenta il principale punto di accesso alla città per il traffico proveniente dalla parte meridionale della provincia. La Guizza è un quartiere della zona 4 (sud) di Padova. Il quartiere è delineato dal Lungargine Bassanello e dal fiume Bacchiglione. Il quartiere confina con il Crocifisso, con Salboro e con la Paltana. La via principale è Via Guizza Conselvana. Il quartiere ha una superficie di circa 4,26 km2 e vi risiedono 12 848 ab. Il nodo fluviale del Lungargine Bassanello aveva passi a barche, essendo assicurato ad una fune posta di traverso al canale Maestro e il ponte in muratura, risalente al 1281. Sono state fatte alcune proposte di rettifica da Angelo Artico per agevolare lo smaltimento delle piene. Sono stati proposti degli schemi idrografici per i principali progetti di sistemazione dei fiumi Brenta e Bacchiglione fino all'anno 1777. Anton Maria Logna ha proposto una regolazione delle acque a Padova, che prevede il collegamento diretto tra il Bacchiglione, il Bassanello e il canale Roncajette. L'idea è stata ripresa un secolo più tardi dall’idraulico toscano Vittorio Rossombrone. È stato costruito un canale scaricatore delle piene che ha origine nell'Ottocento ed è stato reso navigabile negli anni Trenta del Novecento. Il nome "Guizza" deriva dal termine longobardo Vìzha, che significa bosco. Il territorio a Sud di Padova, infatti, era paludoso e vi sorgevano estesi boschi naturali prima che la città si estendesse urbanisticamente. La storia della Guizza, da quando era una stazione di posta alla sua incorporazione nella città, è al centro di gran parte della narrativa dello scrittore padovano Piero Sanavìo. Il quartiere Guizza è conosciuto dal 1016, ma i primi insediamenti risalgono al periodo dell’Impero romano. Sono datate fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. alcune anfore ritrovate nel 2009 in via dei Salici durante i lavori di costruzione dell'impianto sportivo. I primi ad abitare questo quartiere furono i cosiddetti capofamiglia con le rispettive famiglie. In seguito i Romani abbandonarono il quartiere, che si riempì di foreste e di corsi d’acqua. A partire dal 1630 il Bassanello fece parte della Guizza. La Guizza nel Novecento era un sobborgo di Padova. Essa era caratterizzata da case coloniche sparse e da ville di ricchi proprietari, costruite in Via Wollemborg e in via Fogazzaro. Nel 1919 fu fondata in via Guizza 14 la fabbrica di giocattoli Ingap (Industria Nazionale Giocattoli Automatici Padova) che nel 1938 giunse a impiegare circa 600 lavoratori e divenne una delle fabbriche di giocattoli più importanti a livello internazionale in uno spazio di oltre 15.000 metri quadrati. Si producevano giocattoli in latta ma anche innovative automobili, trenini, aerei a movimento meccanico. All'apice del successo la fabbrica produceva fino a 400 modelli diversi. La concorrenza straniera e l'avvento della plastica portarono l'Ingap a un inesorabile declino che portò alla chiusura nel 1972. Nel 1922 fu costruito il tempietto dedicato alla Madonna di Lourdes, che era invocata per proteggere i raccolti agricoli. Nel 1981 il gruppo terroristico delle Brigate Rosse rapì il generale statunitense James Lee Dozier, che fu liberato dopo avere trascorso 42 giorni di prigionia in un appartamento di via Pindemonte. Tre sono le chiese presenti nel quartiere Guizza: la chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta, inaugurata il 23 ottobre 1892; la chiesa dei Santi Angeli Custodi, inaugurata il 31 agosto 1957 e Santa Teresa del Bambino Gesù, inaugurata il 1 ottobre 1973. Come in tutta la città la religione più diffusa è quella cattolica. Il IX Istituto Comprensivo "Ricci Curbastro" comprende: Scuola primaria "Ricci Curbastro" Scuola primaria "Oriani" Scuola secondaria di I grado "Marsilio da Padova" Scuola primaria "E. Cornaro" Scuola dell'Infanzia "L'Aquilone" Dal 25 novembre 2019 è attivo un punto di erogazione del CPIA (Centro Provinciale per l'Istruzione degli Adulti) di Padova presso la ex casa del custode della scuola "Ricci Curbastro": vengono erogati corsi di licenza media e di lingua italiana per adulti. Pier Giovanni Zanetti, Bassanello e Guizza, Padova, La Galiverna, 1987. Pier Giovanni Zanetti, Acque di Padova, Verona, Cierre, 2013. Pier Giovanni Zanetti, Bassanello tra acque e ponti, Padova, La Galiverna, 1986. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Guizza Guizza: quartiere 4 Sud-Est, su padovanet.it. 9° Istituto Comprensivo, su 9icpadova.edu.it. Guizza: Storia, Vita e Prospettive del Quartiere, su mediaspace.unipd.it.

