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Chiesa di San Massimo (Torino)

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Torino, chiesa di San Massimo (03)
Torino, chiesa di San Massimo (03)

La chiesa di San Massimo è un edificio di culto cattolico che si trova nella zona centrale di Torino, in via San Massimo angolo via Mazzini, non lontano da corso Vittorio Emanuele II. Fu costruita tra il 1845 e il 1853 e progettata dagli architetti Carlo Sada e Giuseppe Leoni, ed è dedicata a San Massimo, primo vescovo di Torino. Assieme alla chiesa di San Francesco di Sales, è un esempio di architettura neoclassica dell'Ottocento nel Borgo Nuovo. La chiesa, a ridosso dei giardini Cavour e dall'aiuola Balbo, venne realizzata su sollecitazione nel 1843 degli abitanti del nuovo quartiere, il cosiddetto Borgo Nuovo (l’area compresa tra le attuali via della Rocca, dei Mille, e Mazzini). La commissione giudicatrice del bando di concorso scelse Giuseppe Leoni e Carlo Sada, che la progettarono in gusto tardo-neoclassico. Il lotto di terra venne fornito dal Comune, con 60.000 lire assieme ad altre 90.000 fornite da Carlo Alberto. La prima pietra fu posta nel 1849 e la chiesa venne dedicata il 14 giugno 1853. La chiesa fu danneggiata dai bombardamenti dell'aeronautica militare britannica l'8 dicembre del 1942 e il 13 luglio del 1943. Nell'inverno 1943-1944, il parroco Pompeo Borghezio vi accolse riunioni del Comitato di liberazione nazionale. Durante la guerra egli aiutò ebrei e partigiani e, nel marzo del 1945, ospitò un apparecchio radiotrasmittente per fornire informazioni agli alleati. La chiesa di San Massimo è a croce latina con navata unica. Fu definita da Cavallari-Murat "un palazzo tra i palazzi", per via dell'allineamento perfetto con il reticolo viario del nuovo borgo circostante, dato dalla forma allungata della croce latina e dalla posizione centrale del transetto, che rende il presbiterio lungo quanto l'ingresso. Questo collocamento della cupola e del transetto a metà dell'edificio aiuta a evitare il controsenso strutturale di una cupola montate al di sopra di un frontone, posizionamento criticato Francesco Milizia poiché un tetto a falde (evocato dal frontone classico) non potrebbe sopportare una cupola. Il pronao di San Massimo dunque appare leggero e privo di tale struttura pesante, inserendosi elegantemente nel contesto della piazzatta antistante. L'imponente cupola di 45 metri di altezza è stata affrescata da Paolo Emilio Morgari e ornata all'esterno con statue di profeti di Giovanni Albertoni, Silvestro Simonetta, Giuseppe Raimondi e Giuseppe Dini. La cupola si innesta sulla volta a botte di copertura con un alto tamburo circondata con una serie di colonne di altezza uguale alla calotta semisferica. La facciata neoclassica espone un pronao tetrastilo corinzio con quattro nicchie adornate da statue in marmo raffiguranti i quattro evangelisti opere degli scultori Antonio Bisetti (San Giovanni), Giuseppe Bogliani (Santi Marco e Luca), Santo Varni (San Matteo) donate da Vittorio Emanuele II nel 1853 e realizzate negli anni successivi. Lo spazio interno si presenta a navata unica ipostile con copertura a botte, su modello di provenienza dal neoclassicismo francese (tale la Chiesa di Saint-Philippe-du-Roule) elaborato in Piemonte precedentemente anche da Giuseppe Talucchi. All'interno, nel battistero realizzato da Cesare Reduzzi, la pala della Natività della Vergine del Legnanino (1707). Nell'abside affresco di Francesco Gonin (1853) che raffigura San Massimo che predica ai Torinesi incitandoli a difendersi da Attila . La Pietà, nella cappella di San Giuda Taddeo, appena entrati sulla destra, è opera dello scultore ligure Salvatore Revelli (1816 - 1859) e fu donata dal duca di Genova Ferdinando di Savoia-Genova. Altri affreschi sono opera di Gonin, Gastaldi, Paolo Emilio Morgari, e Quarenghi. L'organo a tre manuali - uno fra i più pregevoli di Torino e completamente ripristinato nel 2015 - è la prima opera considerevole del giovane Carlo Vegezzi-Bossi: lo strumento, presentato all'Esposizione generale italiana di Torino del 1884, è stato riallestito l'anno successivo nella chiesa. Edifici di culto in Torino Wikibooks contiene testi o manuali sulla disposizione fonica dell'organo a canne Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla chiesa di San Massimo Chiesa di San Massimo, su BeWeB, Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana.

