place

Chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia (Belfiore)

Chiese dedicate a san Vito martireChiese dedicate ai santi Modesto e CrescenziaChiese di BelfioreChiese sconsacrate del VenetoPagine con mappe
Belfiore chiesa 2
Belfiore chiesa 2

La chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia è un ex luogo di culto cattolico, di Belfiore, in provincia e diocesi di Verona. La chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia esisteva già nel X secolo ed era di proprietà dei Canonici della Cattedrale di Verona. Fu riedificata nel XVI secolo. Nel 1622 una piena dell’Adige portò l’allora parroco di Belfiore, don Antonio Martini, in accordo con i fedeli, a spostare la sede parrocchiale dalla chiesa della Madonna della Strà a questo luogo di culto. Alcune notizie ci sono note dalle visite pastorali del Vescovo di Verona Gianfrancesco Barbarigo avvenute nel 1699 e nel 1704. Sappiamo che fu celebrata la Santa Messa e si pregò per i defunti nel vicino cimitero. Il Vescovo ordinò, tra le varie cose, di ridipingere il tabernacolo ligneo, mentre viene descritta la presenza del fonte battesimale in un angolo della chiesa. In occasione della napoleonica Battaglia del ponte di Arcole (15-17 novembre 1796) la chiesa non fu saccheggiata (fu rubato solo il vaso dell’Olio Santo), mentre fu distrutta l’antica chiesa di San Salvatore in Zerpa, incendiati o lacerati i libri e i registri dell’archivio parrocchiale e saccheggiata tre volte la canonica dove abitava il parroco don Francesco Farsaglia. Fu il sacerdote a decidere di trasportare provvisoriamente a San Vito la statua della Madonna della Strà per evitare distruzioni o manomissioni alla fine di ottobre del 1805. Fu riportata al Santuario il 25 maggio 1806. Il 6 maggio 1811 i fedeli belfioresi iniziarono il rifacimento della loro chiesa parrocchiale. I lavori durarono undici mesi e devono essere stati di una certa importanza visto che il 12 aprile 1812 il Vescovo di Verona Innocenzo Maria Liruti inaugurò e consacrò il luogo di culto. Il 9 giugno 1940 fu nominato nuovo parroco di Belfiore don Luigi Bosio, oggi venerabile. La sua decisione di costruire una nuova grande chiesa parrocchiale in quanto la chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia era da lui ritenuta piccola per contenere i fedeli e non adeguata per la liturgia in quanto la casa di Dio doveva essere la più bella, portò dal 1947 all’abbandono del luogo di culto. La facciata a salienti, rivolta verso occidente, presenta un portale rettangolare, elevato di qualche gradino, tra due coppie di lesene su piedistalli. In alto la facciata è chiusa dal timpano triangolare, mentre due timpani spezzati coronano le sezioni laterali della facciata, corrispondenti alle cappelle laterali interne. La chiesa è ad aula unica con due cappelle laterali per lato, aperte sulla navata con un arco a tutto sesto. Alcune finestre rettangolari in alto introducono luce naturale nell’aula. Il presbiterio è a base rettangolare e abside semicircolare. Da una foto d’epoca si nota l’altare maggiore marmoreo, con balaustre, il catino absidale dipinto e una pala in fondo all’abside. Anche all’interno della chiesa sono presenti lesene che sostengono una cornice che segue il perimetro della chiesa. Nella chiesa era presente il quadro di Paolo Farinati raffigurante la Madonna di Belfiore, oggi nell'abside della nuova parrocchiale, e le due tele restaurate nel 2013 e collocate nella cappella feriale "Studium Pietatis". Il campanile è a base quadrata, con una cornice marcapiano che separa la parte inferiore da quella in cui era presente l’orologio sul lato settentrionale. La cella campanaria presenta lesene agli angoli e una monofora con arco a tutto sesto per lato. Un tamburo ottagonale e coperto da un cupolino, mentre agli angoli sono presenti quattro pinnacoli. Ancora oggi nella cella campanaria è presente un concerto di 5 campane in MI3 montate alla veronese ed elettrificate, ma attualmente ferme. Questi i dati del concerto: 1 – MI3 – diametro 1085 mm - peso 715 kg - Fusa nel 1860 da Cavadini di Verona 2 – FA#3 – diametro 980 mm - peso 507 kg - Fusa nel 1860 da Cavadini di Verona 3 – SOL#3 – diametro 875 mm – peso 363 kg - Fusa nel 1860 da Cavadini di Verona 4 – LA3 – diametro 820 mm - peso 298 kg - Fusa nel 1860 da Cavadini di Verona 5 – SI3 – diametro 720 mm - peso 206 kg - Fusa nel 1860 da Cavadini di Verona. Gaetano Pozzato, Ho veduto la Gerusalemme del cielo. Pellegrinaggio spirituale alla Chiesa Parrocchiale di Belfiore. Nel ricordo del 50° della costruzione., Verona, Parrocchia di Belfiore, 2000. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia Chiesa vecchia Belfiore, su youtube.com. URL consultato il 9 novembre 2023.

Estratto dall'articolo di Wikipedia Chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia (Belfiore) (Licenza: CC BY-SA 3.0, Autori, Immagini).

Chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia (Belfiore)
Via Porto,

Coordinate geografiche (GPS) Indirizzo Luoghi vicini
placeMostra sulla mappa

Wikipedia: Chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia (Belfiore)Continua a leggere su Wikipedia

Coordinate geografiche (GPS)

Latitudine Longitudine
N 45.378552116753 ° E 11.207532758067 °
placeMostra sulla mappa

