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Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo (Ronco all'Adige)

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L00 160 Ronco all’Adige, SS. Filippo e Giacomo a Scardevara
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La chiesa dei Santi Filippo e Giacomo è la chiesa parrocchiale di Scardevara, frazione del Comune di Ronco all’Adige, in provincia e diocesi di Verona; fa parte del vicariato dell’Est Veronese, precisamente dell'Unità Pastorale Albaredo-Ronco. La chiesa dei Santi Filippo e Giacomo si sviluppò nell’XI secolo su un’isola del fiume Adige per opera di alcuni monaci benedettini stanziati in loco già dal secolo precedente. Da questa piccola comunità monastica si sviluppò successivamente la comunità locale, che veniva a trovarsi in una zona paludosa. Il terremoto del 1117 portò alla sostituzione del precedente edificio sacro con uno nuovo con funzione di pieve, in collegamento con le vicine pievi in stile romanico veronese di San Salvatore in Zerpa, di San Michele in Belfiore, di Santa Maria in Ronco all’Adige e di Sant’Ambrogio in Tombasozana. La chiesa viene citata come pieve nella Bolla pontificia di Eugenio III del 1145, riguardante la diocesi veronese, la Piae Postulatio Voluntatis. Per la costruzione del nuovo edificio sacro si usò materiale del precedente e l’attuale chiesa va datata alla metà del XII secolo e fu costruita da maestranze veronesi. Nel 1389 i benedettini abbandonarono Scardevara per ritirarsi a Verona a San Fermo Minore, mentre quasi un secolo dopo (prima domenica di agosto del 1490) verrà consacrato l’altare maggiore, dopo che vi erano stati rinnovamenti interni dell’edificio. Le visite pastorali ci danno altre informazioni, come quella del 1526 del Vescovo di Verona Gian Matteo Giberti, in cui sono citati per la prima volta i santi titolari e in cui si denuncia il cattivo stato del tetto dell’edificio, nonché il fatto che all’interno cresceva l’erba e gli animali potessero entrare. Qualche anno più tardi, nel 1530, fu rifatto il pavimento e nel 1532 si predisposero i materiali per restaurare il tempio. Momento importante fu quello che avvenne il 20 maggio 1612, con la stipula dell’erezione della parrocchia di Scardevara, smembrandola da quella di Ronco all’Adige. La chiesa versa ancora in cattive condizioni a metà del XIX secolo, come denuncia il parroco all’Amministrazione Comunale. In realtà passarono ancora alcuni decenni fino ad arrivare al 1899, quando il Comune decise di compiere alcuni lavori urgenti. Fu proprio in questa occasione che si decise di dare all’aula liturgica un aspetto notevolmente diverso dall’originale. Molto del materiale altomedievale presente fu riutilizzato come materiale di spoglio e collocato in posizione diversa rispetto a quella originale. Altri lavori furono compiuti nel 1922 con la sistemazione del tetto, con un restauro generale nel 1975 e nel 2005-2006 con un intervento di manutenzione della facciata, delle absidi e, in parte, dell’interno. La facciata a capanna è stata costruita con corsi alternati di conci squadrati di tufo e filari di mattoni di laterizio. Al centro sorge il portale d’ingresso con arco a tutto sesto, sovrastato da un protiro con nicchia trasformata in monofora. Questa parte della facciata è stata ristrutturata tra il Quattrocento e il Cinquecento. Ai lati del protiro vi sono due monofore cieche, mentre in alto, in asse con esso, vi è un piccolo oculo lavorato come un rosone che introduce la luce naturale nella chiesa. Lungo i spioventi è visibile la decorazione ad archetti pensili e al culmine della facciata è collocata una grande Croce metallica. I prospetti esterni delle pareti sono quelli tipici del romanico veronese, con paramento murario a vista, con corsi alternati di mattoni e pietra. Interessante è la zona absidale, rimasta praticamente intatta, richiamando elementi presenti a San Fermo Maggiore in Verona e nella pieve di Tombasozana. Anche qui il coronamento presenta, come in facciata, archetti pensili ed è evidente la bicromia dovuta all’uso del cotto e del tufo. Al di sotto sono presenti tre absidi, con la centrale scandita da lesene con capitelli scolpiti. Ogni abside presenta una monofora strombata, mentre sopra quella maggiore vi è una finestra a forma di croce. L’interno della chiesa, in stile neoclassico, stravolto tra la fine dell’Ottocento e il XX secolo, si presenta a navata unica con tre absidi, e con pianta a croce latina grazie alle due piccole aule laterali che hanno ampliato nel tempo l’edificio. Le pareti sono ritmate da lesene d’ordine tuscanico, su cui è impostata la trabeazione che si sviluppa per l’intero perimetro dell’aula. Nella parte inferiore delle pareti vi è una zoccolatura bassa in marmo rosso Verona, mentre in alto vi sono delle finestre a lunetta che introducono la luce naturale nell’edificio sacro. Il pavimento è in quadrotte alternate di granito grigio e rosso posate in corsi diagonali, mentre il soffitto dell’aula è costituito da una grande volta a padiglione con dipinto al centro. A metà dell’aula si aprono due cappelle laterali, una di fronte all’altra, in cui si trovano rispettivamente sul lato sinistro l’altare di San Giuseppe e sul lato destro l’altare della Beata Vergine Maria. All’interno della chiesa vi sono due dipinti donati nel XX secolo. Uno è la tela dell’Assunzione della Vergine attribuita ad Alessandro Turchi detto l’Orbetto; l’altro, sul lato sinistro rispetto all’ingresso, è la Visita di Maria a Santa Elisabetta, di autore veneto. In una nicchia vi è una statua della Maternità, mentre con i restauri del 2006 è affiorato un affresco con alcuni santi. Tra di essi ben riconoscibile è San Nicola di Bari, con ai piedi una imbarcazione, a conferma della presenza di barcaioli in zona in quanto protettore dei naviganti. Il braccio destro del pseudo-transetto è utilizzabile dai fedeli e vi sono collocati i confessionali, mentre in quello sinistro vi è l’organo. Il presbiterio, rialzato di due gradini rispetto all’aula, è pavimentato con lastre di granito rosso e presenta una volta a crociera. L'intervento di adeguamento liturgico, avvenuto tra il 1975 e il 1980, ha portato all'installazione di un nuovo altare in marmo rivolto verso l’assemblea, a lato del quale sono collocati a sinistra l’ambone e a destra il fonte battesimale. Rialzata di un gradino è la sede del celebrante costituita da sedili mobili in legno intagliato. La chiesa termina con le tre absidi a sviluppo semicircolare. In quella centrale, salendo una doppia rampa con quattro gradini, si accede all’altare su cui è collocato il tabernacolo, tutti elementi probabilmente recuperati dall'altare maggiore antecedente il Concilio Vaticano II. Sul lato sinistro del presbiterio è collocata la sacrestia. Il campanile, risalente al primo decennio del XX secolo e addossato alla struttura attaccata al fianco nord del presbiterio, ha base quadrangolare e presenta un fusto con mattoni a vista. La cella campanaria ha una bifora per lato ed è coronata da quattro pinnacoli con Croce metallica, mentre la copertura a pigna è in laterizio, al cui culmine vi è una grande Croce metallica. In precedenza aveva la forma di torre. Il concerto campanario presente oggi sulla torre è composto da 6 campane in FA#3, montate veronese e a doppio sistema, cioè suonabili sia manualmente sia elettricamente. Questi i dati del concerto: 1 – FA#3 – diametro 970 mm - peso 514 kg - fusa nel 1909 da Cavadini di Verona. 2 – SOL#3 – diametro 870 mm - peso 361 kg - fusa nel 1909 da Cavadini di Verona. 3 – LA#3 – diametro 770 mm – peso 257 kg - fusa nel 1909 da Cavadini di Verona. 4 – SI3 – diametro 720 mm – peso 210 kg - fusa nel 1909 da Cavadini di Verona. 5 – DO#4 – diametro 640 mm – peso 146 kg – fusa nel 1909 da Cavadini di Verona. 6 – RE#4 – diametro 584 mm – peso 104 kg – fusa nel 2017 da Allanconi di Bolzone di Ripalta Cremasca.. Viviani Giuseppe Franco (a cura di), Chiese nel veronese 2°, Verona; Vago di Lavagno, Società Cattolica di Assicurazione – La Grafica Editrice, 2006. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa dei Santi Filippo e Giacomo