Villa Molin
Villa Molin

Villa Molin è una villa veneta di Padova, nella località di Mandria, progettata nel 1597 dall'architetto vicentino Vincenzo Scamozzi (1548 – 1616), architetto, scenografo, trattatista di ampia cultura operante a Vicenza e nell'area veneziana, dove fu la figura più importante tra Andrea Palladio e Baldassare Longhena. Tra le sue opere più importanti vi sono le Procuratie Nuove di Piazza San Marco, la chiesa di S.Nicolò da Tolentino che lo resero celebre tra i patrizi veneti tra cui la famiglia Molin. È caratterizzata da una pianta centrale quadrata e ingentilita dall'elegante pronao con colonne ioniche che si affaccia sul canale di Battaglia. La planimetria della villa mostra una straordinaria coerenza geometrica, basata sul quadrato, che determina la forma sia della villa che della sala centrale. La struttura dei volumi è particolarmente nitida, articolata nel blocco principale, la copertura emergente dalla sala centrale e la loggia sul fiume. Quest’ultima è una vera e propria sala aperta, una sorta di belvedere da cui ammirare l’esterno, senza però che vi siano scale che consentano di scendere. La sala centrale è maestosa, ottenuta con due cubi sovrapposti, una sorta di cortile esterno, illuminato dall’alto non da un oculo ma da quattro grandi finestre termali. Il pianoterreno è un vero e proprio corpo di fabbrica in sé compiuto, articolato intorno a una vasta sala quadrata con una virtuosistica volta ribassata. La villa affonda le sue origini nell'epoca feudale: pare infatti che qui sorgesse il castello della Mandria, eretto nel 905 da Gauslino Transalgardi sulle terre che la sua famiglia governava, in qualità di conti, sin dal 775. Nel 1183 l'imperatore Federico Barbarossa confermò i privilegi dei Transalgardi a una loro diramazione, i Forzatè Capodilista. Un documento del 1470 attesta che Gabriele Capodilista lasciò alla moglie Romea una «Domus magna, cum corte horto, bruolo, gastaldia [...] in villa Mandria propte pontem altum». Alla metà del secolo successivo i Capodilista ricostruirono la chiesa del villaggio e, con l'occasione, la stessa residenza. Nello stesso periodo fanno la sua comparsa i Molin, patrizi veneziani, che cominciano ad acquistare proprietà alla Mandria spesso dagli stessi Capodilista. Già nel 1550 essi dichiarano il possesso di una «casa di muro e brolo per uso». Nel 1597 Nicolò Molin di Vincenzo, all'apice della sua carriera come ambasciatore della Repubblica di Venezia, affidò all'architetto Vincenzo Scamozzi, il progetto di una residenza di campagna degna della sua famiglia. Le esigenze di lavoro e di rappresentanza della famiglia Molin richiedevano una villa che dominasse il paesaggio e fosse in stretto contatto con il fiume. Per rendere omaggio alla fama della famiglia fu scelto il più prestigioso architetto del tempo nella città di Venezia, appunto Vincenzo Scamozzi. I lavori iniziarono già alla consegna del progetto, ma nel 1608 il committente morì improvvisamente. Il complesso tornò quindi ai Capodilista grazie al diritto di prelazione. Nel 1684 Sigismonda Capodilista lasciò la villa ai figli Naimero e Pio Conti, alla cui famiglia rimase sino al 1768 quando morì Carlo Vincenzo Conti. In quell'occasione, il commissario liquidatore Giovanni Belli vendette la villa a Caterina Sagredo Barbarigo, ma già pochi anni dopo la comprò Antonio Capodilista. Tornata così ai suoi antichi proprietari (ai quali si deve un radicale restauro concluso nel 1777), nel 1778 passò per eredità agli Emo (detti Emo Capodilista in seguito al matrimonio tra Leonardo Emo e Beatrice Capodilista). Dopo il 1812 la villa passa a Paolina Drusilia in Vettor Pisani Moretta, successivamente alle famiglie Pisani, Vanni, Dondi dall'Orologio. A questi si deve un restauro che risistema un bene ormai degradato. Nei primi anni novanta dell'Ottocento si sottopongono a restauro conservativo la copertura, la volta centrale affrescata e le pertinenze esterne quali intonaci a marmorino, lapidei e statuaria. Un annesso passò invece alla famiglia Giusti del Giardino che lo trasformò nell'odierna villa Giusti. Fu qui che, il 3 novembre 1918, venne firmato il noto armistizio di Villa Giusti dopo alcuni giorni di negoziati tenuti proprio a villa Molin. Nel 1955 fu acquistata dall'imprenditore Iginio Kofler al quale si devono nuovi lavori di restauro. L'edificio rispetta perfettamente, eccetto che per la posizione delle scale, aggiunte nell'Ottocento, il progetto rappresentato da Scamozzi nel suo trattato. La nitida struttura dei volumi (corpo di fabbrica, loggia e copertura emergente della sala centrale) sono elementi caratterizzanti della villa. La villa, in quanto principale residenza dei Molin, situata in un contesto suburbano, combina infatti soluzioni consolidate nelle architetture di villa con altre più propriamente urbane. L’edificio si affaccia direttamente sugli argini del canale Battaglia, senza alcuna mediazione rispetto al territorio: la grande loggia, alta sul pianterreno, è allineata ai muri che chiudono la proprietà lungo la via pubblica. La loggia non solo non è al centro del complesso costituito da villa e fabbriche rurali, ma non è nemmeno il luogo da cui si accede alle stanze principali. La loggia di villa Molin sembra disegnata a partire da un esempio antico: come nella sala del portico di Ottavia, e diversamente dalle logge sporgenti della Rotonda o di villa Chiericati, le colonne d’angolo diventano pilastri con entasi agganciati ai muri laterali. Coperta da una volta a padiglione, con dimensioni molto vicine a una camera di “duoi quadri in lunghezza” ampia quanto la pianta centrale ma indipendente dalla suddivisione interna degli ambienti, la loggia appare piuttosto come una sala aperta, e se si considerano le balaustre interposte alla colonne e l’impiego di capitelli ionici con volute diagonali, non sembra errato considerare il pronao una facciata che richiede una visione di scorcio, offrendosi allo sguardo dei passanti sulla via e sul canale come su una strada cittadina. Il pianterreno, oggi in parte nascosto dall’innalzamento degli argini è un piano di fabbrica in sé compiuto e non, come nella Rocca Pisana, un basamento sul quale impostare il livello principale: è interamente rivestito da un bugnato piatto, ha ingressi indipendenti su ogni lato, e il rapporto dimensionale (14 piedi) rispetto al piano nobile (24 piedi) supera, anche se di poco, quello già notevole di 1:2 utilizzato alla Malcontenta, avvicinandosi piuttosto a quello dei palazzi di Sanmicheli o alla villa Verlato. Il piano nobile ha la stessa divisione planimetrica del pian terreno, focalizzata sull’ampia sala centrale quadrata che impegna tutta l’altezza del fabbricato, prendendo luce dalle ampie finestre del tiburio. I quattro vestiboli voltati formano con l’aula centrale un impianto a croce