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Chiesa di San Massimo (Torino)
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Torino, chiesa di San Massimo (03)
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Chiesa di San Francesco di Sales (Torino)
Chiesa di San Francesco di Sales (Torino)

La chiesa di San Francesco di Sales detta "delle Sacramentine" è una chiesa neoclassica di Torino. Nel 1839, le monache adoratrici perpetue del Santissimo Sacramento arrivarono a Torino a si stabilirono nel Borgo Nuovo, invitate da alcune dame dell'aristocrazia torinese. L’11 aprile 1843 la regina Maria Cristina di Borbone-Due Sicilie regalò un terreno per una nuova chiesa da dedicare a San Francesco di Sales. La chiesa fu costruita su progetto dell'architetto Alfonso Dupuy (Milano, 1811 - Torino, 1895) tra il 1843 e il 1850. Carlo Alberto visitò la chiesa durante la costruzione e ne lodò l'architettura, definendola tra le migliori della città. La chiesa fu consacrata il 30 marzo 1850 da Alessio Billet. Il pronao fu finito solo nel 1874, su progetto di Carlo Ceppi. Alla raccolta dei fondi necessari per facciata contribuì l’abate Massimiliano Bardesono di Rigras (1838-1879). La chiesa fu in parte danneggiata dal bombardamento del 13 luglio 1943, ed il monastero venne parzialmente distrutto. L'edificio è stato oggetto di restauro nel 2010. La facciata è costituita da un colonnato di sei colonne corinzie in granito, sormontate da un frontone e posate su un’ampia gradinata, in forma di propileo. L’interno presenta un ampio vano rotondo intersecato da una croce, dalle cui estremità si innalzano quattro archi sormontati dalla cupola. Un arco accoglie il portone e un altro il presbiterio, mentre i due archi laterali accolgono le cappelle: quella di destra con gli altari di San Giuseppe e Maria Vergine Addolorata con un altare minore del Sacro Cuore di Maria, mentre la cappella sinistra con gli altari di San Francesco di Sales e della Madonna della Concezione. Le tavole degli altari sono opere di Marabotti di Mondovì Il campanile, distante dalla chiesa e inglobato in una costruzione adiacente nella parte inferiore, non ha aspetti di particolare interesse e il suo concerto di campane deve ancora essere adeguatamente studiato. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa di San Francesco di Sales Chiesa di San Francesco di Sales, su BeWeB, Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana.