Indirizzo

Via Porto

Via Porto
37050
Veneto, Italia
mapAprire su Google Maps

Belfiore chiesa 2
Belfiore chiesa 2
Condividere l'esperienza

Luoghi vicini

Santuario della Madonna della Strà
Santuario della Madonna della Strà

Il Santuario della Madonna della Strà (o chiesa di San Michele) è una chiesa sussidiaria della parrocchia di Belfiore, in provincia e diocesi di Verona; fa parte del vicariato dell'Est Veronese, precisamente dell'Unità Pastorale Pieve. La pieve di San Michele sorge accanto ad un'antica strada romana che conduceva da Verona ad Este, oggi ai margini dell'abitato, poi denominata Imperiale Berengaria, ma più conosciuta con il nome popolare di Porcilana. Una lapide, oggi a Verona presso il Museo Lapidario Maffeiano, ricorda l'anno esatto dell'erezione della chiesa, il 1143, inaugurata nei pressi della festa di San Martino di Tours ai tempi del Vescovo di Verona Tebaldo II (o Teobaldo), del prete Ambrosio (arciprete della chiesa, che era anche una collegiata), e il nome degli architetti, Borgo e Malfatto. Alla costruzione concorse anche un fabbro di Zevio di nome Alberico, come riportato da un'iscrizione graffita sul penultimo pilastro di destra. Gli storici dell'architettura romanica veronese nutrono dei dubbi se i lavori eseguiti nel 1143 siano un rifacimento o una nuova costruzione. Attorno alla chiesa, ma anche nella stessa, infatti, sono presenti frammenti di costruzioni precedenti che fanno ipotizzare l'esistenza di una chiesa di età longobarda, sempre dedicata a San Michele, sorta su un edificio pagano, forse di natura funeraria. Questo dimostrerebbe qui come in altre località del veronese la funzione cimiteriale delle molte chiese dedicate all'Arcangelo venerato dai Longobardi. Nella bolla di Papa Eugenio III del 17 maggio 1145 la pieve di Porcile è citata, sottoposta al Vescovo di Verona, cosa che ribadiranno le bolle di Anastasio IV (1153), Clemente III (1188) e Martino V (1419). Il Vescovo Adelardo Cattaneo concesse parte delle decime all'abate dell'Abbazia di San Pietro di Villanova, il Vescovo Norandino alle monache di San Michele di Campagna e il Vescovo Bartolomeo I della Scala a Giovanni Cipolla. Il clero che officiava la chiesa era piuttosto numeroso, come riportano i documenti del XIII secolo e la canonica era ampia, permettendo di compiere, sotto di essa atti pubblici e privati. Nel XIV secolo l'interno dell'edificio fu certamente decorato con affreschi, alcuni tutt'ora visibili, mentre al 1497 risale la collocazione della statua della Madonna delle Strà, opera di Giovanni Zebellana. Al Cinquecento risalgono le due cappelle laterali, dedicate a Sant'Agata e Sant'Onofrio. Dalla visita pastorale del Vescovo di Verona Gian Matteo Giberti nel 1530 veniamo a sapere che il pavimento della chiesa risulta malconcio, ordinando di ripararlo. Nel 1535 risulta sistemato a metà. Poi vi è una cappella con la volta screpolata, la sommità del campanile da sistemare, come da sistemare vi è il tetto. Si chiede di intonacare le pareti, di svecchiare le pale d'altare, di restaurare la canonica e di dotare la chiesa di un tabernacolo decente dove conservare dignitosamente l'Eucarestia. Infine, si chiede di procurarsi nuovi paramenti, calice, Messale e altri arredi sacri. Dal 1592 si nota il cambio di denominazione della chiesa, da San Michele di Porcile a Madonna della Strà. La chiesa fu la parrocchiale di Belfiore fino al 1622, anno in cui la cura d'anime passò alla chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia, considerata più comoda per gli abitanti vista la sua posizione all'interno dell'abitato e la rovinosa piena dell'Adige che ruppe gli argini in località Chiaveghette e attraversò la strada Porcilana. Il declassamento della pieve portò alla trasformazione della chiesa in un santuario, dedicato alla venerata Madonna della Strà. Purtroppo iniziò un periodo di progressivo abbandono, tanto che l'arciprete vi celebrava solo una Santa Messa la prima e l'ultima domenica del mese. La peste del 1630 uccise 280 persone a Belfiore (ma se ne salvarono 262), 40 a Bionde (47 sopravvissuti) e 11 a Zerpa. Poi l'epidemia a Belfiore cessò miracolosamente e i fedeli istituirono il 16 agosto 1630 la festa votiva di ringraziamento alla Madonna della Strà per la liberazione dal morbo. Se la devozione alla Vergine era viva, le condizioni economiche non permisero di intervenire sul risanamento della struttura, danneggiata dalle inondazioni. Nel 1632 si arrivò addirittura a dissacrare due altari, di San Sebastiano e della Madonna del Rosario. Nonostante ciò il 13 giugno 1639 l'arciprete e la comunità belfiorese istituirono la festa dell'incoronazione della Madonna della Strà. Da un'iscrizione presente in chiesa si comprende che nel 1651 la costruzione fu restaurata, tanto che si ipotizza che risalgano a quel periodo le navate laterali. Un altro restauro è datatabile al 1783, quando l'edificio versava in pessime condizioni statiche. Il parroco don Francesco Farsaglia,per evitare manomissioni o distruzioni durante l'occupazione napoleonica, decise nel 1805 di portare provvisoriamente nella chiesa di San Vito la statua della Madonna della Strà, portata da alcuni abitanti scortati da soldati di guardia. Fu ricondotta nel santuario il 25 maggio 1806, solennità di Pentecoste. Nel 1878 divenne parroco don Teodosio Faccioli, che guiderà la parrocchia per 32 anni. Sarà lui, in accordo con il sindaco, cavaliere Carlo Lebrecht, a decidere di recuperare il santuario. Infatti, nel 1894 la chiesa era di nuovo in condizioni statiche precarie. Viste le difficoltà economiche si decise di applicare un consolidamento provvisorio che portò al puntellamento della facciata e all'applicazione di catene metalliche alla navata centrale. Inoltre, l'abside e la facciata furono legate da cinque spessi tiranti in ferro. La chiesa rimase chiusa al culto dal 1894 al 1905, anno in cui furono compiuti importanti lavori di restauro diretti dall'ingegnere e marchese Alessandro Da Lisca. Si rafforzarono le parti pericolanti, si demolirono le sovrastrutture interne ed esterne, cercando di ridare alla chiesa, per quanto possibile, l'originario aspetto romanico. In tale occasione si demolì il vecchio tetto e alcuni tratti superiori della navata centrale, visto l'avanzato degrado. Proprio quest'ultima operazione fece comprendere come quei muri non fossero originali visto che contenevano affreschi del XIII secolo, poi usati come materiali di spoglio. Il Da Lisca provvide anche a raddrizzare la facciata (che rischiava di crollare) e a rifare il pavimento, riportandolo al livello originale. Inoltre, furono ricoperte le finestrine, recuperati gli affreschi, aperte le prime due arcate verso la porta d'ingresso della facciata, antecedentemente ostruite e restaurata l'abside. Gli ultimi lavori alla chiesa risalgono al XXI secolo. Nel 2003-2004, quando era parroco di Belfiore, mons. Luigi Magrinelli. L'intervento