Estratto dall'articolo di Wikipedia Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo (Ronco all'Adige) (Licenza: CC BY-SA 3.0, Autori, Immagini).

Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo (Ronco all'Adige)
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Luoghi vicini

Pieve della Natività di Maria
Pieve della Natività di Maria

La pieve della Natività di Maria, chiamata anche chiesa della Natività di Maria è una chiesa sussidiaria della parrocchia della Natività di Maria di Ronco all'Adige, in provincia e diocesi di Verona; fa parte del vicariato dell’Est Veronese, precisamente dell'Unità Pastorale Albaredo-Ronco. La pieve di Ronco all’Adige ha radici antiche, visto che nacque per volontà del conte Milone, il quale, sul sito dell’attuale edificio, fece edificare una cappella dedicata alla Vergine Maria nel 929. Milone, nel suo testamento, stabilì che tutti i suoi beni, in caso di mancanza di discendenza, passassero al monastero di San Zaccaria in Venezia, che doveva utilizzarli in suffragio suo, della moglie Vulperga e dei suoi parenti legittimi. Queste disposizioni furono oggetto di contrasti tra i Sambonifacio e il monastero lagunare che andarono avanti per alcuni secoli, fino al 1348, quando i monaci rinunciarono definitivamente ai beni ronchesani. Nella Bolla pontificia di Papa Eugenio III Piae Postulatio Voluntatis del 1145 la chiesa è ricordata come pieve. Il luogo di culto miloniano non subì modifiche salvo le riparazioni in seguito al terremoto del 1117, i lavori fatti eseguire dall’arciprete Galiziano nel 1181 per ripararla e i rifacimenti nel 1400, quando furono ristrutturati l’abside e il presbiterio. Con la visita pastorale dei delegati del Vescovo di Verona Gian Matteo Giberti nel 1526 si viene a sapere che la chiesa è una pieve con arciprete, che il parroco viene eletto e che vi è il giuspatronato della veneziana famiglia Cocco. In questo periodo viene costruita la canonica, demolita nel 1965. Il parroco don Girolamo Manieri fece ricostruire la chiesa nel 1583, come ricorda l’epigrafe sopra il portale d’ingresso, rimasto lo stesso anche dopo la ricostruzione del XIX secolo. Alla fine del Settecento, con parroco don Gaspare Bragadino, si decise di costruire un nuovo altare maggiore assieme all’intero presbiterio e al coro, mentre al 1708 risale la costruzione dell’altare della Madonna delle Grazie. Poco dopo il nuovo parroco don Girolamo Marini decise di ricostruire l’intera chiesa, in stile neoclassico, usando materiale di spoglio. I lavori, iniziati nel 1802 (anche se la prima pietra fu posta il 9 maggio 1805), proseguirono fino al 1892, anno della consacrazione, avvenuta il 2 luglio, del nuovo edificio per mano del Vescovo di Verona Monsignor (e futuro Cardinale) Bartolomeo Bacilieri, mentre era parroco il Beato Giuseppe Baldo. La facciata, su progetto riadattato di Adriano Cristofali, che dà direttamente sulla strada antistante, fu costruita nella sua forma attuale tra il 1903 e il 1904. Nel 1943 si decise di ampliare il tabernacolo dell’altare maggiore e nel 1949 fu inaugurato il presbiterio rinnovato. Nel 1959 fu sistemato il tetto della chiesa. In occasione dell’arrivo in parrocchia dell’urna con le reliquie del patrono della diocesi, San Zeno, tra il 2 e il 3 settembre 1963, il Vescovo di Verona Monsignor (oggi Venerabile) Giuseppe Carraro suggerì al parroco di costruire una nuova chiesa parrocchiale, cosa che avvenne a partire dal 1964. Il trasferimento della statua marmorea della Madonna nel 1967 nel nuovo edificio sacro, adiacente alla vecchia pieve e aperto al culto dal 1965, comportò l’abbandono di quest’ultima, con conseguente degrado, visto che fu trasformata in un magazzino. Nel 2002 si decise di intervenire con un restauro totale del tempio, secondo il progetto dell’ingegnere Alberto Maria Sartori. I lavori durarono fino al 2005 e riportarono la chiesa a nuovo splendore, destinandola ad usi civici La facciata a capanna, su disegno riadattato del Cristofali, in stile neoclassico, è rivolta a nordest. Quattro grandi lesene con capitelli corinzi, poggianti su alte zoccolature, sostengono il timpano con cornice a dente di sega, al cui vertice superiore svetta una grande Croce. Al centro della facciata vi è il portale d’ingresso, con timpano, risalente alla chiesa cinquecentesca. Non esiste più la gradinata di accesso ad esso, contenente reperti romani, andati perduti dopo l’asportazione della stessa negli anni Sessanta del XX secolo. Questo rende tale ingresso inutilizzabile. L’interno è un’unica aula con quattro cappelle laterali. La copertura è costituita da una volta a botte, mentre il pavimento è in lastroni di pietra bianca con motivo geometrico a cornice grecata costituito da intarsi in marmo rosso Verona. Il prospetto interno è ritmato da lesene con capitelli ionici su cui è impostata la trabeazione presente nell’intero perimetro. In controfacciata è presente il soppalco ligneo della cantoria. Dei quattro altari laterali due (quelli della Madonna delle Grazie e del Crocifisso) risalgono al 1719, mentre gli altri sono più recenti. L’altare di maggiore pregio è quello della Madonna delle Grazie, il primo a destra, in marmo finemente lavorato e con nicchia che accoglieva la statua della Madonna, oggi nella nuova chiesa parrocchiale. Presso questo altare vi sono due iscrizioni. Quella a sinistra, voluta dal parroco Beato don Giuseppe Baldo, ricorda la scampata esondazione dell’Adige nel 1882, mentre quella di destra, voluta dal parroco don Agostino Frigo, ricorda il pericolo corso a causa del fiume nel novembre 1719. La decorazione della chiesa è del pittore Adometti, mentre i grandi affreschi sono del pittore Gaetano Miolato e risalgono al 1923, su modelli di Ludovico Seitz. Nell’aula troviamo, a sinistra, partendo dal presbiterio, la Comunità orante (firmato e datato) e lo Sposalizio della Vergine’’, mentre sul lato destro troviamo ‘’Gesù tra i dottori del Tempio e la Fuga in Egitto. Fra queste due opere è collocato il pulpito. Altri affreschi di Miolato, sul lato