greca e definiscono gli spazi delle stanze private e dei salottini laterali. ll salone centrale, presenta tradizionali elementi rinascimentali, come le finestre incorniciate da serliane al primo piano, il ripetersi di figure geometriche regolari sia in pianta che in alzato. Queste caratteristiche non rispondono unicamente a un’esigenza “intellettuale” dell’architetto, ma sembrano anche il risultato di nuove esigenze della committenza, a partire dalle quali Scamozzi giunge a una nuova interpretazione della villa a pianta quadrata già precedentemente sviluppata da Serlio, Palladio e dallo stesso architetto. A differenza di Palladio, per cui i cortili sono spesso dei vuoti di risulta rispetto al disegno del costruito o elementi di collegamento tra diversi corpi edilizi, per Scamozzi il cortile è baricentro fisico e concettuale dell’edificio, costantemente quadrato, intorno al quale si organizza la planimetria. Nel caso di Villa Molin si trasforma in un eccezionale vuoto a tripla altezza, quasi un cortile coperto. Nel fronte principale sopra il timpano, che a sua volta è elevato sul colonnato, tre statue acroteriali, non originali, decorano la copertura. Le altre facciate hanno finestre architravate che incorniciano la serliana centrale e piccole finestre al sottotetto. Quest’ultimo è a quattro falde e nel centro è sormontato da un tiburio quadrato, aperto in ampie finestre a lunetta, a sua volta coperto a piramide. Le stanze al piano terreno, compresa quella centrale, hanno soffitti voltati in cotto. Il ballatoio, su cui si aprono le porte delle stanze del piano superiore, è sostenuto da un cornicione poggiato su pilastri di ordine dorico; una modanatura aggettante, in corrispondenza della falda del tetto, sottolinea l’imposta della volta. Il riquadro centrale rappresenta una cornice in stucco, mentre quattro vele sono sistemate ai lati dei finestroni. Nessun elemento in pietra, tranne il davanzale, segna le finestre e diversamente che in altre fabbriche isolate – come nella Rocca Pisana dove Scamozzi, pur distinguendosi nettamente, tratta prospetto principale e laterali con pari dignità formale – qui la serliana è definita solo dall’architrave appena sporgente, ma i sostegni sono semplicissimi pilastri quadrangolari senza capitello. Inigo Jones, nel suo viaggio del 1613-1614, visitò villa Molin con molto interesse. Ancora se ne rammentava nel 1636 quando in una nota ai Quattro Libri di Palladio, discuteva il rapporto fra colonne su piedistallo e balaustrate. Dichiara infatti di prendere spunto da villa Molin per le colonne corinzie poggianti sul pavimento della loggia, senza piedistallo “come ho fatto a Greenwich, nella loggia verso il parco, e come ho visto a Ponte della Cagnia vicino a Padova in una villa del Clarissimo Molin”. Questa soluzione venne praticata anche in molte fabbriche “palladiane” dell’Inghilterra fra XVII e XVIII (per rimanere ad alcuni esempi riportati nel Vitruvius Britannicus: da Gunnesbury House e Amesbury House fino a Wanstead di Colin Campbell), poiché permette di alzare una loggia all’antica sopra un pianterreno di buone dimensioni come richiedevano le moderne esigenze inglesi. John Soane ritrae villa Molin in un disegno del 1780, oltre a lui molti si recheranno in Italia per ammirarne le opere d’arte e si soffermeranno sulla produzione di Scamozzi. La complessa decorazione pittorica del piano nobile si adegua all’impostazione dell'edificio seguendo la classica sovrapposizione degli ordini nelle colonne dipinte e negli altri elementi architettonici inseriti. Il restauro di Kofler riportò alla luce gli affreschi originali, eliminando alcuni decori ottocenteschi non coerenti con la struttura e l’originale visione della villa. Gli affreschi sono attribuiti a Pietro Antonio Cerva (1640-1683 circa). Nel salone centrale virtuali architetture, dipinte in prospettiva, ricoprono per intero le pareti e la volta, creando un insieme di grandiosità che ricorda le aule termali romane studiate in gioventù da Scamozzi. Una reale balaustra lignea, dipinta a imitazione del marmo, individua i diversi piani e abbraccia tutto lo spazio. Al di sotto di questa scanalate lesene doriche inquadrano gli archi d’accesso. La policromia accentua la varietà e l’illusione di profondità degli spazi. Sopra la balaustra, le architetture virtuali propongono colonne ioniche di marmorino verde con capitelli e basi dorate. Nicchie e cammei ovali in monocromo violetto abbracciano e sovrastano le quattro porte centrali. Vi si narrano episodi della vita di Enea, il più valoroso dei Troiani dopo Ettore. Al di sopra delle otto porte angolari, finti cassettonati e vasi di fiori, contribuiscono ad accentuare la dimensione prospettica di tutto l’impianto quadraturistico. La volta si innalza da un lineare cornicione dipinto; negli angoli, colonne corinzie di marmo rosso delimitano otto profonde soggette da cui si affacciano musici e altre persone. Gli stemmi delle famiglie Capodilista e Conti sono sui quattro angoli. Nelle quattro vele sono raffigurati quattro putti che rappresentano le stagioni, segno del passare del tempo e tema frequente delle raffigurazioni nelle ville. Nel riquadro al centro sono raffigurati Aurora e Titone, sotto lo sguardo di Diana e di due amorini. Il mito narra che la dea Aurora si innamorò dell’eroe troiano Titone, ma si dimenticò di chiedere per lui l’eterna giovinezza. Alla fine, ridotto a sola voce lo trasformò in cicala. Nei quattro vestiboli voltati a botte, le sovrapporte sono ornate da cartigli con vedute di ville della famiglia Capodilista, compresa Villa Molin. Oltre ad essere un ampliamento della superficie del salone, i vestiboli, che formano con l’aula la croce greca, servono per dividere in gruppi distinti le stanze padronali ed i salottini razionalmente disposti. Ne risultano quattro appartamenti distinti per i quali il salone è il luogo comune di rappresentanza e di ritrovo, ideale vastissimo e fresco soggiorno estivo, riparato ed elegantemente decorato. Gli affreschi creano un prolungamento del salone utilizzando gli stessi colori, luminosi e dorati movimentando il ricco telaio architettonico e prospettico. Fanno da originale contrasto i leggeri e delicati stucchi realizzati nel tardo settecento dalla famiglia Capodilista che decorano con volute, tralci e camei le camere e i salottini. Considerato uno dei più bei parchi storici, il giardino di villa Molin si estende su 3,3 ettari, è circondato da un'alta recinzione. Il giardino all'italiana con viali di bosso e statue si basa sul progetto originario di Vincenzo Scamozzi. Il giardino romantico ha piante secolari e al tempo in cui la villa era abitata da Igino Kofler aveva un campo da tennis e tre buche da golf. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Villa Molin Sito ufficiale, su villamolinpadova.com.