progettato dagli architetti Daniela Bravi, Lorenza Santolini e Giuseppe Bonturi portò all'integrazione delle parti mancanti dei materiali lapidei, al risanamento delle murature e al consolidamento della copertura. La facciata, rivolta verso occidente, è a salienti ed è costituita da corsi alternati di tufo e di cotto, tipico del romanico veronese, specie quello cittadino. Al centro della facciata è presente il portale rettangolare, protetto da un protiro pensile. Sopra quest'ultimo una bifora con archi a tutto sesto che dà luce alla navata centrale. La facciata è completata dai quattro spioventi in pietra calcarea con decorazione ad archetti pensili e una cornice a denti di sega. Nella facciata sono presenti cinque scodelle di maiolica, simboleggianti le cinque piaghe di Cristo, un unicum nell'architettura romanica veronese, mentre era elemento comune nelle facciate delle chiese longobarde e sembra attestare un'influenza emiliana. La zona absidale presenta materiali eterogenei. La parte inferiore dell'abside centrale e di quella meridionale, è costituita da ciottoli di fiume alternati a corsi di tufo, mentre quella superiore in "bolognini" dello stesso materiale tufaceo. L'abside centrale, nella parte superiore, presenta una decorazione ad archetti pensili. L'abside settentrionale, probabilmente, è stata rifatta. Nelle absidi sono evidenti le strette monofore. La chiesa è circondata da un muro con cancellata. Un tempo la recinzione era costituita da una muratura molto elevata, costruita nel XV secolo, tanto che ostacolava la visione della chiesa ai passanti. La chiesa internamente si presenta a tre navate chiuse da tre absidi e copertura a capriate lignee in quella centrale, ad un unico spiovente nelle laterali. La base non è perfettamente rettangolare. A introdurre la luce esterna all'interno della chiesa vi sono ampie finestre rettangolari nelle navate laterali e strette monofore strombate sulla parete meridionale della navata centrale. Il pavimento è in lastre rettangolari di marmo nembro rosato collocate a spina di pesce. Fu fatto realizzare nel 1965 dall'allora parroco don Luigi Bosio, oggi venerabile Le navate sono divise da tre colonne per parte alternate a due pilastri, mentre le pareti sono a bolognini di tufo nella zona inferiore, mentre nelle parti alte vi è un'alternanza tra il tufo e i ciottoli disposti a spina di pesce. Interessanti i capitelli delle colonne. La prima coppia presenta due capitelli con otto spicchi lisci, mentre la seconda colonna di sinistra ha un capitello tufaceo simil corinzio, con tre foglie d'acanto spinoso, risalente al XII secolo. Le due colonne di fronte al presbiterio sono semimurate in due pilastri e presentano due capitelli in tufo preromanici, probabilmente materiale di spoglio. Su due pilastri sono presenti delle iscrizioni. Oltre alla già citata iscrizione sul penultimo pilastro di destra, riferita ad Alberico da Zevio, in quello a sinistra dell'altare si ricordano l'esecuzione della statua della Madonna e il giorno della sua incoronazione. Nel penultimo pilastro un'epigrafe latina ricorda la vittoria dei veronesi sui mantovani il 26 giugno 1199 e la presa di Argenta da parte del condottiero scaligero Salinguerra. In passato la chiesa possedeva delle pitture su legno raffiguranti gli Apostoli e una rappresentazione di San Michele, oggi perdute. Nessuno si era invece reso conto della presenza degli affreschi, visto che nel 1651 furono coperti dalla calce. Solo con il restauro del 1905 alcuni affreschi videro di nuovo la luce. Gli affreschi sui pilastri sono stati restaurati nel 2015 per volere del parroco don Roberto Pasquali. Sul primo pilastro sinistro sono raffigurati una Madonna col Bambino e una Santa identificabile forse con Santa Caterina d'Alessandria. Sul secondo pilastro sinistro, più vicino all'altare, vi sono un San Bartolomeo e la testa di una Santa. Sul lato destro abbiamo nel secondo pilastro la figura di Sant'Onofrio e un Santo vescovo, mentre nel terzo vi sono una Santa coronata e un possibile San Lorenzo. Gli affreschi risultano databili tra il XIII e il XIV secolo. Il presbiterio è elevato di tre gradini, in marmo rosso Verona, rispetto alla navata centrale. Presenta un pavimento con lastre di breccia rosata, mentre è coperto da una volta a botte. Nella nicchia dell'altare maggiore preconciliare, risalente al 1750, è collocata la statua della Madonna con Bambino, venerata col titolo di Madonna della Strà. Il simulacro, ligneo policromo, è opera dell'artista veronese Giovanni Zebellana, con la collaborazione del pittore Leonardo di Desiderio degli Atavanti, e fu commissionato dalla locale Compagnia della Beata Vergine. Grazie al restauro avvenuto tra il 1986 e il 1988 e promosso dalla Soprintendenza alle Belle Arti, si è scoperto sullo sgabello della statua la firma dell'autore e la data d'esecuzione dell'opera, il 1497. La Vergine, con veste dorata, ricami in lacca rossa e parte interna del manto azzurra, è raccolta in preghiera con le mani giunte, con il Bambino Gesù disteso sulle ginocchia che stringe un pettirosso in una manina. Un'altra opera della chiesa è il Crocifisso ligneo collocato nell'abside sinistra. Di mano ignota, attribuito al XIV secolo, è stato restaurato nel 2002. Sia l'abside maggiore sia le due laterali presentano una semicalotta sferica in muratura intonacata. Il campanile, addossato alla parete settentrionale della chiesa, presenta una pianta quadrata ed è d'incerta datazione. La canna della torre mostra ciottoli irregolari misti a tufo e blocchetti di pietra calcarea, mentre il lato nord è tutto tufaceo. Poco oltre la metà della torre si notano delle bifore murate, mentre quelle dell'attuale cella campanaria, aperte sui quattro lati, sono d'epoca rinascimentale. La copertura del campanile è a pigna in laterizio, con agli angoli quattro pinnacoli. In alto svetta una croce metallica con bandierina segnavento.Il 15 luglio 1959 la cuspide fu troncata da un violento temporale. L'allora parroco don Luigi Bosio la fece ricostruire. Il concerto campanario presente oggi è composto da 2 campane in RE4 montate alla veronese e suonabili manualmente. Questi i dati del concerto: 1 – RE4 – diametro 630 mm - peso 150 kg - Fusa nel 1711 da De Rubeis a Verona. 2 – MI4 – diametro 565 mm - peso 94 kg - Fusa nel 1850 da Cavadini di Verona. Gianfranco Benini, Chiese romaniche nel territorio veronese, Rotary Club Verona Est, 1995, ISBN non esistente. Viviani Giuseppe Franco (a cura di), Chiese nel veronese 2°, Verona; Vago di Lavagno, Società Cattolica di Assicurazione – La Grafica Editrice, 2006. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su santuario della Madonna della Strà Santuario della Madonna della Strà, su BeWeB, Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana. Ti racconto ...Verona - Santuario Madonna della Strà di Belfiore, su youtube.com. URL consultato il 1º dicembre 2023.