sinistro, sono l'Annunciazione, la Visita della Vergine Maria a Santa Elisabetta e la Natività. Le vetrate delle quattro finestre a lunetta erano state dipinte da Agostino Pegrassi, ma dopo l’abbandono della chiesa si sono frantumate. Il presbiterio è a base quadrangolare, rialzato di due gradini rispetto all’aula e coperto da una volta a botte con unghie laterali con quattro tondi dove sono raffigurati angeli e simboli sacri. La luce naturale viene introdotta in questa zona dell’edificio da due finestre rettangolari. Il pavimento è in quadrotte di marmo chiaro a corsi diagonali all’interno di un reticolo realizzato con listelli in breccia rosata e tozzetti quadrati in marmo venato nei punti d’intersezione. Nel presbiterio Miolato dipinse una Deposizione di Gesù, una Discesa dello Spirito Santo e una Incoronazione della Vergine in una lunetta. La Natività di Maria è invece una copia di quella nella nuova chiesa. Il campanile è in stile romanico ed è addossato alla parete di fondo del presbiterio. A pianta quadrata, ha un fusto massiccio in mattoni di laterizio a vista, mentre la cella campanaria ha una bifora per lato (di cui risultano parzialmente tamponata quella di nordest). La copertura è a pigna in laterizio, su cui svetta una Croce metallica con banderuola segnavento. Risulta circondata da quattro pinnacoli agli angoli, con Croci metalliche. La torre è stata restaurata nel 1958 e presenta numerosi resti romani, soprattutto nel basamento, tra cui un’ara con iscrizione in latino. I reperti romani perduti della scalinata d’ingresso alla chiesa costituivano un tutt’uno con quelli del campanile. Il concerto campanario presente oggi sulla torre è composto da 6 campane in RE3, montate veronese e a doppio sistema, cioè suonabili sia manualmente sia elettricamente. Questi i dati del concerto: 1 – RE3 – diametro 1264 mm - peso 1153 kg - fusa nel 1894 da Cavadini di Verona. 2 – MI3 – diametro 1100 mm - peso 797 kg - fusa nel 1838 da Cavadini di Verona. 3 – FA#3 – diametro 993 mm – peso 594 kg - fusa nel 1913 da Cavadini di Verona. 4 – SOL3 – diametro 924 mm – peso 476 kg - fusa nel 1838 da Cavadini di Verona. 5 – LA3 – diametro 822 mm – peso 334 kg – fusa nel 1838 da Cavadini di Verona. 6 – SI3 – diametro 710 mm – peso 210 kg – fusa nel 1988 da Capanni di Castelnovo ne' Monti (RE). Viviani Giuseppe Franco (a cura di), Chiese nel veronese 2°, Verona; Vago di Lavagno, Società Cattolica di Assicurazione – La Grafica Editrice, 2006. Pietro Gentile, Campane di Ronco all'adige (Vr), su youtube.com.

Zerpa
Zerpa

La Zerpa (dal latino Scirpus, "giunco") è una regione geografica situata in provincia di Verona, tra il fiume Adige a sud-ovest e il torrente Alpone a est; a nord si estende indicativamente fino alla strada provinciale 38 "Porcilana". La zona, paludosa fino alla metà del XX secolo, è stata bonificata dal consorzio di bonifica Zerpano negli anni del boom economico e ora è dedicata all'agricoltura. In età antica la zona era occupata dai borghi di Porcile, Bionde e Zerpa. Gli ultimi due, citati in documenti precedenti l'anno 1000, andarono gradualmente distrutti dalle ripetute piene dell'Adige, mentre Porcile cambiò successivamente nome in Belfiore. Zerpa, in particolare, è menzionata nel 916 in un documento con cui Berengario donava a un suo vassallo la chiesa di San Salvatore; questa chiesa fu distrutta nel 1796 durante la battaglia di Arcole. Lo stesso Berengario nel 912 aveva fatto costruire una strada, la "via Berengaria" (conosciuta in seguito come "via Porcilana" dato che passava per Porcile), che da San Martino Buon Albergo, dove prendeva inizio dalla via Postumia, raggiungeva Este e Monselice raccordandosi infine con la via Romea. La via Porcilana attraversava la Zerpa oltrepassando l'Alpone nel punto in cui ancora oggi è presente la "botte zerpana", e nel corso dei secoli fu necessario sopraelevarne la carreggiata per preservarla dalle frequenti inondazioni dovute allo straripamento dei fiumi. Nel Cinquecento la Zerpa passò sotto la proprietà dei conti Serego, che nel 1558 decisero di bonificare la zona paludosa e improduttiva. A tale scopo fu chiesto a Cristoforo Sorte di ideare un ponte canale con un dislivello artificiale che permettesse alle acque di scolo della Zerpa di oltrepassare il torrente Alpone; il ponte fu iniziato a costruire dieci anni dopo e fu terminato nel 1574. Esso fu eretto sul punto in cui già all'inizio del XVI secolo era presente un ponte dotato di torrette, forse con funzione di dogana o di chiusa. Già nel 1587, tuttavia, furono evidenziate delle problematiche che rendevano inutile l'opera; nel 1791 fu fatto un ulteriore tentativo di bonifica e fu in quell'occasione che venne costruito il ponte attuale, progettato dall'architetto veronese Simone Bombieri, dotato di una botte sifone e per questo chiamato Botte Zerpana. In assenza di documentazione diretta, a lungo si è creduto che il ponte visibile oggi fosse quello cinquecentesco, che secondo la tradizione sarebbe stato progettato da Andrea Palladio; tuttavia, nonostante sia vero che il famoso architetto abbia lavorato per i Serego nel Cinquecento, non ci sono fonti che confermano questa ipotesi. Anche Napoleone Bonaparte, dopo la battaglia di Arcole, diede ordine di prosciugare la palude, che era stata teatro degli scontri tra le sue truppe e quelle austriache, in modo da celebrare la vittoria francese. La Zerpa, tuttavia, rimase in gran parte paludosa fino all'inizio del XX secolo, quando fu costituito il consorzio di bonifica Zerpano per la sistemazione dell'area. Nel 1915 la zona, visitata da Berto Barbarani, era cosparsa di "casoni", capanni di caccia e pesca costruiti con fango e canne, e solcata da bassi canali in cui gli abitanti di Ronco all'Adige e Belfiore si inoltravano per procurarsi anguille, anatre selvatiche e altra selvaggina. La bonifica completa della Zerpa si è conclusa nel 1978 con la realizzazione di numerosi manufatti, tra cui una nuova botte idraulica che ha messo in comunicazione le acque di scolo della zona con il fiume Fratta.