Chiesa di San Michele Arcangelo (Padova, Pozzoveggiani)
Chiesa di San Michele Arcangelo (Padova, Pozzoveggiani)

La chiesa di San Michele Arcangelo è una chiesa cattolica di origine medievale, situata a Pozzoveggiani, località compresa nella frazione Salboro di Padova (a circa 5 km dal centro storico, lungo il vecchio tracciato della via Annia). Una prima chiesa venne edificata tra il VI-VII secolo era una semplice cella sue dimensioni ridotte e di forma cubica ed aveva un anomalo orientamento con la facciata rivolta ad est e l'abside ad ovest. La chiesa fu ampliata nel XII secolo con impianto basilicale a tre navate e tre absidi semicircolari e facciata a forma di capanna. La chiesa è degna di nota per due cicli di affreschi, resti della cella primitiva e dell'abside antico: il primo gruppo è datato X-XI secolo e raffigura gli apostoli posti tra gli archi di un colonnato; le figure presentano i caratteri tipici del periodo carolingio-ottoniano. Il secondo gruppo si trova nell'abside, dove vi è un Cristo Pantocratore affiancato dai simboli degli Evangelisti (tetramorfo) e teoria di santi ed apostoli, un pellicano che nutre i suoi piccoli; questo gruppo risale al XII-XIII secolo. Dietro l'altare sono affrescati dei cavalieri armati, un pavone cacciato da una figura metà uomo e metà uccello, una civetta, simbolo raramente rappresentato all'interno delle chiese, in quanto rimanda al paganesimo e al culto della dea Atena, dea della saggezza (un esempio è presente nella chiesa di Notre Dame a Digione). Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa di San Michele a Pozzoveggiani Chiesa di San Michele Arcangelo, su BeWeB, Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana. Sito di Legambiente Padova, su salvalarte.legambientepadova.it. URL consultato l'8 agosto 2014 (archiviato dall'url originale il 16 febbraio 2019).

Paltana
Paltana

Paltana è un sobborgo del comune italiano di Padova. Situato a sudovest del centro storico, il quartiere si incunea tra la riva meridionale del Bacchiglione e quella ovest del canale di Battaglia, sua diramazione. Confina a ovest con Voltabrusegana e a sudovest con Mandria. A est, oltre il canale di Battaglia, si estende il Bassanello. Come suggerisce il toponimo (dal veneto paltàn "pantano"), Paltana era in origine una località paludosa influenzata dalle piene del Bacchiglione. Solo alla fine dell'Ottocento importanti lavori di bonifica rafforzarono le rive del fiume e resero il territorio coltivabile, favorendone il popolamento da parte di famiglie contadine ma anche di borghesi, come ancora dimostra la presenza di ville di stile eclettico. Nel secondo dopoguerra avvenne una nuova crescita urbanistica del quartiere, che vide tra l'altro la costruzione della chiesa parrocchiale e della piscina olimpionica. La parrocchia di San Giovanni Bosco è stata istituita nel 1957, ricavandone il territorio dalla preesistente parrocchia di Mandria (porzioni più piccole derivarono da Voltabrusegana e dal Bassanello). Inizialmente la si voleva intitolare allo Spirito Santo, ma l'allora vescovo Girolamo Bortignon, sapendo che i Salesiani desideravano aprire una loro opera a Padova, la affidò a questi dedicandola a don Bosco. La Parrocchia è stata guidata dai Salesiani fino al 29 Agosto 2021, e successivamente è tornata sotto la guida della Diocesi di Padova, che ha anche acquisito dai Salesiani la proprietà dell'Oratorio (patronato) e delle aree esterne attigue. La chiesa, invece, venne costruita a partire dal 1956 su un terreno donato da Ester Pasqualigo vedova Baccaglini. Venne benedetta il 31 ottobre 1957, ma i lavori proseguirono sino alla consacrazione dell'8 giugno 1963, ad opera del vescovo Bortignon e alla presenza del rettor maggiore dei Salesiani, Renato Ziggiotti. Nella controfacciata è esposta una tela del XVI secolo attribuita a Domenico Campagnola che raffigura la Madonna col Bambino e i santi Giovannino, Antonio abate e Caterina d'Alessandria; l'opera proveniva dall'oratorio della Beatissima Vergine di via Armistizio, annesso alla demolita villa Lion. Degni di nota anche una statua in legno del patrono, realizzata da Giacomo Vincenzo Mussner e donata nel 1969 dagli ex allievi del vicino collegio, e il paliotto d'altare a bassorilievo, di Luigi Strazzabosco. La presenza dei Salesiani nel quartiere Paltana non è terminata, proseguendo l'attività delle altre due opere attive ed inserite nel tessuto connettivo del quartiere e della città: il Collegio Universitario Don Bosco (convitto) ed il Piccolo Teatro (Piccolo Teatro Don Bosco).

Museo veneto del giocattolo
Museo veneto del giocattolo

Il Museo Veneto del Giocattolo ha sede a Padova, zona Mandria, presso il centro polifunzionale Civitas Vitae. Il Museo è nato del 2006 per conservare e valorizzare una collezione di giocattoli, da fine Ottocento agli anni Cinquanta, formata grazie alla generosità di alcuni collezionisti. I giocattoli conservati ed esposti nelle sale del Museo rappresentano un'importante testimonianza artistica e artigianale, ma soprattutto ricoprono un ruolo fondamentale nella valorizzazione della dimensione della memoria e della relazionalità. Il Museo Veneto del Giocattolo è aperto tutti i giorni ed è ad ingresso gratuito. I giocattoli esposti al Museo Veneto del Giocattolo appartengono a diverse tipologie, dalle automobili ai treni, dalle navi agli aerei, dalle bambole ai peluches, dai soldatini ai giochi di fantasia. Ad ogni tipologia di giocattolo è dedicata una sezione del percorso espositivo, che comprende inoltre una sezione dedicata esclusivamente ai giocattoli in latta prodotti dalla ditta padovana Ingap. Negli anni la collezione è accresciuta, aprendo uno sguardo anche ai giocattoli che maggiormente hanno caratterizzato gli ultimi vent'anni: i videogiochi. Il Museo Veneto del Giocattolo offre infatti un'esperienza di visita interattiva, dando la possibilità ai suoi visitatori di giocare con la console Nintendo DS, una delle console più famose prodotte nell'ultimo ventennio. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Museo veneto del giocattolo Sito ufficiale, su museovenetogiocattolo.it.