Museo di antropologia ed etnografia dell'Università degli Studi di Torino

Il Museo di Antropologia ed Etnografia dell'Università degli Studi di Torino (MAET) è stato fondato nel 1926 dal medico psichiatra e antropologo Giovanni Marro. È chiuso al pubblico dal 1984 e fa parte del Sistema Museale di Ateneo dal 2014; è in attesa di essere riallestito presso il Palazzo degli Istituti Anatomici di Torino, dove sono già presenti il Museo di Anatomia Umana Luigi Rolando e il Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso. La storia del Museo è collegata a quella dell’omonimo Istituto universitario nato nel 1923 negli ammezzati di Palazzo Carignano e presieduto dallo stesso Marro. Sin da subito, il direttore avviò la costituzione di una ricca collezione di reperti antropologici, frutto di campagne di scavo condotte in Egitto dalla Missione Archeologica Italiana guidata da Ernesto Schiaparelli a cui Marro partecipò in quanto antropologo. Contemporaneamente, il nascente patrimonio del Museo fu arricchito da raccolte di manufatti etnografici di svariata origine e provenienza, nonché manufatti artistici realizzati da ricoverati presso l’Ospedale Psichiatrico di Collegno. Nel 1936 le collezioni furono trasferite nella sede dell’antico Ospedale San Giovanni Battista di Torino. Disponendo di nuovi locali, le collezioni si ampliarono notevolmente. Tra il 1962 ed il 1968 si attuò una nuova fase di ristrutturazione e venne impostato un nuovo percorso espositivo. Nel 1984 il MAET fu costretto alla chiusura al pubblico in quanto i locali dello storico edificio non erano più rispondenti alle nuove norme di sicurezza. Fra il 1996 e il 2014 furono realizzate numerose azioni volte alla presentazione delle collezioni attraverso l’allestimento di mostre tematiche temporanee o itineranti e cicli di conferenze. Con l'adesione al Sistema Museale di Ateneo di Torino nel 2014, è stato avviato il progetto di trasferimento delle collezioni al Palazzo degli Istituti Anatomici. Il nucleo fondante del Museo è la collezione di reperti antropologici egizi che consta di 550 scheletri completi (di cui una sessantina di epoca neolitica) e 600 crani isolati, la maggior parte in ottimo stato di conservazione. Questi reperti provengono dagli scavi della Missione Archeologica Italiana in Egitto fra il 1905 e il 1920 presso le località di Gebelein, Assuan, e Asyut. Oltre al materiale osteologico, la collezione comprende 80 teste di mummia (alcune predinastiche) e più di 30 corpi mummificati o imbalsamati. Il MAET conserva una ricca collezione etnografica, frutto di donazioni avvenute nel corso del Novecento da parte di ricercatori, viaggiatori e antiquari. Il corpus etnografico offre esempi della cultura materiale di una grande varietà di culture. Le provenienze dei manufatti, infatti, toccano tutti i continenti. Di area europea vanno citati i corpora dalle Alpi occidentali e dalla Romania. Dall'Africa sono presenti oggetti raccolti nel Congo belga tra la fine del XIX secolo e i primi anni del XX, ma anche manufatti prodotti in Africa orientale, in Zambia, in Sud Africa, nel Corno d'Africa e in Libia. Il corpus più consistente è quello asiatico che comprende oggetti provenienti da Afghanistan, Pakistan, India, Cina, Giappone e Giava. Dall'America del nord si contano numerosi cestini e oggetti di uso quotidiano prodotti sulla costa nord occidentale. Il corpus latinoamericano è, invece, composto da manufatti provenienti da Messico, Guatemala, Brasile e dall'area di Gran Chaco. Dal Messico provengono, inoltre, una sessantina di reperti archeologici, molto probabilmente di origine Maya, mentre dal Perù è conservato un reperto umano mummificato risalente alla cultura Chancay. Il museo poi custodisce l’unico Zemi antillano della popolazione Taino in cotone esistente al mondo di epoca precolombiana, rinvenuto a fine Ottocento in una grotta della Repubblica Dominicana. Nella prima metà del Novecento, il fondatore del Museo collezionò anche una raccolta di manufatti artistici realizzati da ricoverati nei Regi Ospedali Psichiatrici di Torino (in particolare di Collegno), dove lavorava come psichiatra. Già il padre, Antonio Marro, Direttore del Mamicomio fra il 1890 e il 1913, aveva espresso interesse per le creazioni