Villa Moneta
Villa Moneta

Villa Moneta, nota anche come Palazzo Moneta, è una villa veneta situata nel comune di Belfiore, in provincia di Verona. Il complesso sorge isolato su quella che originariamente doveva essere una proprietà della famiglia Verità, successivamente passata alla famiglia Moneta. Nel 1557 il banchiere d'affari Cosimo Moneta, entrato in possesso della proprietà per via ereditaria, diede avvio ai lavori di costruzione della villa, che si conclusero nel 1563, data incisa sulla meridiana posta sul lato sud dell'edificio. A questa data si fa coincidere anche il termine dei lavori di decorazione interna della villa, visto che proprio in quell'anno Bartolomeo Ridolfi, autore degli stucchi, partì per la Polonia. Durante il periodo in cui fu proprietà di Cosimo Moneta (morto nel 1566), la villa fu teatro di feste e divertimenti e la sua fama giunse fino a Giorgio Vasari, che nelle Vite, parlando dello scultore Bartolomeo Ridolfi e dei suoi lavori, cita la dimora di Cosimo, definendola "bellissima villa". Già nel 1577 però, la villa entra a far parte dei possedimenti di Federico e Antonio Maria Serego, parenti della vedova di Cosimo Moneta.A lei ed ai figli i parenti Serego prestarono denaro, dopo la morte del marito, con condizioni che consentirono loro di appropriarsi, in breve tempo, di tutte le proprietà dei Moneta, ad un prezzo notevolmente inferiore al valore dei beni. Questo passaggio di proprietà fu anche causa di uno scontro interno alla famiglia Serego, in quanto il cugino di Federico e Antonio Maria, Marcantonio, che con uguale procedura aveva prestato denaro ai figli di Cosimo Moneta, era stato, con raggiri ed astuzie, escluso dai cugini dalla spoliazione dei beni a danno dei Moneta.La questione si risolse solo nel 1579 quando Federico e Antonio Maria si impegnarono a versare la cifra di 2750 ducati quali indennizzo al cugino Marcantonio. A causa quindi del lungo contenzioso famigliare, la prima testimonianza della presenza dei Serego nella villa di Belfiore è una lettera datata 1587, in cui risulta che la villa era abitata da Alberto Serego, figlio di Federico. Nonostante ciò, il possesso di villa Moneta doveva costituire già da prima un vanto per la famiglia Serego, se negli affreschi rinvenuti nel 1968 a Corte Ricca di Beccacivetta ad Albaredo d'Adige, antico possedimento dei Serego, è raffigurato un edificio con serliana che assomiglia molto al palazzo di Belfiore. I Serego resero la villa il centro di un'importante azienda agricola, e a loro probabilmente si deve la costruzione delle due enormi barchesse, opera del XVII secolo. Nel 1966-67, il proprietario di allora commissionò lo strappò di 22 affreschi dalla stanza del Carro di Giove,per farne dono ad una donna. Gli affreschi nel 1982 furono sequestrati. Nel 1991 il Gip ordinò il dissequestro con l'obbligo di ricollocazione a villa Moneta, in seguito mai avvenuta sia perché il nuovo proprietario della villa,Andrea Lieto, ne autorizzo' la consegna al Museo di Castelvecchio, ma anche perché la donataria,presso la quale i Carabinieri del Nucleo patrimonio artistico rinvenirono dopo anni gli affreschi,si oppose alla riconsegna. Completato il restauro della barchessa est ed il rifacimento del tetto della Villa, l'attuale proprietà,Andrea Lieto s.r.l.,richiede da tempo l'intervento di tutti gli Enti preposti alla salvaguardia del sito storico ed al rispetto dei tanti vincoli imposti,ma mai rispettati dai proprietari confinanti. Furti di camini ed atti vandalici sugli infissi esterni( che hanno costretto la proprietà a custodirli in un luogo protetto),non sono ancora stati sufficienti a smuovere l'interesse delle Autorità preposte alla tutela del bene storico. Anche con Google Maps è possibile vedere come, sul lato ovest della Villa, sia stata creata una vera e propria discarica,utile a disincentivare ogni progetto di riuso della Villa. Il complesso, immerso nella campagna di Belfiore, è costituito dall'imponente e austero palazzo padronale e dalle barchesse, collocate ai lati e staccate da esso. La villa si struttura come un possente parallelepipedo con le facciate a nord e a sud uguali. Al piano terra, i prospetti principale sono caratterizzati da un portale centinato "a serliana" decorato a bugnato con un mascherone sulla chiave di volta, che introduce in un vestibolo. Evidente qui è la somiglianza con la loggia di villa Marogna a Nogara, anche se non è chiaro se a villa Moneta tali vestiboli costituissero delle logge aperte oppure delle vere e proprie stanze separate dall'esterno, che introducevano al grande salone passante.Le finestre al piano terra presentano anche esse una decorazione a bugnato con un davanzale sorretto da mensole, invece le finestre del primo piano e del sottotetto presentano una semplice cornice liscia. Delle fasce marcapiano a livello dei solai del primo piano e del sottotetto suddividono la facciata in tre parti. A sud una meridiana reca incisa la data 1563, probabile data di completamento dell'edificio. Le decorazioni interne furono completate probabilmente entro il 1563, e i suoi autori furono Bartolomeo Ridolfi, per le decorazioni a stucco, e Angelo Falconetto, per gli affreschi. I due vestiboli al piano terra in corrispondenza delle facciate nord e sud presentano una volta a vela con al centro un clipeo affrescato, uno dei quali rappresentava il Ratto di Europa, mentre l'altro, ancora esistente, raffigura Venere, Amore e un satiro. Il grande