Santuario di San Leopoldo Mandic
Santuario di San Leopoldo Mandic

La chiesa della Trasfigurazione oggi conosciuta più come Santuario di San Leopoldo Mandic, è un edificio religioso di origine cinquecentesca che si innalza in contrà Santa Croce a Padova. Fu fondata come chiesa conventuale nel XVI secolo da una comunità di Frati Cappuccini che ancora la reggono. Quasi completamente distrutta durante la seconda guerra mondiale, fu in seguito ricostruita. L'interno è ricco di interessanti tele del Cinque e Seicento. È meta di un costante flusso di pellegrini che si recano in visita alla tomba di san Leopoldo Mandic, collocata in un locale attiguo alla chiesa, presso la stanzetta dove il santo confessava. L'edificio sacro è recente, in quanto fu interamente ricostruito dopo la devastazione causata dal bombardamento aereo alleato del 14 maggio 1944, ma la presenza dei frati in città data da oltre 500 anni. I cappuccini giunsero a Padova nel 1537, insediandosi inizialmente alle porte della città. Dopo vari tentativi di trovare una sede in città, riuscirono ad installarsi nel 1554 nel borgo di Santa Croce, nel luogo in cui le monache di Sant'Agata e Santa Cecilia avevano una grande casa con edifici annessi e un grande orto. La realizzazione del convento avvenne in più tempi: la prima chiesa, realizzata nel 1581, era già stata distrutta nel 1811 e in seguito riedificata (1824-1825). L’attuale è opera dell’architetto Giovanni Morassutti e fu consacrata nel 1950. Lo stile è quello tipico delle chiese francescane. L'aula liturgica, composta da un'unica navata arricchita da alcuni altari laterali, conduce all'ampio presbiterio, al centro del quale, dietro l'altare comunitario, si staglia un grande ed artistico crocifisso ligneo, opera di Luigi Strazzabosco (1895-1980). Sullo sfondo del coro prende posto un maestoso organo: costruito nel 1989 dall'artigiano Gastone Leorin, restaurato ed ampliato nel 2019 su progetto del maestro organista Alberto Sabatini, è dotato di un magniloquente prospetto scenografico e di particolarissimi timbri sonori. Nell'ultimo altare, a sinistra, è conservata la statua della Madonna scampata al bombardamento che, durante la seconda guerra mondiale, distrusse quasi tutto l'edificio sacro precedente l'attuale. Valorizzano ulteriormente la Chiesa alcune pregiate tele: tra tutte vanno ricordate la Trasfigurazione di Gesù, di Dario Varotari (XVII sec.), la Gloria di San Leopoldo, con la B. V. Maria e gli Angeli, di G.B. Tiozzo (XX sec.), e L'incoronazione della Vergine (XVI sec.). Chiese di Padova Diocesi di Padova Monumenti di Padova Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su santuario di San Leopoldo Mandic Sito internet del santuario di S. Leopoldo Mandic a Padova, su leopoldomandic.it. Pagina Facebook del santuario di S. Leopoldo Mandic a Padova, su facebook.com.

Porta Santa Croce (Padova)
Porta Santa Croce (Padova)