artistiche prodotte in ambito manicomiale e aveva iniziato a conservarle. A partire dagli anni 80 del Novecento, la collezione è stata ribattezzata Art Brut, rifacendosi alla definizione del pittore francese Jean Dubuffet. Fra il patrimonio museale si possono inoltre annoverare collezioni archeologiche, collezioni osteologiche varie, collezioni di strumenti scientifici, collezioni cerebrologiche, collezioni di calchi in gesso e in resina e collezioni fotografiche. Infine, il MAET comprende anche una biblioteca storica di 350 volumi e un archivio storico di 5 metri lineari. R. Boano, E. Rabino Massa, «Il Museo di Antropologia ed Etnografia», in: Giacobini (a cura di) La Memoria della Scienza. Musei e collezioni dell'Università di Torino, Torino, Fondazione CRT Ed, 2004 M. Masali, «A History of Anthropology in Turin’s Faculty of Sciences», in: J. Biol. Res., LXXXIV(1), 2011 G. Mangiapane, E. Grasso, Il patrimonio, i non detti e il silenzio: le storie del MAET, in: “Roots&Routes. Research on Visual Cultures”, IX (30), 2019, ISSN 2039-5426. C. Pennacini, «Immagini dell’Africa nel collezionismo italiano di oggetti del Congo», in: Castelli, Laurenzi (a cura di), Permanenze e metamorfosi dell’immaginario coloniale in Italia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000 Musei di Torino (e luoghi d'interesse a Torino in generale) Sito ufficiale, su unito.it. Sito ufficiale

Palazzo Gualino
Palazzo Gualino

Palazzo Gualino, o Palazzo Novecento, è uno storico edificio di Torino, ubicato al civico 8 di corso Vittorio Emanuele II, che rappresenta uno dei più evidenti esempi di razionalismo italiano. Sorto sul terreno occupato precedentemente da Villa Gallenga compreso tra corso Vittorio Emanuele II e via della Rocca, l'edificio fu progettato nel 1927 dagli architetti Gino Levi-Montalcini e Giuseppe Pagano, su commissione del noto finanziere e mecenate biellese Riccardo Gualino per farne la nuova sede delle sue imprese. Fu realizzato tra il 1928 e il 1930 e secondo quanto riportato dalla stampa di settore dell'epoca, l'edificio fu il primo d'Italia a essere concepito appositamente per ospitare esclusivamente uffici. Al suo completamento, fu acclamato dalla stampa di settore come simbolo della nascente corrente del Razionalismo italiano. Fu sede delle molteplici aziende di Gualino tra cui la SNIA fino al 1932, quando Gualino venne arrestato, costretto al confino e le sue aziende sequestrate e messe all'asta. Dapprima l'intero immobile fu acquisito dalla Fiat e divenne sede dell'ufficio personale del Sen. Agnelli e in seguito fu sede degli uffici dei nipoti Giovanni Agnelli e Umberto Agnelli. Negli anni novanta del Novecento venne acquisito dal Comune di Torino che vi dislocò la sede di alcuni uffici pubblici. A partire dagli anni Duemila divenne parte del Fondo Città di Torino che eseguì un primo, necessario restauro variandone anche la destinazione d'uso da commerciale a misto residenziale. Nel marzo 2012 il Comune di Torino decise di alienare l'edificio, permettendo ai nuovi proprietari di convertirlo, non senza polemiche, a uso esclusivamente abitativo, suddividendolo in unità immobiliari residenziali di prestigio. Nell'estate del 2012 la nuova proprietà aveva svelato l'intento di ristrutturare l'intero edificio, destinandolo prevalentemente a uso residenziale. Questa decisione non tardò a far insorgere polemiche anche tra gli eredi stessi dell'architetto Levi-Montalcini, poiché l'originale natura dell'edificio fu celebre per essere appositamente concepita per ospitare uffici. Tuttavia, l'ambizioso progetto firmato dall'architetto torinese Armando Baietto prevedeva la suddivisione delle superfici in unità immobiliari di prestigio, nonché la realizzazione di una grande autorimessa sotterranea mediante una complessa tecnica edilizia. Nonostante l'avvio dei lavori in pompa magna, il cantiere si interruppe nel 2013 per il fallimento della società che operò la ristrutturazione. L'interruzione dei lavori perdurò fino all'ottobre 2016 quando l'IPI ha rilevato la proprietà dell'edificio. Nel marzo del 2017 sono proseguiti i lavori di recupero che sono stati completati nel 2019, ribattezzando l'edificio Palazzo Novecento. L'edificio coniuga l'avanguardia tecnica e funzionale alla volontà di