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Museo regionale di scienze naturali (Torino)

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Il Museo regionale di scienze naturali (MRSN) è un museo scientifico-naturalistico della Regione Piemonte, con sede a Torino. Raccoglie, tra le altre, le collezioni di storia naturale dell'Università degli Studi di Torino, iniziate tra fine Settecento e i primi dell'Ottocento. Istituito nel 1978 con la legge regionale n. 37/78, il museo si trova in via Giolitti nel centro storico torinese, ubicato nell'edificio già sede dell'ospedale San Giovanni Battista, sorto alla fine del XVII secolo ad opera di Amedeo di Castellamonte e completato da altri illustri architetti.

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Museo regionale di scienze naturali (Torino)
Via Giovanni Giolitti, Torino Circoscrizione 1

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Via Giovanni Giolitti 23 bis
10123 Torino, Circoscrizione 1
Piemonte, Italia
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Luoghi vicini

Museo di antropologia ed etnografia dell'Università degli Studi di Torino

Il Museo di Antropologia ed Etnografia dell'Università degli Studi di Torino (MAET) è stato fondato nel 1926 dal medico psichiatra e antropologo Giovanni Marro. È chiuso al pubblico dal 1984 e fa parte del Sistema Museale di Ateneo dal 2014; è in attesa di essere riallestito presso il Palazzo degli Istituti Anatomici di Torino, dove sono già presenti il Museo di Anatomia Umana Luigi Rolando e il Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso. La storia del Museo è collegata a quella dell’omonimo Istituto universitario nato nel 1923 negli ammezzati di Palazzo Carignano e presieduto dallo stesso Marro. Sin da subito, il direttore avviò la costituzione di una ricca collezione di reperti antropologici, frutto di campagne di scavo condotte in Egitto dalla Missione Archeologica Italiana guidata da Ernesto Schiaparelli a cui Marro partecipò in quanto antropologo. Contemporaneamente, il nascente patrimonio del Museo fu arricchito da raccolte di manufatti etnografici di svariata origine e provenienza, nonché manufatti artistici realizzati da ricoverati presso l’Ospedale Psichiatrico di Collegno. Nel 1936 le collezioni furono trasferite nella sede dell’antico Ospedale San Giovanni Battista di Torino. Disponendo di nuovi locali, le collezioni si ampliarono notevolmente. Tra il 1962 ed il 1968 si attuò una nuova fase di ristrutturazione e venne impostato un nuovo percorso espositivo. Nel 1984 il MAET fu costretto alla chiusura al pubblico in quanto i locali dello storico edificio non erano più rispondenti alle nuove norme di sicurezza. Fra il 1996 e il 2014 furono realizzate numerose azioni volte alla presentazione delle collezioni attraverso l’allestimento di mostre tematiche temporanee o itineranti e cicli di conferenze. Con l'adesione al Sistema Museale di Ateneo di Torino nel 2014, è stato avviato il progetto di trasferimento delle collezioni al Palazzo degli Istituti Anatomici. Il nucleo fondante del Museo è la collezione di reperti antropologici egizi che consta di 550 scheletri completi (di cui una sessantina di epoca neolitica) e 600 crani isolati, la maggior parte in ottimo stato di conservazione. Questi reperti provengono dagli scavi della Missione Archeologica Italiana in Egitto fra il 1905 e il 1920 presso le località di Gebelein, Assuan, e Asyut. Oltre al materiale osteologico, la collezione comprende 80 teste di mummia (alcune predinastiche) e più di 30 corpi mummificati o imbalsamati. Il MAET conserva una ricca collezione etnografica, frutto di donazioni avvenute nel corso del Novecento da parte di ricercatori, viaggiatori e antiquari. Il corpus etnografico offre esempi della cultura materiale di una grande varietà di culture. Le provenienze dei manufatti, infatti, toccano tutti i continenti. Di area europea vanno citati i corpora dalle Alpi occidentali e dalla Romania. Dall'Africa sono presenti oggetti raccolti nel Congo belga tra la fine del XIX secolo e i primi anni del XX, ma anche manufatti prodotti in Africa orientale, in Zambia, in Sud Africa, nel Corno d'Africa e in Libia. Il corpus più consistente è quello asiatico che comprende oggetti provenienti da Afghanistan, Pakistan, India, Cina, Giappone e Giava. Dall'America del nord si contano numerosi cestini e oggetti di uso quotidiano prodotti sulla costa nord occidentale. Il corpus latinoamericano è, invece, composto da manufatti provenienti da Messico, Guatemala, Brasile e dall'area di Gran Chaco. Dal Messico provengono, inoltre, una sessantina di reperti archeologici, molto probabilmente di origine Maya, mentre dal Perù è conservato un reperto umano mummificato risalente alla cultura Chancay. Il museo poi custodisce l’unico Zemi antillano della popolazione Taino in cotone esistente al mondo di epoca precolombiana, rinvenuto a fine Ottocento in una grotta della Repubblica Dominicana. Nella prima metà del Novecento, il fondatore del Museo collezionò anche una raccolta di manufatti artistici realizzati da ricoverati nei Regi Ospedali Psichiatrici di Torino (in particolare di Collegno), dove lavorava come psichiatra. Già il padre, Antonio Marro, Direttore del Mamicomio fra il 1890 e il 1913, aveva espresso interesse per le creazioni artistiche prodotte in ambito manicomiale e aveva iniziato a conservarle. A partire dagli anni 80 del Novecento, la collezione è stata ribattezzata Art Brut, rifacendosi alla definizione del pittore francese Jean Dubuffet. Fra il patrimonio museale si possono inoltre annoverare collezioni archeologiche, collezioni osteologiche varie, collezioni di strumenti scientifici, collezioni cerebrologiche, collezioni di calchi in gesso e in resina e collezioni fotografiche. Infine, il MAET comprende anche una biblioteca storica di 350 volumi e un archivio storico di 5 metri lineari. R. Boano, E. Rabino Massa, «Il Museo di Antropologia ed Etnografia», in: Giacobini (a cura di) La Memoria della Scienza. Musei e collezioni dell'Università di Torino, Torino, Fondazione CRT Ed, 2004 M. Masali, «A History of Anthropology in Turin’s Faculty of Sciences», in: J. Biol. Res., LXXXIV(1), 2011 G. Mangiapane, E. Grasso, Il patrimonio, i non detti e il silenzio: le storie del MAET, in: “Roots&Routes. Research on Visual Cultures”, IX (30), 2019, ISSN 2039-5426. C. Pennacini, «Immagini dell’Africa nel collezionismo italiano di oggetti del Congo», in: Castelli, Laurenzi (a cura di), Permanenze e metamorfosi dell’immaginario coloniale in Italia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000 Musei di Torino (e luoghi d'interesse a Torino in generale) Sito ufficiale, su unito.it. Sito ufficiale