Porta Santa Croce è una delle principali porte d'accesso delle mura cinquecentesche di Padova. La porta attuale prese il posto di quella fatta costruire dai Carraresi e fu iniziata subito dopo l'assedio di Padova (1509), avvenuto nell'ambito della guerra di Venezia contro la Lega di Cambrai. Il nome Porta Santa Croce e la sua collocazione, nell’area sud del tracciato delle mura di Padova, risalgono al periodo Carrarese, quando Francesco III, detto "Il Vecchio", fece erigere nel 1372 degli spalti di terra a protezione dei borghi a sud ed a est della città, in particolare per i borghi di Santa Croce e Ognissanti. Per la realizzazione di queste opere di difesa lavorarono tutti i cittadini. Tra il 1374 e il 1377 le fortificazioni vennero completate interamente in muratura. La realizzazione di porta Santa Croce prevista nell'ampliamento della cinta meridionale da parte di Francesco III, non corrisponde alla collocazione della porta attuale: poiché il tracciato della terza cerchia muraria seguiva l'andamento sinuoso del Bacchiglione (il fiume vecchio oggi non più visibile), la porta di allora risultava più arretrata rispetto a quella attuale. Inoltre dalla cartografia quattrocentesca sappiamo che era l'unica porta prevista nell'espansione meridionale. Essa era caratterizzata da una torre ottagonale e recintata da una cinta quadrangolare forse divisa in due parti. La torre rimase presente ed isolata, ma venne demolita in parte nel 1737-1740 per fornire materiale per la ricostruzione della chiesa, infine venne interamente abbattuta nel 1787. Secondo gli studiosi è possibile che essa testimoni la presenza di apparati difensivi antecedenti l'ampliamento di Francesco III e risalenti al tempo in cui si erigevano torri isolate per la difesa dei territori limitrofi. Scavi archeologici del 1982 potrebbero aver individuato le fondazioni dell'antica porta ma necessitano di approfondimenti. Dopo la resa di Francesco III Padova venne presa dai veneziani e nel 1509 la Repubblica di Venezia ebbe la necessità di difendersi dagli attacchi da parte della Lega dei Cambrai. In questa occasione la città si preparò all'assedio: le mura medioevali vennero abbassate e rinforzate all'interno da terrapieni, così da assorbire al meglio i colpi dell'artiglieria. Dove le mura era più esposte vennero eretti bastioni provvisori in terra e palizzate lignee per appostarvi le artiglierie e proteggere le mura, inoltre vennero scavati nuovi fossati sia all'interno che all'esterno della cinta e iniziò l'opera del guasto, che negli anni successivi giunse alla profondità di un miglio, per la quale vennero abbattuti tutti gli edifici e gli alberi ad alto fusto attorno alla città con lo scopo di avvistare meglio i nemici. Dopo i lavori a rafforzamento della cinta, seguirono altri assedi. A marzo del 1517 viene pubblicata la relazione di Andrea Gritti, che tracciava un programma complessivo di organizzazione militare di difesa dello Stato. Esso comprendeva una serie di interventi concentrati a Padova, proposti da Fra Giocondo, con il fine di rispondere nell'immediatezza alle urgenze belliche. Il nuovo sistema bastionato o Rinascimentale era composto da diverse elementi: ponti, mura, torrioni, bastioni e porte. E' proprio in questa occasione che venne realizzata l'attuale Porta Santa Croce. Il tema degli accessi urbani, ovvero delle porte era molto dibattuto: si era alla ricerca di un “tipo” capace di soddisfare le necessità difensive e al contempo quelle celebrative. Le porte dovevano essere aggiornate in materia iconografica e di difensiva bellica, per difendere al meglio il Paese e rappresentare la sua forza politica e militate attraverso il linguaggio della magnificenza architettonica: gli accessi dovevano rappresentare uno Stato che si ritenesse sicuro. Lo sviluppo sul tema della porta urbana ebbe diversi interpretazioni lungo il corso del Cinquecento: tra il 1500 e il 1521 venne adottato un “tipo” in grado di fondere la funzione militare a quella di rappresentazione della magnificenza della Repubblica di Venezia. Gli accessi dovevano svolgere più funzioni, erano luoghi di transito, di controllo, di chiusura e apertura tra interno ed esterno, esplicitavano simboli dal contenuto politico e sacrale. Erano la facciata della città, l’immagine dell’istituzione politica e facevano da sfondo a feste, cerimonie e manifestazioni. Gli ingegneri militari ritenevano le porte come una falla nel sistema difensivo, mentre gli architetti e gli umanisti le consideravano un completamento di quest’ultimo, in quanto veicolo di celebrazione della sicurezza statale, mediante la trasmissione di messaggi simbolici, attraverso i linguaggi dell’architettura. Durante il XVI secolo molti architetti si espressero sul tema delle porte, tra i quali, Sebastiano Serlio il quale ne considerava la mera funzione architettonica e Francesco Maria della Rovere, che invece considerava la loro duplice funzione. I cambiamenti tecnici in ambito militare, comportarono la modifica della forma architettonica delle porte. La prima tipologia prevedeva una porta di forma cubica, connessa alla cortina ma autonoma. Questa tipologia richiamava ancora la porta medioevale, ed è secondo queste forme che venne progettata porta Liviana, precedente a porta Santa Croce. Lo schema applicato per porta Santa Croce, da Sebastiano Mariani da Lugano deriva dal motivo trionfale. Le porte realizzate successivamente a Santa Croce, presentano via via un apparato architettonico più ricco ed elaborato, segno dell’evoluzione e dell’elaborazione del tema degli accessi urbani. Il baluardo adiacente, venne realizzato nel 1554. Dal 1797, con la caduta della Repubblica Veneta da parte dell'esercito di Bonaparte, iniziò il periodo di obsolescenza delle mura. Tra il 1813 e il 1866 con l'occupazione austriaca la muraglia, ormai utile alla sola difesa rimase inalterata. Con l'annessione di Padova al Regno d'Italia venne proposto un intervento della cortina a sud, la quale avrebbe accolto l'entrata del Re Vittorio Emmanuele II. Egli vi transitò il 1° agosto 1866, come riporta l'iscrizione nella facciata a sud della porta. Il programma del 1517 proposto da Andrea Gritti portò alla modifica e all'interruzione di numerosi assi viari, alcuni dei quali vennero riaperti a fine 1800; in