realizzare un'opera austera ma "antimonumentale". La struttura è caratterizzata dalla simmetria della facciata nettamente suddivisa nei diversi ordini: sette piani sul corso e cinque affacciati sulla via laterale. A scandire ulteriormente questa suddivisione contribuiva la cromìa originale delle facciate che prevedeva un accostamento di giallo chiaro e verde acqua ma la vera innovazione, oltre all'impiego di materiali d'avanguardia, era nella rivoluzionaria disposizione degli spazi. Gli uffici dirigenziali, concentrati agli ultimi piani anziché al consueto piano nobile, furono infatti l'evidente elemento di novità nel contesto architettonico torinese dell'epoca. Nella veranda dell'ultimo piano, caratterizzata dall'ampia vetrata con affaccio sull'antistante Parco del Valentino, aveva sede l'ufficio presidenziale di Riccardo Gualino; inoltre le ampie finestre, il largo uso del cemento armato, la copertura con un tetto pensile e la progettazione contestuale di tutti gli arredi completavano l'opera nella sua interezza. Inizialmente, il primo progetto di ristrutturazione dell'architetto Baietto disegnava una suddivisione delle superfici in 30 unità immobiliari, insieme a un'ampia autorimessa sotterranea da 75 posti auto da realizzarsi con la tecnica "top-down", che avrebbe consentito di effettuare i necessari lavori di scavo per la realizzazione di nuove fondazioni. La variante al progetto dell'ultima ristrutturazione portò Palazzo Novecento a ospitare un totale di 47 unità abitative di varia metratura, accessibili da tre diverse scale indipendenti e la nuova autorimessa di tre piani interrati accessibile da un'ampia rampa d’accesso coperta che contiene oltre 40 box, tutti serviti da presa elettrica per l'eventuale ricarica di un’automobile elettrica. Politecnico di Torino Dipartimento Casa-Città (a cura di), Beni culturali ambientali nel Comune di Torino, Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino, Torino, 1984. Giuseppe Pagano, Architettura e città durante il fascismo, (a cura di Cesare De Seta), Laterza, Bari, 1976. Luigi Ferrario, Andrea Mazzoli (a cura di), Riccardo Gualino. Architetture da collezione, Istituto Mides/Trau, Roma, 1984. Antonino Saggio, L'opera di Giuseppe Pagano tra politica e architettura, Edizioni Dedalo, Bari, 1984. Giorgio Ciucci, Gli architetti e il fascismo. Architettura e città 1922-1944, Einaudi, Torino, 1989 , pp. 42–43 Alberto Bassi, Laura Castagno, Giuseppe Pagano, Laterza, Roma, 1994. Palazzo Gualino, in Agostino Magnaghi, Mariolina Monge, Luciano Re, Guida all'architettura moderna di Torino, Lindau, Torino, 1995, pp. 118-119. Alessandro Martini, Riccardo Gualino. Cultura, industria e architetture a Torino negli anni Venti, tesi di laurea, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, a.a. 1998-1999, relatore Vera Comoli. Michela Rosso, Palazzo Gualino, in Vera Comoli Mandracci, Carlo Olmo (a cura di), Guida di Torino. Architettura, Allemandi, Torino, 1999, p. 184. Emanuele Levi-Montalcini, Anna Maritano, Levi Montalcini e Torino, in «Domus», n. 824, marzo, 2000, pp. 113-120. Fulvio Irace, voce Giuseppe Pagano, in Carlo Olmo (a cura di), Dizionario dell'architettura del XX secolo, Vol. III, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 2003. Gino Levi-Montalcini. Architetture, disegni e scritti, numero monografico di «Atti e Rassegna tecnica della Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino», n. 2, 2003. Patrizia Bonifazio, voce Gino Levi Montalcini, in Carlo Olmo (a cura di), Dizionario dell'architettura del XX secolo, Vol. II, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 2003. Alessandro Martini, Architetture per Gualino, in Vera Comoli, Giuseppe Bracco (a cura di), Torino da capitale politica a capitale dell'industria, Tomo I, Il disegno della città (1850-1940), Archivio Storico della Città di Torino, Torino, 2004, pp. 337-344. Palazzo Gualino (ora uffici pubblici), in Maria Adriana Giusti, Rosa Tamborrino, Guida all'Architettura del Novecento in Piemonte (1902-2006), Umberto Allemandi & C., Torino, 2008, pp. 250–251. Ville e palazzi di Torino Razionalismo Riccardo Gualino Villa Gualino Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su palazzo Gualino Palazzo Novecento, su palazzonovecento.com.