salone rettangolare compreso tra i due vestiboli presenta una volta a botte con grandi vele sui lati, impreziosite da tralci; al centro è presente un grande ovale contornato da una ghirlanda di fiori e frutta, al cui interno è raffigurata Giunone o Io. Attorno troviamo un nastro che regge dei cammei raffiguranti divinità olimpiche. Nelle lunette sotto le vele sono affrescati dei putti seduti su una balaustra intenti a suonare strumenti musicali. Al di sotto corre un fregio monocromo raffigurante animali marini e conchiglie. Sulle pareti lunghe del salone sono raffigurate una Scena di battaglia e una Scena di trionfo. Un tempo queste scene erano attribuite a Paolo Farinati, per la scoperta di una P, una F e una P e due chiocciole durante un restauro, e interpretate come sue firme. Oggi però, nonostante il pessimo stato di conservazione non permetta un'adeguata analisi, vengono attribuite ad Angelo Falconetto, che collaborò con Bartolomeo Ridolfi nella decorazione della villa. Altro ambiente degno di nota del piano terra è la "Sala delle Quattro Stagioni". Essa presenta una volta caratterizzata da un'elaborata e raffinata partitura in stucco, che divide la superficie in vari settori entro i quali sono raffigurati grottesche e divinità pagane: al centro, entro un ovale, è raffigurato ad affresco il Parnaso con Apollo circondato dalle Muse, attorno quattro clipei con rappresentazioni in stucco delle allegorie delle Stagioni, invece nelle partiture triangolari tra le vele abbiamo stucchi raffiguranti varie divinità olimpiche. Nelle lunette sulle pareti sono presenti decorazioni ad affresco di putti che suonano strumenti musicali. Salendo al primo piano si incontra la stanza detta "degli Illeciti Amori" con camino, soffitto a cassettoni e alle pareti affreschi rappresentanti gli amori degli dei. Sono raffigurate tre scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, intervallate da finti marmi e da una raffigurazione a monocromo di un guerriero, forse Marte. Anche qui, come in tutta la villa, la paternità degli affreschi spetta ad Angelo Falconetto. Caratteristica dell'edificio padronale è la cosiddetta "scala dei mussi", che veniva usata per trasportare le granaglie nel sottotetto per mezzo di muli. Nel sottotetto è presente l'effige in gesso di uno dei proprietari della villa, l'avvocato G.B. Cressotti, morto nel 1853. L'originale marmoreo è l'elemento principale del suo monumento funebre al Cimitero Monumentale di Verona. Villa Moneta è "una delle ville del veronese più permeata di cultura classica", sappiamo infatti che Bartolomeo Ridolfi era uno dei principali collaboratori di Palladio: Ridolfi è coinvolto per esempio nella decorazione di villa Pojana a Pojana Maggiore. La decorazione di alcune sale di palazzo Canossa e palazzo Bocca-Trezza a Verona, anch'essa opera di Ridolfi, costituiscono un precedente che verrà poi replicato alla decorazione di villa Moneta. La ricchezza delle sue decorazioni, in particolare l'uso delle decorazione a stucco, e l'isolamento del corpo padronale rispetto agli edifici rustici, la fanno assomigliare più a un palazzo di città che a una villa di campagna, ne è sintomo il fatto che la villa venga comunemente definita palazzo Moneta. Queste caratteristiche ritornano anche in altre ville veronesei, come villa Marogna a Nogara, villa Serego-Malipiero a Rivalta di Albaredo d'Adige e la Fittanza a Marega di Bevilacqua. Tutti questi edifici sono caratterizzati da un aspetto esteriore semplice e severo, a cui si contrappone una decorazione interna ricca e fastosa. Fastosa doveva essere pure la vita che nella villa si conduceva, come suggeriscono il grande salone affrescato e i numerosi camini di mirabile fattura. Una villa intesa quindi più come luogo di delizie e di svago, che come centro agricolo e luogo in cui il padrone possa riposarsi dai negotia cittadini. Questo modo di interpretatare la vita in villa in parte si discosta da quello teorizzato da Alvise Cornaro, e messo poi in pratica da Andrea Palladio, in cui la villa è il luogo in cui il padrone, mentre sovrintende ai lavori agricoli, riacquista le energie fisiche e si dedica all'otium. Ciò si riflette inoltre nella decorazione interna, in cui mancano riferimenti alla vita agreste e alla celebrazione dell'agricoltura, ma è un continuo richiamo ai piaceri della vita: lo testimonia la "stanza degli amori illeciti" e le rappresentazioni degli amori degli dei sparse nelle sale della villa. Nonostante ciò, è comunque evidente la raffinatezza dell'apparato decorativo, a suggellare il fatto che il committente Cosimo Moneta era un uomo sensibile al fascino della cultura. Stefania Ferrari (a cura di), Ville venete: la Provincia di Verona, Venezia, Marsilio, 2003. Giuseppe Pavanello, Vincenzo Mancini (a cura di), Gli affreschi nelle ville venete. Il Cinquecento, Venezia, Marsilio, 2008. Paola Marini (a cura di), Palladio e Verona. Palazzo della Gran Guardia, Neri Pozza Editore, 1980. Giuseppe Franco Viviani (a cura di), La villa nel veronese, Banca Mutua Popolare di Verona, 1975. Giulio Zavatta (a cura di), Palladio nel Colognese. La Cucca dei Serego: architettura, paesaggio e arte, Rimini, 2012. Giulio Zavatta, Su un disegno di Bartolomeo Ridolfi e Bernardino India per villa Moneta a Belfiore, in Postumia, n.26/1-2-3, 2015. Giulio Zavatta, I Falconetto, in M. Molteni e P. Artoni (a cura di), Le vite dei veronesi di Giorgio Vasari. Un’edizione critica, Treviso, 2013.