Villa Moneta
Villa Moneta

Villa Moneta, nota anche come Palazzo Moneta, è una villa veneta situata nel comune di Belfiore, in provincia di Verona. Il complesso sorge isolato su quella che originariamente doveva essere una proprietà della famiglia Verità, successivamente passata alla famiglia Moneta. Nel 1557 il banchiere d'affari Cosimo Moneta, entrato in possesso della proprietà per via ereditaria, diede avvio ai lavori di costruzione della villa, che si conclusero nel 1563, data incisa sulla meridiana posta sul lato sud dell'edificio. A questa data si fa coincidere anche il termine dei lavori di decorazione interna della villa, visto che proprio in quell'anno Bartolomeo Ridolfi, autore degli stucchi, partì per la Polonia. Durante il periodo in cui fu proprietà di Cosimo Moneta (morto nel 1566), la villa fu teatro di feste e divertimenti e la sua fama giunse fino a Giorgio Vasari, che nelle Vite, parlando dello scultore Bartolomeo Ridolfi e dei suoi lavori, cita la dimora di Cosimo, definendola "bellissima villa". Già nel 1577 però, la villa entra a far parte dei possedimenti di Federico e Antonio Maria Serego, parenti della vedova di Cosimo Moneta.A lei ed ai figli i parenti Serego prestarono denaro, dopo la morte del marito, con condizioni che consentirono loro di appropriarsi, in breve tempo, di tutte le proprietà dei Moneta, ad un prezzo notevolmente inferiore al valore dei beni. Questo passaggio di proprietà fu anche causa di uno scontro interno alla famiglia Serego, in quanto il cugino di Federico e Antonio Maria, Marcantonio, che con uguale procedura aveva prestato denaro ai figli di Cosimo Moneta, era stato, con raggiri ed astuzie, escluso dai cugini dalla spoliazione dei beni a danno dei Moneta.La questione si risolse solo nel 1579 quando Federico e Antonio Maria si impegnarono a versare la cifra di 2750 ducati quali indennizzo al cugino Marcantonio. A causa quindi del lungo contenzioso famigliare, la prima testimonianza della presenza dei Serego nella villa di Belfiore è una lettera datata 1587, in cui risulta che la villa era abitata da Alberto Serego, figlio di Federico. Nonostante ciò, il possesso di villa Moneta doveva costituire già da prima un vanto per la famiglia Serego, se negli affreschi rinvenuti nel 1968 a Corte Ricca di Beccacivetta ad Albaredo d'Adige, antico possedimento dei Serego, è raffigurato un edificio con serliana che assomiglia molto al palazzo di Belfiore. I Serego resero la villa il centro di un'importante azienda agricola, e a loro probabilmente si deve la costruzione delle due enormi barchesse, opera del XVII secolo. Nel 1966-67, il proprietario di allora commissionò lo strappò di 22 affreschi dalla stanza del Carro di Giove,per farne dono ad una donna. Gli affreschi nel 1982 furono sequestrati. Nel 1991 il Gip ordinò il dissequestro con l'obbligo di ricollocazione a villa Moneta, in seguito mai avvenuta sia perché il nuovo proprietario della villa,Andrea Lieto, ne autorizzo' la consegna al Museo di Castelvecchio, ma anche perché la donataria,presso la quale i Carabinieri del Nucleo patrimonio artistico rinvenirono dopo anni gli affreschi,si oppose alla riconsegna. Completato il restauro della barchessa est ed il rifacimento del tetto della Villa, l'attuale proprietà,Andrea Lieto s.r.l.,richiede da tempo l'intervento di tutti gli Enti preposti alla salvaguardia del sito storico ed al rispetto dei tanti vincoli imposti,ma mai rispettati dai proprietari confinanti. Furti di camini ed atti vandalici sugli infissi esterni( che hanno costretto la proprietà a custodirli in un luogo protetto),non sono ancora stati sufficienti a smuovere l'interesse delle Autorità preposte alla tutela del bene storico. Anche con Google Maps è possibile vedere come, sul lato ovest della Villa, sia stata creata una vera e propria discarica,utile a disincentivare ogni progetto di riuso della Villa. Il complesso, immerso nella campagna di Belfiore, è costituito dall'imponente e austero palazzo padronale e dalle barchesse, collocate ai lati e staccate da esso. La villa si struttura come un possente parallelepipedo con le facciate a nord e a sud uguali. Al piano terra, i prospetti principale sono caratterizzati da un portale centinato "a serliana" decorato a bugnato con un mascherone sulla chiave di volta, che introduce in un vestibolo. Evidente qui è la somiglianza con la loggia di villa Marogna a Nogara, anche se non è chiaro se a villa Moneta tali vestiboli costituissero delle logge aperte oppure delle vere e proprie stanze separate dall'esterno, che introducevano al grande salone passante.Le finestre al piano terra presentano anche esse una decorazione a bugnato con un davanzale sorretto da mensole, invece le finestre del primo piano e del sottotetto presentano una semplice cornice liscia. Delle fasce marcapiano a livello dei solai del primo piano e del sottotetto suddividono la facciata in tre parti. A sud una meridiana reca incisa la data 1563, probabile data di completamento dell'edificio. Le decorazioni interne furono completate probabilmente entro il 1563, e i suoi autori furono Bartolomeo Ridolfi, per le decorazioni a stucco, e Angelo Falconetto, per gli affreschi. I due vestiboli al piano terra in corrispondenza delle facciate nord e sud presentano una volta a vela con al centro un clipeo affrescato, uno dei quali rappresentava il Ratto di Europa, mentre l'altro, ancora esistente, raffigura Venere, Amore e un satiro. Il grande salone rettangolare compreso tra i due vestiboli presenta una volta a botte con grandi vele sui lati, impreziosite da tralci; al centro è presente un grande ovale contornato da una ghirlanda di fiori e frutta, al cui interno è raffigurata Giunone o Io. Attorno troviamo un nastro che regge dei cammei raffiguranti divinità olimpiche. Nelle lunette sotto le vele sono affrescati dei putti seduti su una balaustra intenti a suonare strumenti musicali. Al di sotto corre un fregio monocromo raffigurante animali marini e conchiglie. Sulle pareti lunghe del salone sono raffigurate una Scena di battaglia e una Scena di trionfo. Un tempo queste scene erano attribuite a Paolo Farinati, per la scoperta di una P, una F e una P e due chiocciole durante un restauro, e interpretate come sue firme. Oggi però, nonostante il pessimo stato di conservazione non permetta un'adeguata analisi, vengono attribuite ad Angelo Falconetto, che collaborò con Bartolomeo Ridolfi nella decorazione della villa. Altro ambiente degno di nota del piano terra è la "Sala delle Quattro Stagioni". Essa presenta una volta caratterizzata da un'elaborata e raffinata partitura in stucco, che divide la superficie in vari settori entro i quali sono raffigurati grottesche e divinità pagane: al centro, entro un ovale, è raffigurato ad affresco il Parnaso con Apollo circondato dalle Muse, attorno quattro clipei con rappresentazioni in stucco delle allegorie delle Stagioni, invece nelle partiture triangolari tra le vele abbiamo stucchi raffiguranti varie divinità olimpiche. Nelle lunette sulle pareti sono presenti decorazioni ad affresco di putti che suonano strumenti musicali. Salendo al primo piano si incontra la stanza detta "degli Illeciti Amori" con camino, soffitto a cassettoni e alle pareti affreschi rappresentanti gli amori degli dei. Sono raffigurate tre scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, intervallate da finti marmi e da una raffigurazione a monocromo di un guerriero, forse Marte. Anche qui, come in tutta la villa, la paternità degli affreschi spetta ad Angelo Falconetto. Caratteristica dell'edificio padronale è la cosiddetta "scala dei mussi", che veniva usata per trasportare le granaglie nel sottotetto per mezzo di muli. Nel sottotetto è presente l'effige in gesso di uno dei proprietari della villa, l'avvocato G.B. Cressotti, morto nel 1853. L'originale marmoreo è l'elemento principale del suo monumento funebre al Cimitero Monumentale di Verona. Villa Moneta è "una delle ville del veronese più permeata di cultura classica", sappiamo infatti che Bartolomeo Ridolfi era uno dei principali collaboratori di Palladio: Ridolfi è coinvolto per esempio nella decorazione di villa Pojana a Pojana Maggiore. La decorazione di alcune sale di palazzo Canossa e palazzo Bocca-Trezza a Verona, anch'essa opera di Ridolfi, costituiscono un precedente che verrà poi replicato alla decorazione di villa Moneta. La ricchezza delle sue decorazioni, in particolare l'uso delle decorazione a stucco, e l'isolamento del corpo padronale rispetto agli edifici rustici, la fanno assomigliare più a un palazzo di città che a una villa di campagna, ne è sintomo il fatto che la villa venga comunemente definita palazzo Moneta. Queste caratteristiche ritornano anche in altre ville veronesei, come villa Marogna a Nogara, villa Serego-Malipiero a Rivalta di Albaredo d'Adige e la Fittanza a Marega di Bevilacqua. Tutti questi edifici sono caratterizzati da un aspetto esteriore semplice e severo, a cui si contrappone una decorazione interna ricca e fastosa. Fastosa doveva essere pure la vita che nella villa si conduceva, come suggeriscono il grande salone affrescato e i numerosi camini di mirabile fattura. Una villa intesa quindi più come luogo di delizie e di svago, che come centro agricolo e luogo in cui il padrone possa riposarsi dai negotia cittadini. Questo modo di interpretatare la vita in villa in parte si discosta da quello teorizzato da Alvise Cornaro, e messo poi in pratica da Andrea Palladio, in cui la villa è il luogo in cui il padrone, mentre sovrintende ai lavori agricoli, riacquista le energie fisiche e si dedica all'otium. Ciò si riflette inoltre nella decorazione interna, in cui mancano riferimenti alla vita agreste e alla celebrazione dell'agricoltura, ma è un continuo richiamo ai piaceri della vita: lo testimonia la "stanza degli amori illeciti" e le rappresentazioni degli amori degli dei sparse nelle sale della villa. Nonostante ciò, è comunque evidente la raffinatezza dell'apparato decorativo, a suggellare il fatto che il committente Cosimo Moneta era un uomo sensibile al fascino della cultura. Stefania Ferrari (a cura di), Ville venete: la Provincia di Verona, Venezia, Marsilio, 2003. Giuseppe Pavanello, Vincenzo Mancini (a cura di), Gli affreschi nelle ville venete. Il Cinquecento, Venezia, Marsilio, 2008. Paola Marini (a cura di), Palladio e Verona. Palazzo della Gran Guardia, Neri Pozza Editore, 1980. Giuseppe Franco Viviani (a cura di), La villa nel veronese, Banca Mutua Popolare di Verona, 1975. Giulio Zavatta (a cura di), Palladio nel Colognese. La Cucca dei Serego: architettura, paesaggio e arte, Rimini, 2012. Giulio Zavatta, Su un disegno di Bartolomeo Ridolfi e Bernardino India per villa Moneta a Belfiore, in Postumia, n.26/1-2-3, 2015. Giulio Zavatta, I Falconetto, in M. Molteni e P. Artoni (a cura di), Le vite dei veronesi di Giorgio Vasari. Un’edizione critica, Treviso, 2013.

Caldiero
Caldiero

Caldiero (Caldièr in veneto) è un comune italiano di 7 958 abitanti della provincia di Verona in Veneto. Fa parte della zona di produzione del vino Arcole D.O.C. Dista 18 km da Verona. Rispetto al capoluogo è in posizione est. Si trova allo sbocco della Val d'Illasi e sulla riva sinistra dell'Adige. Caldiero è dotato di stazione ferroviaria - asse ferroviario Torino-Trieste. Confina a nord con la SR 11, importantissima via di comunicazione storica est/ovest. Si trova a metà strada tra i caselli autostradali della Serenissima A4 e quindi a circa 7–8 km dal casello di Soave-San Bonifacio verso est e a circa 7–8 km dal casello di Verona est verso ovest. A sud del paese corre la strada provinciale Porcillana, recentemente riassestata e definita completamente da ovest ad est, provenendo dal collegamento con la Tangenziale est di Verona, fino a collegare a sud il paese di San Bonifacio e quindi l'est veronese fino a Vicenza. Noto già al tempo dei romani, Calidarium (nome originario del Paese) offriva le calde terme (alimentate nelle sorgenti Brentella di 27 °C e Bagno della Cavalla di 25 °C) identificate in quelle di Giunone del Console Petronio. Fu dei Vescovi di Verona che lo cedettero poi (1206) al Comune. Nel 1233 Ezzelino da Romano distrusse il castello esistente sul Monte Rocca. Nella storia di Caldiero vanno ricordati gli Scaligeri, i conti Nogarola, i Visconti e Venezia. La Serenissima fece riattivare le terme (acque magnesiaco-solforose) e concesse al paese statuti propri. Nel piccolo paese di Caldierino, distante circa due chilometri dal Comune e sotto le decisioni del Comune stesso, nel 1777 Gaetano Callido costruì un organo a 500 canne. In ragione della sua strategica posizione sull'Adige, vi si combatterono ben quattro battaglie delle guerre napoleoniche tra franco-italiani e austriaci, nel 1796 (vittoria austriaca), nel 1805 (vittoria francese), nel 1809 (vittoria austriaca) e nel 1813 (vittoria francese). Lo stemma e il gonfalone del comune di Caldiero sono stati concessi con regio decreto dell'11 luglio 1941. La blasonatura ufficiale dello stemma comunale è la seguente: Secondo le disposizioni in vigore all'epoca della convocazione era presente anche il capo del Littorio. La descrizione del gonfalone concesso è la seguente: In realtà quale gonfalone il comune usa un drappo interzato in palo di verde, di bianco e di rosso. Le terme di Giunone con le antiche vasche di origine romana: la Brentella e la Cavalla; Villa Faccioli - Loredan (Ca' Rizzi) - XVI secolo; Villa Da Prato - situata nel capoluogo, di origine del tardo Duecento, ristrutturata in maniera consistente nel XVII secolo, corredata di annessi e parco; Parco del Monte Rocca con il fabbricato denominato "La Rocca", situato in posizione predominante sul colle omonimo e il cosiddetto "Castello" e annesse stalle, il tutto citato quale posizione di comando delle forze armate napoleoniche, durante la gestione della battaglia di Arcole. Abitanti censiti Ultima domenica di febbraio - Dal 1870 Fiera di San Mattia Apostolo, santo patrono di Caldiero ed è la festa più antica del paese. Seconda domenica di giugno - Antica sagra di Sant'Antonio che si svolge nella frazione di Caldierino. Terzo sabato di luglio - Notte Bianca di Mezzaestate Ultimo weekend di agosto - Monte Rocca Music Festival Caldiero vive di un'economia di carattere agricolo-artigianale, tipica dei paesi di provincia del cosiddetto "NordEst". Le aziende agricole, di gestione familiare storico, lavorano la campagna tipica della valpadana con produzione di viticultura, frutteto e seminativi. In particolare la zona è identificata per la produzione del vino "Arcole D.O.C.". Le aziende artigiane sono di indirizzo vario, meccanico, edile e collegati, tipografico e comunque tutte di carattere di piccola azienda a conduzione diretta. Posta lungo la Strada statale 11 Padana Superiore, Caldiero svolse fra il 1881 e il 1956 un'importante funzione di nodo tranviario, per la presenza della tranvia Verona-Caldiero-San Bonifacio, che percorreva la suddetta statale, e la diramazione che da Strà di Caldiero raggiungeva Tregnago, rappresentando il mezzo di trasporto principale per il collegamento fra Verona e la bassa Val d'Illasi. Le due tranvie furono sostituite nel 1959 da filovie, soppresse tra il 1980 e il 1981. Il comune fa parte dell'Unione Comunale detta Verona Est. I comuni che ne fanno parte sono: Belfiore, Caldiero, Colognola ai Colli, Illasi e Mezzane di Sotto. Inoltre il comune fa parte del movimento patto dei sindaci Dal 1934, è presente la società calcistica Calcio Caldiero Terme S.S.D. (colori sociali giallo e verde), che dopo aver militato nei campionati provinciali e regionali, nell'annata 2018-2019 ha conquistato la promozione nella categoria apicale delle competizioni dilettantistiche, la Serie D, mentre nella stagione 2023-2024 ha ottenuto la sua prima promozione fra i professionisti, vincendo il girone B e ottenendo l'accesso alla Serie C. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Caldiero Sito ufficiale, su comune.caldiero.vr.it. Statuto dell'Unione veronese Verona Est in PDF (PDF), su incomune.interno.it.

Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo (Ronco all'Adige)
Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo (Ronco all'Adige)

La chiesa dei Santi Filippo e Giacomo è la chiesa parrocchiale di Scardevara, frazione del Comune di Ronco all’Adige, in provincia e diocesi di Verona; fa parte del vicariato dell’Est Veronese, precisamente dell'Unità Pastorale Albaredo-Ronco. La chiesa dei Santi Filippo e Giacomo si sviluppò nell’XI secolo su un’isola del fiume Adige per opera di alcuni monaci benedettini stanziati in loco già dal secolo precedente. Da questa piccola comunità monastica si sviluppò successivamente la comunità locale, che veniva a trovarsi in una zona paludosa. Il terremoto del 1117 portò alla sostituzione del precedente edificio sacro con uno nuovo con funzione di pieve, in collegamento con le vicine pievi in stile romanico veronese di San Salvatore in Zerpa, di San Michele in Belfiore, di Santa Maria in Ronco all’Adige e di Sant’Ambrogio in Tombasozana. La chiesa viene citata come pieve nella Bolla pontificia di Eugenio III del 1145, riguardante la diocesi veronese, la Piae Postulatio Voluntatis. Per la costruzione del nuovo edificio sacro si usò materiale del precedente e l’attuale chiesa va datata alla metà del XII secolo e fu costruita da maestranze veronesi. Nel 1389 i benedettini abbandonarono Scardevara per ritirarsi a Verona a San Fermo Minore, mentre quasi un secolo dopo (prima domenica di agosto del 1490) verrà consacrato l’altare maggiore, dopo che vi erano stati rinnovamenti interni dell’edificio. Le visite pastorali ci danno altre informazioni, come quella del 1526 del Vescovo di Verona Gian Matteo Giberti, in cui sono citati per la prima volta i santi titolari e in cui si denuncia il cattivo stato del tetto dell’edificio, nonché il fatto che all’interno cresceva l’erba e gli animali potessero entrare. Qualche anno più tardi, nel 1530, fu rifatto il pavimento e nel 1532 si predisposero i materiali per restaurare il tempio. Momento importante fu quello che avvenne il 20 maggio 1612, con la stipula dell’erezione della parrocchia di Scardevara, smembrandola da quella di Ronco all’Adige. La chiesa versa ancora in cattive condizioni a metà del XIX secolo, come denuncia il parroco all’Amministrazione Comunale. In realtà passarono ancora alcuni decenni fino ad arrivare al 1899, quando il Comune decise di compiere alcuni lavori urgenti. Fu proprio in questa occasione che si decise di dare all’aula liturgica un aspetto notevolmente diverso dall’originale. Molto del materiale altomedievale presente fu riutilizzato come materiale di spoglio e collocato in posizione diversa rispetto a quella originale. Altri lavori furono compiuti nel 1922 con la sistemazione del tetto, con un restauro generale nel 1975 e nel 2005-2006 con un intervento di manutenzione della facciata, delle absidi e, in parte, dell’interno. La facciata a capanna è stata costruita con corsi alternati di conci squadrati di tufo e filari di mattoni di laterizio. Al centro sorge il portale d’ingresso con arco a tutto sesto, sovrastato da un protiro con nicchia trasformata in monofora. Questa parte della facciata è stata ristrutturata tra il Quattrocento e il Cinquecento. Ai lati del protiro vi sono due monofore cieche, mentre in alto, in asse con esso, vi è un piccolo oculo lavorato come un rosone che introduce la luce naturale nella chiesa. Lungo i spioventi è visibile la decorazione ad archetti pensili e al culmine della facciata è collocata una grande Croce metallica. I prospetti esterni delle pareti sono quelli tipici del romanico veronese, con paramento murario a vista, con corsi alternati di mattoni e pietra. Interessante è la zona absidale, rimasta praticamente intatta, richiamando elementi presenti a San Fermo Maggiore in Verona e nella pieve di Tombasozana. Anche qui il coronamento presenta, come in facciata, archetti pensili ed è evidente la bicromia dovuta all’uso del cotto e del tufo. Al di sotto sono presenti tre absidi, con la centrale scandita da lesene con capitelli scolpiti. Ogni abside presenta una monofora strombata, mentre sopra quella maggiore vi è una finestra a forma di croce. L’interno della chiesa, in stile neoclassico, stravolto tra la fine dell’Ottocento e il XX secolo, si presenta a navata unica con tre absidi, e con pianta a croce latina grazie alle due piccole aule laterali che hanno ampliato nel tempo l’edificio. Le pareti sono ritmate da lesene d’ordine tuscanico, su cui è impostata la trabeazione che si sviluppa per l’intero perimetro dell’aula. Nella parte inferiore delle pareti vi è una zoccolatura bassa in marmo rosso Verona, mentre in alto vi sono delle finestre a lunetta che introducono la luce naturale nell’edificio sacro. Il pavimento è in quadrotte alternate di granito grigio e rosso posate in corsi diagonali, mentre il soffitto dell’aula è costituito da una grande volta a padiglione con dipinto al centro. A metà dell’aula si aprono due cappelle laterali, una di fronte all’altra, in cui si trovano rispettivamente sul lato sinistro l’altare di San Giuseppe e sul lato destro l’altare della Beata Vergine Maria. All’interno della chiesa vi sono due dipinti donati nel XX secolo. Uno è la tela dell’Assunzione della Vergine attribuita ad Alessandro Turchi detto l’Orbetto; l’altro, sul lato sinistro rispetto all’ingresso, è la Visita di Maria a Santa Elisabetta, di autore veneto. In una nicchia vi è una statua della Maternità, mentre con i restauri del 2006 è affiorato un affresco con alcuni santi. Tra di essi ben riconoscibile è San Nicola di Bari, con ai piedi una imbarcazione, a conferma della presenza di barcaioli in zona in quanto protettore dei naviganti. Il braccio destro del pseudo-transetto è utilizzabile dai fedeli e vi sono collocati i confessionali, mentre in quello sinistro vi è l’organo. Il presbiterio, rialzato di due gradini rispetto all’aula, è pavimentato con lastre di granito rosso e presenta una volta a crociera. L'intervento di adeguamento liturgico, avvenuto tra il 1975 e il 1980, ha portato all'installazione di un nuovo altare in marmo rivolto verso l’assemblea, a lato del quale sono collocati a sinistra l’ambone e a destra il fonte battesimale. Rialzata di un gradino è la sede del celebrante costituita da sedili mobili in legno intagliato. La chiesa termina con le tre absidi a sviluppo semicircolare. In quella centrale, salendo una doppia rampa con quattro gradini, si accede all’altare su cui è collocato il tabernacolo, tutti elementi probabilmente recuperati dall'altare maggiore antecedente il Concilio Vaticano II. Sul lato sinistro del presbiterio è collocata la sacrestia. Il campanile, risalente al primo decennio del XX secolo e addossato alla struttura attaccata al fianco nord del presbiterio, ha base quadrangolare e presenta un fusto con mattoni a vista. La cella campanaria ha una bifora per lato ed è coronata da quattro pinnacoli con Croce metallica, mentre la copertura a pigna è in laterizio, al cui culmine vi è una grande Croce metallica. In precedenza aveva la forma di torre. Il concerto campanario presente oggi sulla torre è composto da 6 campane in FA#3, montate veronese e a doppio sistema, cioè suonabili sia manualmente sia elettricamente. Questi i dati del concerto: 1 – FA#3 – diametro 970 mm - peso 514 kg - fusa nel 1909 da Cavadini di Verona. 2 – SOL#3 – diametro 870 mm - peso 361 kg - fusa nel 1909 da Cavadini di Verona. 3 – LA#3 – diametro 770 mm – peso 257 kg - fusa nel 1909 da Cavadini di Verona. 4 – SI3 – diametro 720 mm – peso 210 kg - fusa nel 1909 da Cavadini di Verona. 5 – DO#4 – diametro 640 mm – peso 146 kg – fusa nel 1909 da Cavadini di Verona. 6 – RE#4 – diametro 584 mm – peso 104 kg – fusa nel 2017 da Allanconi di Bolzone di Ripalta Cremasca.. Viviani Giuseppe Franco (a cura di), Chiese nel veronese 2°, Verona; Vago di Lavagno, Società Cattolica di Assicurazione – La Grafica Editrice, 2006. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa dei Santi Filippo e Giacomo

Chiesa della Beata Vergine Maria Immacolata (Strà)

La chiesa della Beata Vergine Maria Immacolata è un luogo di culto cattolico situato nella frazione Stra' del comune di Colognola ai Colli, in provincia di Verona, nel territorio della diocesi di Verona. L'8 giugno 1955, con decreto di Andrea Pangrazio, amministratore apostolico della diocesi di Verona in quanto vescovo coadiutore con il precedente vescovo, Girolamo Cardinale, venne eretta la parrocchia di Santa Maria Immacolata a Stra', ove si trovava un antico oratorio, già cappella privata, dedicato a San Sebastiano, con un proprio cappellano che era, dal 1948, don Giulio Verzini. Don Verzini, fin dal 1952, aveva voluto la costruzione di una nuova chiesa più ampia dell'oratorio di San Sebastiano, e nel novembre dello stesso anno aveva acquistato a tale scopo un ampio terreno. Per l'edificazione dell'edificio venne istituito un comitato e la progettazione venne affidata a Arturo Benini che presentò otto progetti prima che fossero accettati dal parroco e dalla commissione diocesana d'arte sacra. La posa della prima pietra della nuova chiesa avvenne il 1º ottobre 1955 alla presenza dell'arcivescovo Giovanni Urbani, vescovo di Verona e i lavori si protrassero per un anno. Il 4 novembre 1956 la nuova chiesa fu solennemente consacrata e dedicata alla Vergine Immacolata. Lo stesso giorno fece il suo ingresso nella nuova comunità il primo parroco, don Narciso Recchia. Negli anni successivi, la chiesa fu adornata con nuovi arredi, tra i quali gli altari laterali marmorei e le stazioni della Via Crucis. Negli ultimi anni del XX secolo e nei primi anni del secolo successivo, la chiesa è stata interessata da una serie di importanti restauri, con la creazione delle nuove vetrate policrome (1996), la costruzione dell'organo a canne (2000), la realizzazione del nuovo presbiterio in stile moderno (2002) e l'edificazione dei due protiri (2004). Il nuovo altare venne solennemente consacrato l'8 dicembre 2002 dal vescovo di Verona, Flavio Roberto Carraro. La chiesa della Beata Vergine Maria Immacolata sorge nel centro della frazione di Strà ed è in un sobrio stile neoromanico. La facciata è a capanna ed è preceduta da una piazza rettangolare, in parte adibita a parcheggio. Al centro, si apre il portale con arco a tutto sesto, sormontato da un protiro moderno poggiante su due pilastri che ne segue il profilo. Ai suoi lati, vi sono due alte monofore a tutto sesto, mentre sopra di esso, al centro, si trova il rosone circolare. La facciata è coronata da tre cuspidi piramidali. Lungo il fianco destro, nei pressi dell'abside, si trova il campanile a vela a due fornici, che accoglie una campana, fusa nel 1956 dal veronese Luigi Cavadini. L'interno della chiesa presenta una pianta a navata unica coperta con capriate lignee e profonda abside semicircolare. La navata è illuminata da alte monofore a tutto sesto chiuse da vetrate policrome moderne, installate nel 1996, e lungo di essa si aprono tre cappelle laterali a pianta rettangolare, quella del Sacro Cuore di Gesù, adibita a battistero con moderno fonte battesimale marmoreo, quella della Madonna di Lourdes e quella per la reposizione dell'Eucaristia, con tabernacolo marmoreo. L'area presbiterale della chiesa, interamente rifatta in stile moderno nel 2002, vede, al centro, l'altare con, alla sua sinistra, l'ambone. All'interno dell'altare, sono custodite le reliquie della Madonna e dei santi Zeno vescovo, Fermo e Rustico martiri, Narciso di Gerusalemme, Giulio di Orta e Carlo Borromeo. In posizione arretrata, vi sono il Crocifisso (a sinistra) e il Tabernacolo (a destra). Alle spalle dell'altare si trova la sede, sormontata da una statua bronzea di Ettore Cedraschi Cristo risorto. L'affresco del catino absidale, raffigurante l'Immacolata fra angeli adoranti (1996) è opera di Giuseppe Resi. Alle spalle dell'altare, nell'abside, si trova l'organo a canne, costruito tra il 2000 e il 2002 dalla ditta organaria Fratelli Ruffatti. Lo strumento è inserito all'interno di una cassa lignea di fattura geometrica, con mostra in cinque campi composta da canne di principale con bocche a mitria, disposte a cuspide unica (campo centrale) e ali (campi laterali). Il sistema di trasmissione è elettronico e la consolle è mobile indipendente. Essa dispone di due tastiere di 61 note ciascuna e pedaliera concavo-radiale di 32 note. L'organo conta 18 registri, per un totale di 1032 canne. Donato Avogaro, Alda Baldi Baroni, Cinquant'anni. una Chiesa sulla Via, una Comunità in cammino. Appunti per una storia della comunità 1955-2005 (PDF), Stra' di Colognola ai Colli, Parrocchia "Maria Immacolata" di Stra', novembre 2005. Immacolata Concezione Colognola ai Colli Diocesi di Verona Wikibooks contiene testi o manuali sulla disposizione fonica dell'organo a canne Parrocchia di Stra', su parrocchiastra.it. URL consultato il 25 maggio 2013.