particolare nel fronte sud di Porta Santa Croce vennero riaperte due brecce. Nel 1882 il Comune di Padova acquisterà dal demanio dello Stato la quasi totalità delle mura cittadine: all'atto di acquisto è allegata una planimetria catastale 1:100, lunga più di 13m. Nel 1900 le porte svolgevano la funzione di barriere daziali. La barriera a porta Santa Croce era attiva dalla prima guerra mondiale. Negli stessi anni la rete stradale esterna venne adeguata e parte dei fossati venne interrata per consentire la costruzione della rete ferroviaria. La porta sarà in seguito impiegata come cabina di trasformazione per la rete elettrica dell'illuminazione pubblica. Agli inizi del 1900, il bastione adiacente a Porta Santa Croce ospitò la Scuola all'Aperto Camillo Aita. Porta Santa Croce è collocata volontariamente fuori asse rispetto all’omonimo borgo e interrompe la cortina rettilinea compresa tra i torrioni dell’Alicorno e di Santa Giustina. Venne costruita poco dopo porta Liviana ma a differenza di quest’ultima ha un assetto meno monumentale anche se entrambe sono attribuite a Sebastiano Mariani da Lugano. Nel prospetto è visibile uno schema che riporta al motivo dell’arco trionfale romano realizzato in pietra d’Istria e tripartito da lesene di ordine corinzio composito. Lateralmente l'arco è delimitato da lesene ioniche in trachite, che fungono anche da rinforzi angolari dell'edificio, mentre in alto è definito da un cornicione. Sopra a quest'ultimo è visibile il parapetto della terrazza, che in un secondo tempo venne coperta dal tetto, dal quale si aprono due troniere strombate verso la campagna, e un'unica grande apertura centrale nella facciata rivolta verso la città. Il varco centrale presenta un archivolto continuo senza interruzioni tra stipiti e arco, mentre i due portali laterali entrambi murari sono sormontati da timpani, in particolare il portale a sinistra era la postierla pedonale, come si può dedurre dalla presenza di una gola per la catena del ponte levatoio. Nel fronte, al centro dell'architrave, sono incisi il nome del capitano Giuliano Gradenigo con data 1517 e nel fregio è presente l'intitolazione "Sancte Crucis". In sostituzione al leone abbattuto dai francesi, ora si trova un'iscrizione in memoria dell’ingresso a Padova di Vittorio Emanuele II nel 1866, al quale venne attribuita la porta durante il regno. Le due finestrelle cieche collocate ai lati dell’incisione dovevano ospitare delle sculture o le insegne dei rettori. L'impostazione dei due prospetti è molto simile tra di loro, infatti differiscono solo per la presenza di lapidi, incisioni, targhe e trofei in onore della Signoria, collocati nel prospetto verso la campagna con lo scopo di rappresentazione verso il mondo esterno. Nella facciata rivolta verso la città l’unica iscrizione presente è "Sancte Crucis" e in sostituzione alle finestrelle, sono presenti due nicchie con le statue di San Prosdocimo e San Girolamo. L'impianto di Porta Santa Croce è quadrangolare e presenta un ampio vano interno voltato a botte. Nelle pareti interne sono presenti degli affreschi che ritraggono i quattro santi protettori di Padova: Antonio, Giustina, Daniele e Prosdocimo. Al centro della parete ovest, opposta rispetto agli affreschi, è presente un’iscrizione che rimanda alla realizzazione della porta Santa Croce per decreto del Senato nel 1516 e inexpugnabilis redditta per opera del podestà Ercolano Donato, del capitano Girolamo Pisani e del provveditore Pietro Venier. Una porta nella nella parete più a est dà su una scala che conduce al piano superiore. Il ponte di Porta Santa Croce è il più lungo del fronte bastionato grazie alla vicinanza con il baluardo che permette una maggiore larghezza della fossa. Il ponte ora è per lo più interrato ma è comunque possibile distinguere tre grandi arcate con diversa curvatura e se ne può intravedere una quarta oltre a quella che ha rimpiazzato il ponte levatoio nell’Ottocento. Sotto alla prima arcata visibile passano le acque del canale Alicorno. I materiale utilizzati per la costruzione della cortina del 1500 sono materiali di ripiego e riutilizzo: Bartolomeo D'Aviano utilizzò per l'espansione della cortina che va da Pontecorvo fino a Santa Croce, le pietre della cinta medioevale più interna, che venne demolita assieme alla torre in Prato della Valle nel 1515. I mattoni utilizzati vennero realizzati dalle fornaci dei borghi vicini: da alcune fonti risulta che per soddisfare la richiesta vennero costruite fornaci anche in loco che però vennero fatte demolire dopo il comunicato del 1558 di Tommaso Contarini. Anche la calce proveniva dai borghi vicini, di questa si hanno numerosi fonti che riportano lamentele per la scarsa qualità. La trachite utilizzata per le fondazioni e per i punti più deboli del manufatto proviene dalle cave del monte Lipsi. Stemmi ed insegne come quella del leone di San Marco vennero invece realizzati in pietra d'Istria. Per le fondazioni che si trovavano in prossimità della presenza di acqua, venne utilizzato legname di rovere e di larice, provenienti dai punti di raccolta garantiti da Venezia e dal comune di Cervarese. Giuliana Mazzi, Adriano Verdi e Vittorio Dal Piaz, Le mura di Padova, Percorso storico-architettonico, Il Poligrafo, ISBN 88-7115-135-6. Ugo Fadini (a cura di), Mura di Padova: guida al sistema bastionato rinascimentale, collana Le guide, in Edibus, 2013, ISBN 978-88-97221-13-5. Stefano Zaggia, Parte II: Loredan e l'Architettura, Capitolo I, in Donatella Calabi, Giuseppe Gullino e Gherardo Ortalli, Come la marea, Successi e sconfitte durante il dogado di Leonardo Loredan (1501-1521), Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2023, pp. 45-66, ISBN 978-88-92990-16-6. Adriano Verdi, Le mura ritrovate: fortificazioni di Padova in età comunale e carrarese, Seconda edizione, Panda, 1989, p. 133. Ugo Fadini, Mura medievali di Padova: guida alla scoperta delle difese comunali e carraresi, In edibus, 2017, ISBN 9788897221494. Angelo Portenari, Della felicità di Padova, A. Forni, 1973. Elio Franzin, Angiolo Lenci e Lionello Puppi, Padova e le sue mura, collana Signum guide, Signum, 1982. Mura di Padova Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Porta Santa Croce Sito dell'associazione "Comitato Mura di Padova", su muradipadova.it.