Battaglia del ponte di Arcole
Battaglia del ponte di Arcole

La battaglia del ponte di Arcole, anche nota più semplicemente come battaglia di Arcole, combattuta dal 15 al 17 novembre 1796 presso il comune veronese di Arcole, fu un famoso episodio della prima campagna d'Italia di Napoleone Bonaparte. Lo scontro, avvenne all'interno dei territori della Repubblica di Venezia, risoltosi con una vittoria francese, infranse le speranze del comandante austriaco Alvinczy di riunirsi al generale Davidovich e proseguire quindi per liberare Mantova. Iniziata la campagna d'Italia l'11 aprile 1796, Napoleone Bonaparte sconfisse rapidamente il Regno di Sardegna di Vittorio Amedeo III di Savoia e continuò l'offensiva contro gli austriaci del generale Beaulieu lasciando indietro la guarnigione di Mantova, costringendolo a ritirarsi sull'Adige dopo la battaglia di Lodi. Nel desiderio di liberare la grande fortezza dell'attuale Lombardia, il nuovo comandante in capo austriaco Würmser sferrò una controffensiva che però, a seguito della sconfitta subita a Castiglione il 5 agosto 1796, ebbe come unico risultato la fuga del generale austriaco all'interno di Mantova, nuovamente posta sotto assedio dal generale francese Sahuget. Le redini dell'esercito austriaco in Italia, ancora forte di 46.000 uomini, passarono quindi a Joseph Alvinczy von Berberek e al suo subordinato Paul Davidovich, che avevano l'obiettivo di correre in soccorso dell'esercito austriaco bloccato a Mantova. Il piano elaborato da Alvinczy era costituito da una manovra a tenaglia contro Bonaparte: Davidovich sarebbe disceso lungo la valle dell'Adige con 18.000 uomini, minacciando di arrivare su Verona da nord-ovest; al contempo Alvinczy con oltre 28.000 uomini avrebbe attraversato il Brenta puntando prima su Vicenza e poi su Verona da nord-est; in questo modo Bonaparte dalla sua base operativa di Verona avrebbe dovuto fare fronte all'armata di Alvinczy stando attento contemporaneamente alle proprie spalle e mantenendo sempre una parte della sua Armata bloccata nell'assedio di Mantova. Il piano di Alvinczy sembrò funzionare: Davidovich costrinse il generale francese Vaubois ad abbandonare Trento, tentando una prima difesa all'altezza di Nomi, per poi retrocedere ancora di più per evitare l'accerchiamento, fino a Rivoli, all'imbocco della valle dell'Adige; contemporaneamente Alvinczy avanzò su due colonne, passando il Brenta a Bassano del Grappa e a Fontaniva (malgrado la sanguinosissima opposizione di due contingenti francesi, comandati rispettivamente da Augereau e Massena, inviati da Bonaparte per rallentare gli austriaci) e scontrandosi con i francesi nella battaglia di Caldiero, il 12 novembre, a seguito della quale obbligò il nemico a riparare sulla riva occidentale dell'Adige. Napoleone, con Vaubois bloccato a nord e senza possibilità di prelevare altre truppe da Mantova senza compromettere l'assedio, mise in piedi un piano per radunare tutti i soldati disponibili a Verona per prendere Villanova di San Bonifacio, sperando così di ingaggiare battaglia con Alvinczy nella zona paludosa tra i fiumi Alpone e Adige vanificando la superiorità numerica austriaca. Le forze francesi erano disposte su due divisioni: Comandante in capo: Napoleone Bonaparte Divisione Augereau, su: 4.e Demi-Brigade légère (3 battaglioni) 18.e Demi-Brigade légère (3 battaglioni) 39.e Demi-Brigade de ligne (3 battaglioni) 69.e Demi-Brigade de ligne (3 battaglioni) Divisione Massena, su: 19.e Demi-Brigade de ligne (3 battaglioni) 85.e Demi-Brigade de ligne(3 battaglioni) 93.e Demi-Brigade de ligne (3 battaglioni) aliquote di cavalleria presenti ma non impegnati in combattimento: Riserva di fanteria (Generale Macquart) Riserva di cavalleria (Generale Beaurevoir) Forza totale: 20000 uomini Le forze austriache erano costituite dal Corpo del Friuli: Comandante in capo: Feldzugmeister Alvinczy Corpo del Friuli, su: Infanterie Regiment Hoch und Deutchmeister N.4 (2 battaglioni) Infanterie Regiment Preiss N.24 (2 battaglioni) Infanterie Regiment Kinsky N.36 (3º battaglione) Infanterie Regiment Splényi N.51 (2º e 3º battaglione) Infanterie Regiment Jellačič N.53 (3º e 4º battaglione) Infanterie Regiment Joseph Colloredo N.57 (2º battaglione) Grenz-Infanterie Regiment Warasdiner (4º e 5º battaglione) Grenz-Infanterie Regiment Cārlstadt (6° e 7 battaglione) Grenz-Infanterie Regiment Banalisten (2º e 4º battaglione) Grenz-Infanterie Regiment Banater (5º e 6º battaglione) Grenz-Infanterie Regiment Wallachen (3º battaglione) Husaren Regiment Wurmser N.8 (2 squadroni) Stabs-Dragoner Regiment (4 squadroni) Ulhanen Regiment Mészáros N.10 (4 squadroni) Forza totale: 18500 uomini Il 14 novembre le avanguardie di Alvinczy giunsero in vista di Villanova obbligando Bonaparte a lasciare Verona, la cui caduta avrebbe irrimediabilmente compromesso tutti i suoi movimenti lasciando il solo Vaubois tra Davidovich e Alvinczy, nelle mani del generale François Macquard con agli ordini 3.000 soldati prelevati dalle schiere di Vaubois. La manovra di Alvinczy aveva allungato le vie di comunicazione e di rifornimento degli austriaci, e Bonaparte individuò nel ponte sull'Alpone il punto in cui avrebbe potuto colpire il nemico per isolarlo