Chiesa di San Michele (Torino)
Chiesa di San Michele (Torino)

La chiesa di San Michele Arcangelo (Qisha Arbëreshe e Shën Mikelit in albanese) è un edificio religioso di Torino, sito in Borgo Nuovo, all'angolo di piazza Cavour con via Giolitti. La chiesa appartiene all'Eparchia di Lungro, circoscrizione della Chiesa cattolica italo-albanese e officia la liturgia secondo il rito bizantino per circa diecimila italo-albanesi emigrati dal sud d'Italia e Sicilia e residenti da decenni in città e in Piemonte La chiesa è stata eretta tra il 1784 e il 1788 su progetto di Pietro Bonvicini, che realizzò anche l'intero isolato di cui fa parte (1788-1795). La chiesa è annessa al complesso del convento dei Padri Trinitari Scalzi del Riscatto degli Schiavi, detti di San Michele, per i quali è stata concepita. Soppressi gli ordini monastici in seguito all'occupazione francese, i Padri Trinitari vennero trasferiti dalla chiesa nel 1801 e da quel momento essa è stata adibita a parrocchia. Seriamente bombardata durante la seconda guerra mondiale, la chiesa ha subito un attento restauro nel Novecento e dal 1965 è adibita alla comunità albanese d'Italia (arbëreshe) di rito bizantino. Nel dopoguerra, periodo in cui in Piemonte è avvenuta l'immigrazione dall'Italia meridionale, numerosi italo-albanesi si sono stanziati a Torino e gli venne assegnata per il loro culto bizantino la chiesa dismessa di San Michele Arcangelo. La parrocchia conta 10.000 fedeli arbëreshë, che provengono in larga misura dalla Calabria e dalla Sicilia; a Torino e cintura sono circa 4.000. Frequentano da tempi recenti la chiesa anche alcune famiglie greche e alcuni slavi (anche ucraini greco-cattolici); si segnala inoltre la presenza di albanesi immigrati post-comunismo dall’Albania. La chiesa ha diffuso in passato il bollettino Arbëresh Piemonte; ora pubblica il foglio domenicale La Domenica (E Diela in lingua albanese). In Italia due sono gli eparchi (vescovi) italo-albanesi per le comunità albanesi d'Italia, con sede in Calabria (Lungro) e Sicilia (Piana degli Albanesi); i fedeli sono circa 80.000. All'inizio i fedeli arbëreshë erano principalmente operai, occupati nell'industria automobilistica in espansione; oggi il quadro professionale è più diversificato. Nella chiesa sono presenti icone, alcune provenienti dai Balcani (Albania, Grecia, ecc.), altre dipinte da membri della comunità. Marziano Bernardi, Torino - Storia e arte, Torino, Fratelli Pozzo, 1975 Berzano L. e Cassinasco A., Cristiani d'Oriente in Piemonte (Popoli in cammino – gli Arbëresh in Piemonte), Torino, L'Harmattan Italia, 1999 M. Moraglio, La cittadella assediata. Parrocchie e nuove chiese a Torino 1945-1965, Torino, 2008 Arbëreshë Chiesa cattolica italo-albanese Edifici di culto a Torino Rito bizantino Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa di San Michele Arcangelo

Chiesa di San Massimo (Torino)
Chiesa di San Massimo (Torino)

La chiesa di San Massimo è un edificio di culto cattolico che si trova nella zona centrale di Torino, in via San Massimo angolo via Mazzini, non lontano da corso Vittorio Emanuele II. Fu costruita tra il 1845 e il 1853 e progettata dagli architetti Carlo Sada e Giuseppe Leoni, ed è dedicata a San Massimo, primo vescovo di Torino. Assieme alla chiesa di San Francesco di Sales, è un esempio di architettura neoclassica dell'Ottocento nel Borgo Nuovo. La chiesa, a ridosso dei giardini Cavour e dall'aiuola Balbo, venne realizzata su sollecitazione nel 1843 degli abitanti del nuovo quartiere, il cosiddetto Borgo Nuovo (l’area compresa tra le attuali via