Chiesa di San Michele (Torino)
Chiesa di San Michele (Torino)

La chiesa di San Michele Arcangelo (Qisha Arbëreshe e Shën Mikelit in albanese) è un edificio religioso di Torino, sito in Borgo Nuovo, all'angolo di piazza Cavour con via Giolitti. La chiesa appartiene all'Eparchia di Lungro, circoscrizione della Chiesa cattolica italo-albanese e officia la liturgia secondo il rito bizantino per circa diecimila italo-albanesi emigrati dal sud d'Italia e Sicilia e residenti da decenni in città e in Piemonte La chiesa è stata eretta tra il 1784 e il 1788 su progetto di Pietro Bonvicini, che realizzò anche l'intero isolato di cui fa parte (1788-1795). La chiesa è annessa al complesso del convento dei Padri Trinitari Scalzi del Riscatto degli Schiavi, detti di San Michele, per i quali è stata concepita. Soppressi gli ordini monastici in seguito all'occupazione francese, i Padri Trinitari vennero trasferiti dalla chiesa nel 1801 e da quel momento essa è stata adibita a parrocchia. Seriamente bombardata durante la seconda guerra mondiale, la chiesa ha subito un attento restauro nel Novecento e dal 1965 è adibita alla comunità albanese d'Italia (arbëreshe) di rito bizantino. Nel dopoguerra, periodo in cui in Piemonte è avvenuta l'immigrazione dall'Italia meridionale, numerosi italo-albanesi si sono stanziati a Torino e gli venne assegnata per il loro culto bizantino la chiesa dismessa di San Michele Arcangelo. La parrocchia conta 10.000 fedeli arbëreshë, che provengono in larga misura dalla Calabria e dalla Sicilia; a Torino e cintura sono circa 4.000. Frequentano da tempi recenti la chiesa anche alcune famiglie greche e alcuni slavi (anche ucraini greco-cattolici); si segnala inoltre la presenza di albanesi immigrati post-comunismo dall’Albania. La chiesa ha diffuso in passato il bollettino Arbëresh Piemonte; ora pubblica il foglio domenicale La Domenica (E Diela in lingua albanese). In Italia due sono gli eparchi (vescovi) italo-albanesi per le comunità albanesi d'Italia, con sede in Calabria (Lungro) e Sicilia (Piana degli Albanesi); i fedeli sono circa 80.000. All'inizio i fedeli arbëreshë erano principalmente operai, occupati nell'industria automobilistica in espansione; oggi il quadro professionale è più diversificato. Nella chiesa sono presenti icone, alcune provenienti dai Balcani (Albania, Grecia, ecc.), altre dipinte da membri della comunità. Marziano Bernardi, Torino - Storia e arte, Torino, Fratelli Pozzo, 1975 Berzano L. e Cassinasco A., Cristiani d'Oriente in Piemonte (Popoli in cammino – gli Arbëresh in Piemonte), Torino, L'Harmattan Italia, 1999 M. Moraglio, La cittadella assediata. Parrocchie e nuove chiese a Torino 1945-1965, Torino, 2008 Arbëreshë Chiesa cattolica italo-albanese Edifici di culto a Torino Rito bizantino Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa di San Michele Arcangelo

Chiesa di San Giovanni Evangelista (Torino)
Chiesa di San Giovanni Evangelista (Torino)

La chiesa di San Giovanni Evangelista è una delle chiese che san Giovanni Bosco (conosciuto comunemente come Don Bosco) fece edificare nella Torino del XIX secolo; è sita in corso Vittorio Emanuele II al n. 13, nell'isolato fra via Madama Cristina e via Ormea, in voluta prossimità del Tempio valdese. La chiesa è chiamata "San Giovannino" per distinguerla dalla cattedrale dedicata a San Giovanni Battista, patrono della città. Don Bosco la pensò a lungo, unitamente all'istituto annesso, perché riteneva che per incidere profondamente nella zona non bastasse l'oratorio San Luigi, che aveva fondato nel 1847. Una volta superati gli ostacoli, soprattutto per l'acquisto del terreno, diviso in tanti piccoli appezzamenti, decise di non badare a spese, per ottenere che la chiesa figurasse degnamente fra gli edifici che si venivano allineando lungo il corso dedicato al re Vittorio Emanuele II. L'architetto, conte Edoardo Arborio Mella, disegnò una chiesa ispirandosi allo stile romanico lombardo del XIII secolo. La pietra angolare fu collocata il 14 agosto 1878, con la benedizione dell'arcivescovo Gastaldi. Nel 1882 la chiesa era terminata e il 28 ottobre fu solennemente consacrata. La prima messa fu celebrata da Don Bosco verso mezzogiorno. La chiesa occupa un'area rettangolare di circa 60 m in lunghezza per 22 m in larghezza. Sulla facciata s'innalza il campanile a 45 m di altezza. L'interno della chiesa è diviso in tre navate, quella centrale doppia in dimensioni rispetto alle laterali. La navata centrale termina in un'abside semicircolare, conclusa da una volta a bacino, in cui campeggia un dipinto ad uso mosaico alla bizantina del pittore torinese Enrico Reffo, che raffigura il Calvario e il momento in cui Gesù crocefisso pronuncia le parole del suo testamento: "Donna, ecco tuo figlio", e al discepolo prediletto, san Giovanni: "Ecco la Madre tua". Le navate laterali si prolungano attorno all'abside formando un ambulacro ad anello che circonda la navata centrale. L'arcata di mezzo, che misura 19 m di altezza, e quelle laterali di 8 m, sono sorrette da una serie di pilastri alternativamente dell'altezza di 6 m e di 12 m, dando luogo a 6 arcate per parte: i pilastri sono adorni di colonnette per metà sporgenti, con capitelli cubiformi, ornati con la croce. Nelle cinque finestre circolari sottostanti il dipinto sono rappresentati, su vetro (in ordine da sinistra), san Pietro, san Giacomo, San Giovanni, sant'Andrea e san Paolo: opera del pittore Pompeo Bertini di Milano. I sette medaglioni sulle pareti laterali e sopra la porta centrale (3+3+1) raffigurano i sette vescovi dell'Asia minore nominati nell'Apocalisse, cioè i vescovi delle chiese di Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea. I medaglioni sono opera di Enrico Reffo. Sono pure del Reffo i due grandi quadri sulle pareti laterali del presbiterio, manifestanti l'apostolato e la carità di San Giovanni Evangelista. Nella volta sopra il presbiterio sono dipinti l'Agnello e due gruppi di angeli. Il concetto dell'artista Giuseppe Rollini è tolto dall'Apocalisse: l'Agnello di Dio, Gesù Cristo, rompe i sigilli che chiudevano il libro contenente i futuri destini della Chiesa, mentre i cori angelici sciolgono all'Agnello un inno di lode e di vittoria. Infine, accanto al portale principale, appena entrati sulla destra, campeggia una sontuosa statua dedicata a papa Pio IX, opera dello scultore Francesco Confalonieri, che don Bosco volle come monumento di riconoscenza per gli insigni benefici da lui ricevuti. L'organo, desiderato da Don Bosco, fu commissionato e affidato nel 1882 al Cav. Giuseppe Bernasconi di Varese per la realizzazione. Fu inaugurato nella prima settimana di luglio di quell'anno con concerti mattutini e serali, eseguiti, tra gli altri, da Carlo Galli, Roberto Remondi e dal maggiore organista dell'epoca Vincenzo Petrali di Bergamo. Vi parteciparono almeno cinquantamila persone, paganti il biglietto, come riportano gli annuali. L'organo, a trasmissione meccanica, era già dotato di tre tastiere, una pedaliera di 22 pedali e varie <> quali timpano, rullo e grancassa, tam-tam, un grande meccanismo per unire all'organo le campane del campanile della chiesa, il distacco dei piatti dalla grancassa e il campanello per avvisare il tiramantici. Il giornale L'Unità Cattolica scriveva che il Cav. G. Bernasconi «seppe fabbricare un organo giudicato dagli esperti non solo per migliore di Torino, ma per uno dei migliori d'Italia». Furono rilevati difetti nella funzionalità dello strumento, e intorno alla metà degli anni trenta, si fece restaurare. Lo strumento, costruito secondo i canoni vigenti alla fine dell'Ottocento, e perciò adeguato alle interpretazioni delle musiche di carattere melodrammatico, subì una rivoluzione tecnica (leva Barker) in consonanza alla trasformazione del gusto musicale. Con l'introduzione dell'organo sinfonico-orchestrale la ditta Baldi di Torino, incaricata dell'opera di restauro, nel 1920 trasforma la trasmissione da meccanica in pneumatica, essendo quella meccanica giudicata complicata e facilmente deteriorabile, apportando significativi cambiamenti all'assetto fonico dell'organo. In seguito, venne nuovamente modificata nel 1935 la trasmissione, che divenne elettrica. Dopo l'intervento della ditta Baldi, l'organo non ha subito interventi per cinquant'anni, perciò i danni causati allo strumento sono attribuibili al trascorrere del tempo. L'organo Bernasconi non fu più riportato alla sua originalità a causa della trasformazione operata dalla ditta Baldi. Un semplice restauro sarebbe stato riduttivo per lo strumento, sia per l'impostazione dei registri, sia per il sistema di trasmissione pneumatico complesso e lento: attualmente si richiedono omogeneità, ricchezza fonica ed equilibrio tra i corpi sonori. Fu decisa per il nuovo organo la trasmissione elettrica aggiornata, e, per l'impianto fonico la possibilità di suonare l'intera letteratura organistica. Soprattutto, secondo le nuove disposizioni liturgiche del Concilio Vaticano II, contenute nella Sacrosantum Concilium e nei documenti pastorali ispirati a quella costituzione, l'ubicazione del coro è preferibile tra l'assemblea orante, che può, aiutata dalla musica liturgica, cantare le parti proprie. e così essere agevolmente il soggetto della celebrazione liturgica: perciò l'organo è stato collocato a diretto contatto con l'assemblea. Ottenuto, dunque, il parere positivo della Commissione Organi e della Sovrintendenza ai Monumenti, fu deciso il trasferimento dalla cantoria all'abside a cura della Fabbrica Artigiana d'Organi Francesco Michelotto di Albignasego (Padova), nel 1983. L'organo fu inaugurato il 4 maggio 1985 con quattro concerti tenuti da Giovanni Borra, Guido Donati, Massimo Nosetti e Arturo Sacchetti. In concomitanza col Bicentenario della nascita di Don Bosco (1815-2015), l'organo è stato rimesso a nuovo con un primo intervento di pulitura, e con la successiva installazione del centralino elettronico ed ampliamento fonico affidato alla Bottega Organara di Roberto Curletto di Vinovo (To). Il nuovo organo, su progetto fonico del M° Stefano Marino (organista titolare della chiesa di San Giovanni Evangelista) è stato inaugurato il 27 maggio 2016 con un concerto del giovane organista M° Gabriele Agrimonti. Roberto Dinucci, Guida di Torino, Torino, Edizioni D'Aponte, p. 191 Wikibooks contiene testi o manuali sulla disposizione fonica dell'organo a canne Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla chiesa di San Giovanni Evangelista