dai suoi depositi. La notte tra il 14 e il 15 Bonaparte si mise dunque in marcia con 18.000 uomini verso Ronco all'Adige, dove all'alba sistemò un ponte di barche che subito i francesi attraversarono per raggiungere le paludi adiacenti alla riva nord dell'Adige. Le unità di Augereau e Masséna cercarono di occupare il villaggio di Porcile ma furono ingaggiate dalle avanguardie di Giovanni Provera, che comunque non riuscì a contenere l'impeto francese, lasciando a Bonaparte un sicuro fianco occidentale. Augereau tuttavia fallì nell'obiettivo di oltrepassare l'Alpone e conquistare Villanova perché inchiodato dal fuoco austriaco al ponte di Arcole. Bonaparte, resosi conto che ogni ritardo avrebbe reso meno probabile intrappolare Alvinczy, inviò 3.000 soldati di Jean Joseph Guieu a cercare un guado presso Albaredo d'Adige, per aggirare Arcole. Nel frattempo Porcile fu rinforzata da 3.000 soldati austriaci e un simile distaccamento arrivò ad Arcole, coprendo la ritirata di Alvinczy e di metà dei suoi uomini. Per evitare che il generale nemico gli sfuggisse, Bonaparte tentò un nuovo disperato attacco al ponte di Arcole, brandendo un tricolore francese e mettendosi alla testa dei suoi uomini, ma l'azione non ebbe successo e lo stesso Bonaparte, caduto in un fosso, fu salvato dalla cattura dal suo aiutante di campo. Solo alle 19:00 Guieu, che nel frattempo aveva trovato un guado, riuscì a conquistare Arcole da sud. Tale successo fu vanificato dalle preoccupanti notizie inviate da Vaubois, che annunciava di essere stato respinto fino a Bussolengo. Bonaparte di conseguenza prese la difficile decisione di abbandonare Arcole per rischierarsi sull'Adige, nell'eventualità di dover soccorrere in tutta fretta Vaubois. Nonostante ciò, il primo giorno di battaglia comportò ai francesi l'annullamento della minaccia austriaca su Verona, mentre Alvinczy era ormai impossibilitato ad unirsi a Davidovich. Nella mattinata del 16 i francesi, constata l'inattività di Davidovich, tentarono nuovamente di occupare Porcile ed Arcole (ritornate in mano austriaca nella notte), ma riuscirono ad impossessarsi, dopo un'intera giornata di combattimenti, solo della prima località, essendo per giunta fallito il tentativo del generale Honore Vial di passare l'Alpone alla sua foce. Come il giorno precedente, Bonaparte, all'arrivo della sera, ritirò tutti i suoi soldati sull'Adige, sempre per tenersi pronto a soccorrere Vaubois. Nella notte le file francesi vennero rinforzate da 3.000 uomini inviati da Kilmaine. Anche se ancora controllavano Arcole, gli austriaci avevano subito perdite significative, tant'è che all'alba del 17 novembre Alvinczy scrisse a Davidovich di non poter sopportare più di un nuovo attacco francese. Avendo fatto sapere Vaubois che il suo fronte era tranquillo, i francesi si scagliarono per la terza volta contro gli austriaci, le cui forze erano ormai separate in due tronconi con circa un terzo dei soldati (6.000) dislocati nella zona paludosa agli ordini di Provera ed Hohenzollern. Per dare il colpo di grazia al nemico, Bonaparte ordinò un attacco contro il grosso delle forze di Alvinczy. Masséna si preparò quindi ad attirare l'attenzione della guarnigione di Arcole fuori dalla città, schierando una sola brigata nella strada tra Arcole e Porcile lasciando il resto della sua divisione nascosta tra la vegetazione. Gli austriaci caddero nella trappola e, spinti indietro, dovettero cedere una parte di Arcole dopo uno scontro alla baionetta con i francesi. Minor fortuna ebbe invece Augereau, che, mentre parte della sua divisione era in marcia verso Legnago per aggirare Arcole, non riuscì a prendere Albaredo per via della tenace difesa offerta dai soldati di Alvinczy. Per sfruttare la situazione Napoleone radunò quattro trombettieri ed un piccolo numero di "guide" (la sua guardia del corpo) con lo scopo di ingannare il nemico: non visto, il piccolo distaccamento guadò l'Alpone e, grazie al suono degli strumenti musicali, simulò l'avvicinamento di un grande reparto proprio alle spalle degli austriaci acquartierati ad Arcole, che si ritirarono subito verso nord convinti di un imminente attacco in forze francese. Grazie a questo stratagemma i reparti che bloccavano Augereau sbandarono dando l'occasione al generale francese di riunirsi con Masséna nell'ormai libera Arcole, da dove, assieme ai soldati provenienti da Legnago, dilagarono nelle zone circostanti. Alvinczy, di fronte a quella che gli sembrò una grave minaccia alle sue retrovie, ordinò la ritirata su Vicenza a tutto l'esercito. A prezzo di 4.500 perdite in tre giorni di combattimenti, Napoleone aveva definitivamente stroncato il tentativo di Alvinczy di riunirsi con Davidovich. Con 7.000 uomini in meno, morti, feriti o presi prigionieri ad Arcole, Alvinczy riuscì a malapena a ritornare a Trento abbandonando del tutto il progetto di liberare Mantova. Gli ultimi sforzi austriaci sarebbero stati resi vani nella successiva battaglia di Rivoli. David G. Chandler, Le campagne di Napoleone, vol. I, 9ª edizione, Milano, BUR, 2006 [1992], ISBN 88-17-11904-0. Simon Scarrow, Il generale, Newton Compton Editori, 2017. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su battaglia del ponte di Arcole

Arcole
Arcole

Arcole (Arcole in veneto) è un comune italiano di 6 394 abitanti della provincia di Verona in Veneto. Arcole si trova in una zona di territorio circa a metà tra le città di Verona e Vicenza. La zona in cui è situato è ricca d'acqua; la Zerpa, zona a ovest dell'Alpone, fino alla metà del XX secolo era infatti paludosa. Nel suo territorio scorre il torrente Alpone, che poco lontano sbocca nell'Adige. Il paese è citato nel 1224. È noto soprattutto per la battaglia del ponte di Arcole che si tenne tra il 15 e il 17 novembre 1796 in cui Napoleone Bonaparte batté gli austriaci. Un obelisco, fatto innalzare da Napoleone stesso, ricorda quell'evento. Le iscrizioni latine presenti alla base dell'obelisco, unico originale dell'epoca napoleonica in Italia, sono state redatte da Calimero Cattaneo. L'incarico era stato dapprima offerto a Foscolo, ma la trattativa non andò in porto. Le memorie napoleoniche si custodiscono in un piccolo museo situato nel centro del paese. Lo stemma comunale è stato riconosciuto con decreto del Capo del Governo del 24 settembre 1931. Nello stemma è raffigurato l'Obelisco Napoleonico che sorge nel territorio di Arcole sulla riva destra del torrente Alpone, alla testata del ponte della strada che scende verso Belfiore, eretto in ricordo della vittoria delle truppe francesi sugli austriaci nella battaglia di Arcole del 1796. Il gonfalone, concesso con regio decreto del 7 luglio 1932, è un drappo di azzurro. Chiesetta dell'Alzana - XVII secolo Villa Ottolini - XVIII secolo Castello - XIII secolo Arco dei Croati - XIV secolo Obelisco Napoleonico - XIX secolo Abitanti censiti Museo Napoleonico Museo Contadino dell'Alzana Fiera degli asparagi Ad aprile di ogni anno si tiene la locale Fiera degli asparagi: il prodotto è rinomato e conosciuto per la sua qualità in tutto il Veneto. Fiera Nazionale di San Martino e Arcole D.O.C. Si tiene il sabato e la domenica più vicini alla Festa di San Martino (11 novembre) e ha lo scopo di promuovere i prodotti tipici, la storia e le tradizioni della provincia di Verona con mostre, rievocazioni storiche e numerosi stand per degustazioni e vendite dirette. Arcole ha due frazioni: Gazzolo e Volpino, situate a nord-nordest del paese. Il paese dà il nome ad un vino DOC. La zona di produzione comprende i comuni di Arcole, Cologna Veneta, Albaredo, Zimella, Veronella, Zevio, Belfiore, Caldiero, San Bonifacio, Soave, Colognola ai Colli, Monteforte, Lavagno, Pressana, Vago di Lavagno e San Martino Buon Albergo in provincia di Verona ed i comuni di Lonigo, Sarego, Alonte, Orgiano e Sossano in provincia di Vicenza. La caratteristica di questo vino è data dai terreni in cui è coltivato, che devono essere sabbiosi. Non esiste un solo tipo di vitigno, possono essere di più vitigni. Arcole è sede della filiale italiana della catena di supermercati Lidl. Cadenet Gemellaggio nel nome di André Estienne, passato alla storia come il piccolo tamburino di Arcole. Anna Maria Ronchin, Nel Tempo della Dea Edar, Vicenza, 2006, p. 124. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Arcole Sito ufficiale, su comunediarcole.it.

Chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia (Belfiore)
Chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia (Belfiore)

La chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia è un ex luogo di culto cattolico, di Belfiore, in provincia e diocesi di Verona. La chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia esisteva già nel X secolo ed era di proprietà dei Canonici della Cattedrale di Verona. Fu riedificata nel XVI secolo. Nel 1622 una piena dell’Adige portò l’allora parroco di Belfiore, don Antonio Martini, in accordo con i fedeli, a spostare la sede parrocchiale dalla chiesa della Madonna della Strà a questo luogo di culto. Alcune notizie ci sono note dalle visite pastorali del Vescovo di Verona Gianfrancesco Barbarigo avvenute nel 1699 e nel 1704. Sappiamo che fu celebrata la Santa Messa e si pregò per i defunti nel vicino cimitero. Il Vescovo ordinò, tra le varie cose, di ridipingere il tabernacolo ligneo, mentre viene descritta la presenza del fonte battesimale in un angolo della chiesa. In occasione della napoleonica Battaglia del ponte di Arcole (15-17 novembre 1796) la chiesa non fu saccheggiata (fu rubato solo il vaso dell’Olio Santo), mentre fu distrutta l’antica chiesa di San Salvatore in Zerpa, incendiati o lacerati i libri e i registri dell’archivio parrocchiale e saccheggiata tre volte la canonica dove abitava il parroco don Francesco Farsaglia. Fu il sacerdote a decidere di trasportare provvisoriamente a San Vito la statua della Madonna della Strà per evitare distruzioni o manomissioni alla fine di ottobre del 1805. Fu riportata al Santuario il 25 maggio 1806. Il 6 maggio 1811 i fedeli belfioresi iniziarono il rifacimento della loro chiesa parrocchiale. I lavori durarono undici mesi e devono essere stati di una certa importanza visto che il 12 aprile 1812 il Vescovo di Verona Innocenzo Maria Liruti inaugurò e consacrò il luogo di culto. Il 9 giugno 1940 fu nominato nuovo parroco di Belfiore don Luigi Bosio, oggi venerabile. La sua decisione di costruire una nuova grande chiesa parrocchiale in quanto la chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia era da lui ritenuta piccola per contenere i fedeli e non adeguata per la liturgia in quanto la casa di Dio doveva essere la più bella, portò dal 1947 all’abbandono del luogo di culto. La facciata a salienti, rivolta verso occidente, presenta un portale rettangolare, elevato di qualche gradino, tra due coppie di lesene su piedistalli. In alto la facciata è chiusa dal timpano triangolare, mentre due timpani spezzati coronano le sezioni laterali della facciata, corrispondenti alle cappelle laterali interne. La chiesa è ad aula unica con due cappelle laterali per lato, aperte sulla navata con un arco a tutto sesto. Alcune finestre rettangolari in alto introducono luce naturale nell’aula. Il presbiterio è a base rettangolare e abside semicircolare. Da una foto d’epoca si nota l’altare maggiore marmoreo, con balaustre, il catino absidale dipinto e una pala in fondo all’abside. Anche all’interno della chiesa sono presenti lesene che sostengono una cornice che segue il perimetro della chiesa. Nella chiesa era presente il quadro di Paolo Farinati raffigurante la Madonna di Belfiore, oggi nell'abside della nuova parrocchiale, e le due tele restaurate nel 2013 e collocate nella cappella feriale "Studium Pietatis". Il campanile è a base quadrata, con una cornice marcapiano che separa la parte inferiore da quella in cui era presente l’orologio sul lato settentrionale. La cella campanaria presenta lesene agli angoli e una monofora con arco a tutto sesto per lato. Un tamburo ottagonale e coperto da un cupolino, mentre agli angoli sono presenti quattro pinnacoli. Ancora oggi nella cella campanaria è presente un concerto di 5 campane in MI3 montate alla veronese ed elettrificate, ma attualmente ferme. Questi i dati del concerto: 1 – MI3 – diametro 1085 mm - peso 715 kg - Fusa nel 1860 da Cavadini di Verona 2 – FA#3 – diametro 980 mm - peso 507 kg - Fusa nel 1860 da Cavadini di Verona 3 – SOL#3 – diametro 875 mm – peso 363 kg - Fusa nel 1860 da Cavadini di Verona 4 – LA3 – diametro 820 mm - peso 298 kg - Fusa nel 1860 da Cavadini di Verona 5 – SI3 – diametro 720 mm - peso 206 kg - Fusa nel 1860 da Cavadini di Verona. Gaetano Pozzato, Ho veduto la Gerusalemme del cielo. Pellegrinaggio spirituale alla Chiesa Parrocchiale di Belfiore. Nel ricordo del 50° della costruzione., Verona, Parrocchia di Belfiore, 2000. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia Chiesa vecchia Belfiore, su youtube.com. URL consultato il 9 novembre 2023.