della Rocca, dei Mille, e Mazzini). La commissione giudicatrice del bando di concorso scelse Giuseppe Leoni e Carlo Sada, che la progettarono in gusto tardo-neoclassico. Il lotto di terra venne fornito dal Comune, con 60.000 lire assieme ad altre 90.000 fornite da Carlo Alberto. La prima pietra fu posta nel 1849 e la chiesa venne dedicata il 14 giugno 1853. La chiesa fu danneggiata dai bombardamenti dell'aeronautica militare britannica l'8 dicembre del 1942 e il 13 luglio del 1943. Nell'inverno 1943-1944, il parroco Pompeo Borghezio vi accolse riunioni del Comitato di liberazione nazionale. Durante la guerra egli aiutò ebrei e partigiani e, nel marzo del 1945, ospitò un apparecchio radiotrasmittente per fornire informazioni agli alleati. La chiesa di San Massimo è a croce latina con navata unica. Fu definita da Cavallari-Murat "un palazzo tra i palazzi", per via dell'allineamento perfetto con il reticolo viario del nuovo borgo circostante, dato dalla forma allungata della croce latina e dalla posizione centrale del transetto, che rende il presbiterio lungo quanto l'ingresso. Questo collocamento della cupola e del transetto a metà dell'edificio aiuta a evitare il controsenso strutturale di una cupola montate al di sopra di un frontone, posizionamento criticato Francesco Milizia poiché un tetto a falde (evocato dal frontone classico) non potrebbe sopportare una cupola. Il pronao di San Massimo dunque appare leggero e privo di tale struttura pesante, inserendosi elegantemente nel contesto della piazzatta antistante. L'imponente cupola di 45 metri di altezza è stata affrescata da Paolo Emilio Morgari e ornata all'esterno con statue di profeti di Giovanni Albertoni, Silvestro Simonetta, Giuseppe Raimondi e Giuseppe Dini. La cupola si innesta sulla volta a botte di copertura con un alto tamburo circondata con una serie di colonne di altezza uguale alla calotta semisferica. La facciata neoclassica espone un pronao tetrastilo corinzio con quattro nicchie adornate da statue in marmo raffiguranti i quattro evangelisti opere degli scultori Antonio Bisetti (San Giovanni), Giuseppe Bogliani (Santi Marco e Luca), Santo Varni (San Matteo) donate da Vittorio Emanuele II nel 1853 e realizzate negli anni successivi. Lo spazio interno si presenta a navata unica ipostile con copertura a botte, su modello di provenienza dal neoclassicismo francese (tale la Chiesa di Saint-Philippe-du-Roule) elaborato in Piemonte precedentemente anche da Giuseppe Talucchi. All'interno, nel battistero realizzato da Cesare Reduzzi, la pala della Natività della Vergine del Legnanino (1707). Nell'abside affresco di Francesco Gonin (1853) che raffigura San Massimo che predica ai Torinesi incitandoli a difendersi da Attila . La Pietà, nella cappella di San Giuda Taddeo, appena entrati sulla destra, è opera dello scultore ligure Salvatore Revelli (1816 - 1859) e fu donata dal duca di Genova Ferdinando di Savoia-Genova. Altri affreschi sono opera di Gonin, Gastaldi, Paolo Emilio Morgari, e Quarenghi. L'organo a tre manuali - uno fra i più pregevoli di Torino e completamente ripristinato nel 2015 - è la prima opera considerevole del giovane Carlo Vegezzi-Bossi: lo strumento, presentato all'Esposizione generale italiana di Torino del 1884, è stato riallestito l'anno successivo nella chiesa. Edifici di culto in Torino Wikibooks contiene testi o manuali sulla disposizione fonica dell'organo a canne Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla chiesa di San Massimo Chiesa di San Massimo, su BeWeB, Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana.