Chiesa di Santa Croce (Padova)
Chiesa di Santa Croce (Padova)

La chiesa di Santa Croce è un edificio religioso settecentesco che sorge nel Borgo di Santa Croce, zona meridionale di Padova contenuta dalle mura cinquecentesche. È l'unica chiesa di Padova in stile rococò. Accanto all'edificio sorge la Scuola del Redentore. Sorta su precedenti edifici, tra l'oratorio del lebbrosario di Santa Croce (1181) e la precedente chiesa officiata dai Somaschi dal 1606. L'attuale edificio fu principiato il 31 luglio 1737 (posa della prima pietra) su progetto di Francesco Vecellio padre somasco (Preposito Generale, letterato ed architetto) e consacrato il 9 giugno 1749 dal Cardinal Carlo Rezzonico. Sino alle soppressioni napoleoniche è appartenuta ai Chierici Regolari di Somasca che alloggiavano nel vicino collegio (ora casa madre delle Suore di San Francesco di Sales). Attualmente è affidata all'omonima parrocchia, gestita dal clero secolare della diocesi di Padova. La facciata pensata come monumentale conclusione della lunga strà di Borgo Santa Croce che parte dal Prato della Valle, è caratterizzata da un importante frontone sostenuto da paraste e semicolonne d'ordine corinzio. Due torricini circolari alleggeriscono l'architettura. La porta maggiore sovrastata da un timpano curvilineo è posta sotto l'iscrizione che ricorda la consacrazione della chiesa. Sopra, un'apertura circolare decorata da volute e da una testina di cherubino. L'architettura si inserisce in quella della tradizione padovana di Girolamo Frigimelica. Il campanile sul fianco della chiesa è novecentesco, costruito tra il 1899 ed il 1907 sull'area dell'antico cimitero, su progetto dell'ing. Giulio Lupati, grazie alle donazioni di alcuni benefattori e dei parrocchiani di s. Croce. Presenta uno stile sobrio ed incline al gusto eclettico del tempo, ed è realizzato in muratura di trachite euganea, rivestita lungo il fusto da un paramento in mattoni pieni, ricoperto da uno strato di intonaco a base cementizia. Il campanile è stato oggetto tra il 2020 ed il 2021 di un accurato restauro conservativo, che ha interessato le superfici esterne, la cella campanaria e il castello campanario stesso, realizzato ex novo. Le decorazioni e le balaustre della cella campanaria nonché quelle sovrastanti sono in pasta cementizia. Nella cella campanaria è presente un concerto di 5 campane a distesa (a slancio), realizzate dalla ditta Daciano Colbachini di Padova, fino al 2020 a suono esclusivamente manuale (caso pressoché unico nella città di Padova), e dopo il citato restauro elettrificate da una ditta di Legnaro. Grazie al tipo di elettrificazione con motore a induzione magnetica, è stata conservata la possibilità di suono manuale. Sul campanile sono presenti due lapidi a ricordare i vari benefattori. A fianco del campanile, sull'edificio della sacrestia, si trova la lapide commemorativa del giovane Ernesto Rossi, tra i benefattori della torre campanaria, che perse la vita in un incidente motociclistico nel 1906, schiantandosi per amara ironia della sorte proprio ai piedi del campanile quasi ultimato. La luminosa aula è caratterizzata da una elegante parata decorativa su cui si inserisce una serie di aperture a finta fenestratura balconata, pensate probabilmente come cantorie ma con evidenti fini estetici. Il presbiterio con abside semicircolare è arricchito da imponenti semi colonne. Il soffitto della chiesa è decorato da lacunari, stucchi e dorature. I Chierici Somaschi affidarono la decorazione del soffitto (esaltazione della Croce) e della cupola ovoidale del presbiterio al veneziano Nicolò Baldassini, mentre il ciclo di tele (altari laterali e abside) fu commissionato a Giambattista Mariotti. La posizione delle tele fu alterata con l'arrivo agli inizi dell'800 della Salus Populi Patavini, veneratissima statua lignea seicentesca della Madonna della Salute, proveniente dall'omonimo oratorio e legata alle pestilenze che nel XVII secolo colpirono la città. Sul primo altare alla destra, dall'ingresso vi è la tela del Mariotti con San Giovanni Nepomuceno, San Francesco di Paola e Sant'Antonio, l'unica posta nella posizione originaria. Nel seguente altare, la Salus Populi Patavini nella posizione della Sacra famiglia del Mariotti, tela dispersa. L'altare maggiore, decorato da una grande varietà di marmi policromi, è alleggerito da due angeli oranti di Antonio Bonazza. Sopra, un ricco baldacchino rococò. Sul retro, il coro ligneo sovrastato da Sant'Elena adora la Santa Croce del Mariotti. Sul primo altare sulla sinistra dall'ingresso, è posta la tela con San Gerolamo Emiliani collocata originariamente sul secondo altare (al posto del Sacro Cuore novecentesco) in sostituzione de L'Angelo custode, posto in controfacciata. Ai lati del catino absidale, all'interno degli antichi matronei chiusi da finestre serliane, è collocato l'organo a canne. Costruito tra gennaio e maggio del 1952 dalla ditta "Fratelli Ruffatti" di Padova, è stato riqualificato ed ampliato nelle risorse foniche nel 2013 dalla ditta "Leorin Gastone" sulla base di un innovativo progetto predisposto dal maestro Alberto Sabatini, organista della Pontificia Basilica di Sant'Antonio a Padova. Oggi lo strumento, dotato di due tastiere, pedaliera e trasmissione elettronica, dispone di 31 registi sonori. Giovambattista Rossetti, Descrizione delle pitture, sculture, ed architetture di Padova, in Padova MDCCLXXX Stamperia del Seminario Giannantonio Moschini, Guida per la città di Padova, Atesa editrice Alberto Sabatini, L'organo della Chiesa parrocchiale di Santa Croce a Padova e il suo ripristino, Arcari editore AA.VV., Padova Basiliche e chiese, Neri Pozza Editore Giuseppe Toffanin, Le strade di Padova, Newton e Compton Editori AA.VV., Padova, Medoacus Archivio parrocchiale di s. Croce Chiese di Padova Diocesi di Padova Monumenti di Padova Wikibooks contiene testi o manuali sulla disposizione fonica dell'organo a canne Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla chiesa di Santa Croce a Padova Sito della parrocchia, su santacrocepd.it.

Scuola del Redentore

La Scuola del Redentore o Oratorio del Redentore è un edificio di origine medievale che si innalza -annesso alla settecentesca chiesa di Santa Croce- nel Borgo Santacroce ora via Vittorio Emanuele a Padova. Era sino al 1810 utilizzato per scopi religiosi, sede della fraglia (confraternita) del Redentore, oggi è pertinenza della parrocchia di Santa Croce. L'edificio fu costruito verso il 1400 e fu affrescato nel corso del secolo successivo, come riportato su una lapide posta sopra il portone d'ingresso. La scuola era la sede della Confraternita del Corpo di Cristo di Santa Croce detta del Redentore, una confraternita religiosa nata verso la fine del XV secolo, come molte altre presenti al tempo nel territorio padovano. Uno degli scopi principali della Confraternita o Fraglia, oltre a dare assistenza spirituale e materiale ai poveri, era la conservazione di un frammento della Vera Croce ritrovata da Sant'Elena contenuta in una preziosa teca gotica, oggi conservata nel tesoro della chiesa di Santa Croce. Dopo il 1810, causa i decreti napoleonici le Confraternite religiose furono abolite e l'edificio fu utilizzato per scopi diversi dalla parrocchia di Santa Croce che ne era intanto divenuta proprietaria. Utilizzato come sala cinematografica durante il Novecento, è stato negli ultimi anni oggetto di restauro. Oggi è ancora pertinente alla parrocchia di Santa Croce. Al suo interno le pareti recano una decorazione ad affresco realizzata da Gerolamo del Santo sul tema dei Misteri della Passione di Cristo chiaramente ispirati dalla presenza in Veneto di Albrecht Dürer. Gli affreschi che raffigurano i Santi protettori sono invece opera precedente di Domenico Campagnola. Interessante la raffigurazione dei quattro Santi protettori di Padova: il San Daniele reca il modellino turrito della città. Dipinti presenti sulla parete orientale: Ultima cena; Cristo davanti al Sinedrio, completamente perduta tranne due pilastri, che ne delimitavano la scena, e tre figure umane; Preghiera nell'orto; Bacio di Giuda, parzialmente danneggiato dopo l'apertura di una finestra nel corso dell'Ottocento; Cristo davanti a Caifa; Sacrificio di Isacco, allusione al sacrificio di Cristo. Dipinti sulla parete meridionale: Santa Giustina e san Prosdocimo, protettori di Padova; Sant'Antonio e san Daniele, protettori di Padova. Dipinti sulla parete occidentale Cristo davanti a Pilato; Cristo incoronato di spine; Cristo cade sotto la croce; Cristo inchiodato alla croce; Crocifissione; Deposizione dalla croce; Deposizione nel sepolcro. Chiese di Padova Diocesi di Padova Monumenti di Padova Chiesa di Santa Croce (Padova) Salvalarte a Padova - un'iniziativa di Legambiente., su salvalarte.legambientepadova.it. Sito della parrocchia di Santa Croce in Padova., su santacrocepd.it. URL consultato il 20 gennaio 2014 (archiviato dall'url originale il 27 novembre 2013).