Chiesa di San Francesco di Sales (Torino)
Chiesa di San Francesco di Sales (Torino)

La chiesa di San Francesco di Sales detta "delle Sacramentine" è una chiesa neoclassica di Torino. Nel 1839, le monache adoratrici perpetue del Santissimo Sacramento arrivarono a Torino a si stabilirono nel Borgo Nuovo, invitate da alcune dame dell'aristocrazia torinese. L’11 aprile 1843 la regina Maria Cristina di Borbone-Due Sicilie regalò un terreno per una nuova chiesa da dedicare a San Francesco di Sales. La chiesa fu costruita su progetto dell'architetto Alfonso Dupuy (Milano, 1811 - Torino, 1895) tra il 1843 e il 1850. Carlo Alberto visitò la chiesa durante la costruzione e ne lodò l'architettura, definendola tra le migliori della città. La chiesa fu consacrata il 30 marzo 1850 da Alessio Billet. Il pronao fu finito solo nel 1874, su progetto di Carlo Ceppi. Alla raccolta dei fondi necessari per facciata contribuì l’abate Massimiliano Bardesono di Rigras (1838-1879). La chiesa fu in parte danneggiata dal bombardamento del 13 luglio 1943, ed il monastero venne parzialmente distrutto. L'edificio è stato oggetto di restauro nel 2010. La facciata è costituita da un colonnato di sei colonne corinzie in granito, sormontate da un frontone e posate su un’ampia gradinata, in forma di propileo. L’interno presenta un ampio vano rotondo intersecato da una croce, dalle cui estremità si innalzano quattro archi sormontati dalla cupola. Un arco accoglie il portone e un altro il presbiterio, mentre i due archi laterali accolgono le cappelle: quella di destra con gli altari di San Giuseppe e Maria Vergine Addolorata con un altare minore del Sacro Cuore di Maria, mentre la cappella sinistra con gli altari di San Francesco di Sales e della Madonna della Concezione. Le tavole degli altari sono opere di Marabotti di Mondovì Il campanile, distante dalla chiesa e inglobato in una costruzione adiacente nella parte inferiore, non ha aspetti di particolare interesse e il suo concerto di campane deve ancora essere adeguatamente studiato. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa di San Francesco di Sales Chiesa di San Francesco di Sales, su BeWeB, Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana.