place

Chiesa di Santa Maria degli Angeli (Brescia)

Chiese dedicate a santa Maria degli AngeliChiese della diocesi di BresciaChiese di BresciaPagine con mappe
Chiesa di Santa Maria degli Angeli facciata Brescia
Chiesa di Santa Maria degli Angeli facciata Brescia

La chiesa di Santa Maria degli Angeli è una chiesa di Brescia, situata in contrada delle Bassiche, a metà fra i crocevia con via Fratelli Bronzetti e via Cairoli. Nata alla fine del Quattrocento per volere di un gruppo di monache provenienti dal convento di Santa Croce e completamente rinnovata nel Seicento, dopo la soppressione avvenuta nel 1797 fu recuperata dalle Orsoline che vi insediarono un istituto scolastico, ancora oggi attivo. Fra le opere custodite si segnalano le pitture sulla volta di Carlo Innocenzo Carloni, un grande affresco di Vittorio Trainini e una tela di Sante Cattaneo.

Estratto dall'articolo di Wikipedia Chiesa di Santa Maria degli Angeli (Brescia) (Licenza: CC BY-SA 3.0, Autori, Immagini).

Chiesa di Santa Maria degli Angeli (Brescia)
Contrada delle Bassiche, Brescia

Coordinate geografiche (GPS) Indirizzo Luoghi vicini
placeMostra sulla mappa

Wikipedia: Chiesa di Santa Maria degli Angeli (Brescia)Continua a leggere su Wikipedia

Coordinate geografiche (GPS)

Latitudine Longitudine
N 45.538211 ° E 10.211698 °
placeMostra sulla mappa

Indirizzo

Contrada delle Bassiche
25122 Brescia (Zona Centro)
Lombardia, Italia
mapAprire su Google Maps

Chiesa di Santa Maria degli Angeli facciata Brescia
Chiesa di Santa Maria degli Angeli facciata Brescia
Condividere l'esperienza

Luoghi vicini

Chiesa dei Santi Cosma e Damiano (Brescia)
Chiesa dei Santi Cosma e Damiano (Brescia)

La chiesa dei Santi Cosma e Damiano è una chiesa di Brescia, situata all'incrocio tra contrada delle Bassiche e via Cairoli. Edificata all'inizio del Trecento e in seguito ricostruita nel Quattrocento, fino a un ultimo rifacimento nel Seicento, la chiesa ospita importanti opere d'arte, fra le quali due tele di Luca Mombello, una di Giambettino Cignaroli e la preziosa arca di San Tiziano, scolpita nel 1506 e capolavoro della scultura bresciana del periodo. Il chiostro quattrocentesco del monastero annesso, soppresso nel 1797, è noto come "chiostro della Memoria", nome conferito dal poeta Angelo Canossi che qui fondò nel 1916 l'Istituzione della Memoria, scolpendo sulle colonne i nomi dei caduti bresciani della prima guerra mondiale. La chiesa è ancora oggi officiata ed è stata affidata alla cura del Sovrano Militare Ordine di Malta è retta ed animata da un Cappellano dell'Ordine che coordina tutte le attività religiose , secondo le direttive del Capo Sezione di Brescia. Ogni anno viene celebrata in forma solenne la ricorrenza liturgica dei Santi Cosma e Damiano il 26 settembre e di San Giovanni Battista il 24 giugno. La fondazione di una comunità di monache benedettine dedicata ai Santi Cosma e Damiano all'interno del territorio cittadino si deve probabilmente alla presenza longobarda, che alla fine dell'VIII secolo risulta particolarmente impegnata nella creazione di cenobi in città, con il monastero di Santa Giulia, e in provincia con la badia leonense a Leno e il monastero di San Salvatore a Sirmione. Il monastero dedicato ai due martiri siriani viene costruito, come ricordano alcuni documenti del IX secolo, a nord dell'attuale Broletto. Gli stessi documenti forniscono l'immagine di un ente ecclesiastico ben inserito nella vita religiosa cittadina e saldamente ancorato a proprietà fondiarie nella zona ovest del centro urbano e nei territori circostanti. La gerarchia interna alla comunità, funzionale alla gestione economico-amministrativa e alla cura degli uffici liturgici, si apriva alla collaborazione del mondo laicale attraverso la presenza di conversi, che gravitavano attorno al monastero. Nel 1298, ottenuta l'autorizzazione da Papa Bonifacio VIII, il vescovo Berardo Maggi ordina il trasferimento del monastero nella zona occidentale dei Campi Bassi, che nell'espansione della cerchia muraria pianificata pochi anni prima da Alberico da Gambara era stata assorbita nel centro urbano. Le religiose trasferiscono quindi il proprio cenobio lungo l'attuale contrada delle Bassiche, insediandosi nella chiesa di Sant'Agostino ai Campi Bassi e nelle attigue strutture religiose già appartenute agli Eremitani. Le strutture del centro della città, invece, vengono demolite creando la zona nord dell'attuale Piazza del Duomo. Con il passare del tempo, la chiesa si arricchisce di importanti opere d'arte, fra le quali il polittico dei santi Cosma e Damiano di Paolo Veneziano, i cui pannelli superstiti sono oggi alla Pinacoteca Tosio Martinengo, realizzato fra il 1350 e il 1360. Nel Quattrocento il monastero attraversa un periodo di decadenza morale: le monache vivono seguendo una cattiva condotta e mancando di rispetto alla regola e all'osservanza della clausura. Era questa una grave mancanza, soprattutto in seguito alla riforma dell'ordine benedettino, promossa dalla Congregazione di Santa Giustina a Padova a partire dal 1417. Si procede dunque dal 1460 a un rinnovo spirituale e architettonico del cenobio, registrando i primi interventi edili nella chiesa. La situazione viene infine sanata nel 1495 con la definitiva annessione alla Congregazione Cassinese: il monastero perde la sua autonomia e passa in gestione all'abate del monastero dei Santi Faustino e Giovita, trovando nuova prosperità. Durante il Cinquecento si rilevano altri lavori di rifacimento e abbellimento della chiesa, che subisce notevoli rifacimenti nel Seicento. Il 1º ottobre 1797, infine, le monache vengono fatte uscire dal monastero e trasferite nel monastero di Santa Giulia, in vista della soppressione del cenobio, poi difatti decretata il 24 ottobre dello stesso anno dal governo provvisorio napoleonico. Nel 1916 il chiostro del monastero accoglie l'Istituzione della Memoria, fondata dal patriota e poeta dialettale bresciano Angelo Canossi per ricordare il sacrificio dei tanti soldati caduti durante la prima guerra mondiale: i loro nomi vengono incisi in ordine alfabetico sulle colonne marmoree del portico e il chiostro assume il nome di "chiostro della Memoria". Nel 1929 il complesso viene anche restaurato. Nel 2016 la Chiesa è stata affidata alla cura del Sovrano Militare Ordine di Malta. All'esterno, la chiesa si presenta con un aspetto molto complesso e articolato, dato dalla stratigrafia accumulata nei secoli: la migliore vista dell'edificio si ha dall'intersezione tra contrada delle Bassiche e via Cairoli: da qui si vede la chiesa verso il presbiterio, la cui abside sporge ortogonale alla contrada delle Bassiche. Da qui si diparte verso l'alto l'originale muratura gotica della chiesa, a corsi in pietra e laterizio. Lungo via Cairoli, invece, si affaccia l'ingresso alla chiesa costruito in epoca barocca e ancora oggi accesso principale. Il volume dell'edificio appare più in alto e si può scorgere anche parte del retro dell'originaria facciata della chiesa, sul chiostro interno. Sia il paramento murario del presbiterio, sia quello di facciata sono coronati, al vertice superiore e all'estremità dei due spioventi, da pinnacoli in cotto, molto ricorrenti dell'architettura gotica bresciana e presenti, ad esempio, sulla facciata della chiesa di San Giuseppe e su quella della chiesa del Santissimo Corpo di Cristo. Lungo contrada delle Bassiche, invece, si apprezza meglio la maestosa mole del campanile ancora ascrivibile all'architettura romanica e risalente pertanto al Trecento: è interamente in medolo, una pietra biancastra locale, decorato in sommità da bifore già di ispirazione gotica e coronato da archetti ancora tipicamente romanici. All'interno, la chiesa presenta un nartece d'ingresso coperto da tre volte a vela in sequenza, dove si conservano alcuni affreschi molto frammentari con angeli, frutti e finte scanalature di colonne. Attraversato il pronao, si accede al grande vano ottagonale che costituisce l'aula della chiesa, sorretto agli angoli da poderose colonne. L'accesso odierno, però, non avviene più tramite il nartece ma lateralmente, in prossimità dell'abside. Nel nartece, a sinistra dell'ingresso all'aula ottagonale, è conservato un gruppo ligneo composto da San Filippo Neri che stringe per mano due bambini. Sulla parete, una lapide menziona le famiglie Mazzoleni, Migliorati e Bonardi che, nel 1926, in memoria dei loro congiunti, rinnovarono a proprie spese il pavimento della chiesa, adibita durante la guerra ad ospedale. All'interno, invece, si ha l'altare laterale destro con la Natività di Luca Mombello, ricca di vivaci effetti cromatici, mentre l'altare laterale sinistro reca un dipinto dello stesso autore, raffigurante San Benedetto fra i santi discepoli Mauro e Placido. Nella tela, san Benedetto è rappresentato con il testo della Regola in mano, assiso su un trono, ai piedi del quale sono poggiate le tiare dei discepoli che gli stanno accanto. Entrambi gli altari minori sono decorati, nella parte superiore, da angeli marmorei di Giovanni Battista Carboni. Il presbiterio è dominato dall'altare maggiore barocco opera di Giuseppe Cantone, sul quale campeggia la Gloria dei Santi Cosma e Damiano dipinta da Giambettino Cignaroli nel 1766. A fianco vi sono due statue allegoriche della Fede e della Carità, opera di Antonio Calegari. A destra dell'altare maggiore, in corrispondenza dell'organo e della cantoria, si apre la Cappella del Crocifisso, che reca tracce di affreschi e un Crocifisso ligneo di scuola lombarda, opere risalenti entrambe al Quattrocento. A sinistra dell'altare, invece, sotto il controrgano e una simmetrica cantoria, vicino all'attuale ingresso della chiesa, è presente un'altra cappella, all'interno della quale si conserva la preziosa arca di san Tiziano, eseguita nel 1505 nell'ambito dei Sanmicheli e opera significativa della scultura bresciana di inizio XVI secolo. Il sarcofago che accoglieva precedentemente i resti di San Tiziano, risalente al XII secolo, era stato comunque conservato nei secoli e fu smontato solo nel 1885, quando l'architetto Antonio Tagliaferri ne progettò il reimpiego, assemblandolo con altri materiali lapidei provenienti dallo stesso contesto monastico per creare una fontana ornamentale, tuttora murata sul lato est di piazzetta Tito Speri, a pochi metri da dove anticamente sorgeva l'originario complesso nel centro della città, e nota appunto come fontana di san Tiziano. Sopra la cantoria lignea in finto marmo situata alla sinistra del presbiterio in corrispondenza della sottostante cappella di San Carlo, vi è l'organo a canne, costruito nel XIX secolo da Giovanni Tonoli, attualmente non suonabile perché privo di alcuni elementi della manticeria. Lo strumento, a trasmissione meccanica, ha una tastiera di 66 tasti e una pedaliera a leggio di 19. Sorge ancora oggi, annesso alla chiesa, l'antico monastero benedettino, incentrato sul grande chiostro quattrocentesco che conserva la sua struttura porticata, articolata su ben tre livelli. Al piano inferiore le arcate si susseguono lungo i quattro lati, raddoppiandosi nei due ordini superiori, fino ad interrompersi nel tratto prossimo alla chiesa, occupato da una loggetta neogotica. La struttura monastica comprendeva la sala capitolare ed una biblioteca, mentre il refettorio venne realizzato occultando la facciata della chiesa. All'interno di quest'ultimo ambiente, utilizzato durante il Novecento come sala di lettura comunale ed attualmente chiuso al pubblico, si conserva una Ultima Cena di impronta romaniniana. Marina Braga, Roberta Simonetto (a cura di), Verso porta San Nazaro in Brescia Città Museo, Sant'Eustacchio, Brescia 2004 Wikibooks contiene testi o manuali sulla disposizione fonica dell'organo a canne Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla chiesa dei Santi Cosma e Damiano "Le carte del monastero dei Santi Cosma e Damiano (1127 - 1197)", importante relazione sull'archivio del monastero in epoca altomedievale per il Codice Diplomatico della Lombardia medievale sul sito dell'Università di Pavia, su cdlm.unipv.it. URL consultato il 16 dicembre 2010 (archiviato dall'url originale l'8 febbraio 2007).

Collegiata dei Santi Nazaro e Celso
Collegiata dei Santi Nazaro e Celso

La chiesa dei Santi Nazaro e Celso è una chiesa di Brescia, situata in corso Giacomo Matteotti, all'incrocio con via Fratelli Bronzetti. Ricostruita integralmente nella seconda metà del Settecento dall'architetto Antonio Marchetti sulla base di un edificio molto più antico, è oggi un grande esempio di architettura neoclassica unitaria a Brescia e una delle più grandi chiese della città. Contiene numerose e preziose opere d'arte, fra le quali spicca il Polittico Averoldi, capolavoro giovanile di Tiziano. Un luogo di culto nella zona dedicato ai santi Nazario (o Nazaro) e Celso è rilevabile già nelle annotazioni di Alberico da Gambara, che nel 1239 si occupa dell'ampliamento della cinta muraria urbana e dell'urbanistica delle nuove aree inglobate: il frate, infatti, nomina l'attuale corso Matteotti come "strada antiqua S.ti Nazarii". L'edificio originale, però, non doveva trovarsi dove sorge oggi la chiesa, bensì sul lato sinistro della via e un poco più a ovest, come si può dedurre dalla precisa individuazione delle vie del quartiere redatta negli atti duecenteschi del Liber Potheris. Il nucleo originario della chiesa attuale viene fondato da Berardo Maggi all'inizio del Trecento, spostando il culto in questa nuova chiesa, sicuramente più ampia e funzionale dell'edificio originale che, probabilmente, doveva trattarsi poco più di una cappella. Sempre per opera del Maggi, nella nuova chiesa si insedia un collegio composto da cinque sacerdoti, destinato ad ingrandirsi nei secoli. La collegiata conosce un primo, grande capitolo di rinnovo durante il Quattrocento sotto il capitolato di Giovanni Ducco e dei provosti successivi. Una sommaria descrizione della nuova chiesa, forse più un ampliamento che una ricostruzione totale, viene redatta da Giulio Todeschini nel 1566, il quale annota le sue imponenti dimensioni in altezza e lunghezza e il fatto che i muri fossero costruiti "alla moderna", cioè almeno quattrocenteschi, tardo gotici. L'architetto segnala anche un'iscrizione incisa su un pilastro di facciata recante la scritta "1455/85", che dovettero essere pertanto i due estremi temporali del cantiere avviato da Giovanni Ducco e dai successori. Già lo stesso Todeschini, peraltro, interpreta l'iscrizione in questo modo. Gli artefici della nuova fabbrica sono tutte personalità dell'architettura, dell'arte e dell'artigianato cittadini quattrocenteschi: dai documenti si rilevano i nomi di Jacopo da Milano, Tonino da Lumezzane, Giovanni Serina, Betino Crescimbeni, Pecino da Caravaggio, Merino da Noboli e Giovanni da Cavernago, anche se la direzione del cantiere dovette essere affidata ai due più esperti della materia: Tonino da Lumezzane e Pecino da Caravaggio, il primo più volte definito ingegnere negli atti municipali, mentre il secondo artefice di innumerevoli interventi in città e collaboratore di Antonio da Sangallo il Vecchio per la costruzione delle fortificazioni di Civita Castellana. Giulio Antonio Averoldi è il solo, nella letteratura artistica antica, a trattare direttamente dell'architettura di questa chiesa, scrivendo: "si comprenda l'antichità dell'insigne Basilica dalla gran nave lavorata a travatura, e catene, e con gli altari da una sola parte". Dallo scritto dell'Averoldi e da alcune testimonianze iconografiche, tra cui una pianta parziale del 1677, si può ricostruire l'originario aspetto dell'edificio come una grande chiesa a navata unica ad arconi successivi e tetto a vista, con profondo presbiterio a pianta quadrata e una fila di cappelle solamente sul lato destro. La minore lunghezza rispetto all'attuale generava un sagrato più profondo davanti alla facciata. Il rinnovo delle architetture e dei locali della collegiata, unito al notevole operato dei prevosti, rendono San Nazaro il secondo centro religioso urbano per importanza dopo la Cattedrale. Dopo un breve periodo di commenda affidata a Raffaele Riario nel 1496, le pressioni del popolo bresciano sulla diocesi portano il cardinale alla rinuncia dei propri privilegi nel 1504 in favore di Ottaviano Ducco, al quale si sostituisce Altobello Averoldi nel 1515. All'Averoldi si deve la commissione a Tiziano della grande opera che prenderà poi il suo nome, il Polittico Averoldi. Tale commissione è rappresentativa del grande impegno del prevosto mirato al rilancio di immagine della collegiata: la chiesa si arricchisce di sculture e dipinti della più contemporanea linea artistica rinascimentale, firmate da grandi autori quali lo stesso Tiziano, seguito da Paolo Caylina il Vecchio, Romanino, Moretto. A ciò si aggiungono le commissioni di nuovi arredi liturgici, il rifacimento dell'organo e delle cantorie, il restauro dell'abitazione del prevosto e soprattutto della preziosa Sala Capitolare. L'opera degli immediati successori, Fabio e Giovan Matteo Averoldi, non è da meno: nel 1553 si procede all'ampliamento e all'abbellimento della facciata con una nuova veste rinascimentale, mentre all'interno si completano la canonica e il secondo organo. Nella seconda metà del secolo, invece, viene ricostruito il campanile e l'architettura della chiesa dovette subire alcuni interventi per mano di Giulio Todeschini, in particolare nell'abside e in alcune cappelle laterali. Nel 1581 la collegiata riceve san Carlo Borromeo in visita apostolica, che rimane alquanto insospettito dalla complessa situazione giuridica e amministrativa del Capitolo. Nella relazione della visita, protratta per giorni, si leggono interrogatori, profonde indagini e, infine, numerosissime ordinanze, da concretizzarsi al più presto. Il collegio di sacerdoti, però, si rivelerà molto mal disposto verso le imperiose volontà del Borromeo, vanificando la maggior parte delle ordinanze. I lavori di abbellimento già avviati nella seconda metà del secolo precedente continuano anche all'inizio del Seicento, interessando soprattutto le cappelle laterali, fra cui quella del Santissimo Sacramento, legata all'importante e omonima confraternita, che viene abbellita da pitture di Ottavio Viviani. Nel frattempo, nella collegiata si affievolisce il fervore cinquecentesco: i prevosti sono quasi sempre assenti e agiscono per conto loro canonici e parrocchiani. La peste del 1630 reca ulteriori difficoltà e smorza qualsiasi cantiere all'interno e all'esterno della chiesa, con un minimo accenno di ripresa nel rifacimento della copertura di una cappella deliberato nel 1638. Anche negli anni successivi gli interventi, che pure si susseguono, sono tutti di trascurabile importanza, relegati a opere di manutenzione. Nel 1667, grazie alla donazione di un fedele, viene commissionato a Lelio Zucchi di Verolanuova il nuovo coro ligneo, terminato e infine installato entro tre anni. Il progetto diventa l'innesco per una serie di iniziative che finiranno per maturare, nell'arco di un secolo, l'idea di una completa ricostruzione dell'edificio: ancora prima del completamento del nuovo coro, il prevosto Giuseppe Franzini, per meglio accogliere l'opera, ordina il rifacimento della pavimentazione dell'intera chiesa, che viene completata, almeno nella zona absidale, prima dell'installazione dei nuovi seggi. A coro ultimato, viene proposto anche il rifacimento dell'altare maggiore per una migliore unitarietà formale dell'insieme: negli anni successivi, a ruota, vengono abbelliti o ricostruiti anche quasi tutti gli altari delle cappelle laterali. Nel 1679 si passa al restauro del portico sul sagrato, nel 1679 vengono sostituite le panche dell'aula e nel 1682 viene ricostruita la sagrestia. Alla morte del Franzini, a capo di tutti questi interventi, l'attività edilizia nella collegiata sembra improvvisamente cessare. Bisogna attendere circa un ventennio per rilevare nuovi interventi di abbellimento nella chiesa, coincidenti con l'inizio della prepositura di Giuseppe Antonio Martinengo Palatino: tra il 1706 e la metà del secolo vengono attuate numerosissime opere di restauro e ricostruzione, nonché commissioni di nuove opere d'arte. La grande ricostruzione dalle fondamenta della chiesa, però, si deve al prevosto Alessandro Fè d'Ostiani (1716-1791), vescovo titolare della Diocesi di Modone, che la volle fermamente durante tutto il suo capitolato, iniziato nel 1746. Nel 1748 viene steso il progetto per conto dell'architetto Giuseppe Zinelli, poi approvato da papa Benedetto XIV, e nel 1753 viene dato inizio al cantiere. Il progetto dello Zinelli, un canonico di fatto poco esperto in materia di architettura, subisce per volere del Capitolo una perizia da parte di Domenico Corbellini, personaggio di spicco dell'architettura contemporanea cittadina, circa cinque anni dopo, a cantiere già avanzato. Si tratta forse del primo segno di sfiducia nei confronti dello Zinelli che, infatti, l'anno successivo viene duramente estromesso dalla fabbrica, dopo quattro mesi di tensione con il Capitolo. Antonio Marchetti diventa il nuovo direttore dei lavori e porta il cantiere alla ripresa, dopo aver ritoccato il progetto originale. Nel 1767, mentre i lavori procedono, il Marchetti redige il progetto esecutivo per la costruzione della nuova abside con la contemporanea demolizione della precedente, fase molto rischiosa che doveva prevedere anche la connessione del campanile alle nuove murature. La fabbrica subisce un forte freno a causa dello scoppio della polveriera di Porta San Nazaro avvenuta il 18 agosto 1769: la vecchia chiesa, già indebolita dagli sventramenti e dalla ricostruzione, crolla quasi completamente e le nuove strutture subiscono estesi danni sia a causa dell'onda d'urto, sia per la pioggia di detriti, alcuni anche di grandi dimensioni, seguita all'esplosione. I lavori riprendono, infine, entro un paio d'anni e con maggior fervore, tanto che la nuova abside è conclusa all'inizio del 1774 e, negli anni successivi, si procede alacremente con la costruzione del muro e delle cappelle a nord e all'ultimazione delle coperture. La nuova chiesa viene finalmente riaperta al culto nel 1780. Il capitolo collegiale viene soppresso dalla Repubblica Bresciana nel 1797, mentre la chiesa rimane attiva e officiata. Il titolo di collegiata insigne viene comunque mantenuto dalla chiesa, da allora e in pianta stabile sede parrocchiale. La facciata neoclassica è imponente, e presenta otto colonne corinzie con a capo un timpano triangolare attorno al quale sono presenti sette statue richiamanti altrettante figure religiose di santi. L'interno è a navata unica con cinque cappelle minori per lato, un ampio presbiterio e un'abside semicircolare. In testa alla navata si apre un vasto pronao che fa da atrio d'ingresso alla navata stessa, dalla quale è separato mediante due colonne corinzie giganti che fungono da portale d'ingresso interno. La copertura è data da una volta a botte unghiata su tutta la navata, cupola su base ellittica sul presbiterio e infine semicupola sull'abside. Decora le pareti una successione unitaria di lesene corinzie che inquadrano le cappelle e sorreggono una trabeazione continua, sulla quale si imposta la volta. Nella chiesa e nei locali della collegiata sono custodite numerose e importanti opere d'arte, raccolte e commissionate dal Capitolo nel corso dei secoli e per la maggior parte preservate dopo l'integrale ricostruzione settecentesca. Fra di esse si ricordano: Il Polittico Averoldi, capolavoro giovanile di Tiziano, datato 1522 e commissionato da Altobello Averoldi, nunzio apostolico a Venezia. Opera di chiara derivazione michelangiolesca, è un polittico composto da cinque tavole raffiguranti il Cristo risorto (al centro), i Santi Nazaro, in basso a destra, e Celso, in basso a sinistra, accompagnato da San Sebastiano e dal committente Altobello Averoldi, mentre in alto troviamo la scena dell'Annunciazione a Maria divisa in due riquadri: l'Angelo annunciante a sinistra e la Vergine annunciata a destra. Cristo in passione con Mosè e Salomone del Moretto, terzo altare destro, databile al 1541-1542. L'opera, spesso giudicata di bassa qualità e tensione spirituale dalla critica storica e moderna, si colloca nella piena maturità artistica del pittore e cede ormai il passo a forme più manieriste, perdendo molte caratteristiche dell'arte rinascimentale giovanile. Eseguita su commissione della scuola del Santissimo Sacramento attiva nella chiesa, possiede un accento notevolmente didattico, dato in particolare dalle iscrizioni sulle lapidi rette dai personaggi. Incoronazione della Vergine con i santi Michele Arcangelo, Giuseppe, Francesco d'Assisi e Nicola di Bari del Moretto, secondo altare sinistro, databile al 1534 circa. Eseguita negli anni della sua maturità artistica, l'opera rappresenta il punto d'arrivo dell'evoluzione stilistica del Moretto in fatto di pale d'altare, diventando la maggiore opera di questo periodo e uno dei massimi capolavori di tutta la sua carriera artistica. Il dipinto era il pannello principale di un polittico, oggi smembrato e conservato parte nella chiesa e parte nella casa canonica. Adorazione dei pastori con i santi Nazaro e Celso del Moretto, quarto altare sinistro, databile al 1540 circa. Madonna col Bambino tra i santi Lorenzo e Agostino di Paolo da Caylina il Vecchio, databile tra il 1460 e il 1480. Polittico di San Rocco di Antonio Gandino, 1590 circa. Martirio di san Bartolomeo, di Antonio Zanchi, post 1680 Adorazione dei Magi di Giambattista Pittoni, 1740. Morte di san Giuseppe di Francesco Polazzo, 1738 Opere già nella chiesa: Santa Barbara e un devoto di Lattanzio Gambara, 1588. Sulla cantoria alla sinistra del presbiterio si trova l'organo a canne, frutto della stratificazione di interventi operati in epoche differenti sul primo strumento, costruito da Domenico da Urbino nel 1577 e ricostruito da Carolus van Boort nel 1579; la sua conformazione attuale, ripristinata con un restauro di Daniele Giani del 2012-2015, si deve al rifacimento di Luigi Amati del 1803, al quale seguirono modifiche apportate rispettivamente da Angelo Amati nel 1875, e da Diego Porro e Giovanni Maccarinelli nel 1889; nel 1924 Frigerio e Fusari riformarono l'organo rendendolo a trasmissione pneumatica. Lo strumento è alloggiato entro una ricca nicchia cassettonata incorniciata fra due lesene corinzie dipinte a finto marmo con dorature; il prospetto è costituito da un'unica cuspide con ali laterali formata dalle canne appartenenti al registro di principale 8'. L'organo è a trasmissione meccanica e dispone di 56 registri; la sua consolle, a finestra, ha due tastiere e pedaliera, con i registri azionati da manette a scorrimento laterale. La collegiata conserva un vasto tesoro composto da argenteria e paramenti liturgici. Spicca in particolare, per la sua antichità e preziosità, il pastorale di Altobello Averoldi, appartenuto all'alto prelato nella prima metà del Cinquecento. Note al testo Fonti Ivo Panteghini, Nel lume del Rinascimento: dipinti, sculture ed oggetti dalla Diocesi di Brescia, Catalogo della mostra tenuta a Brescia nel 1997, Brescia, Museo Diocesano, 1997, SBN IT\ICCU\MIL\0349151. Luigi Francesco Fè d'Ostiani, Storia, tradizione e arte nelle vie di Brescia, a cura di Paolo Guerrini, Brescia, Figli di Maria Immacolata, 1927, pp. 28-31, SBN IT\ICCU\VEA\1145856. Antonio Fappani (a cura di), NAZARO S., basilica, in Enciclopedia bresciana, vol. 11, Brescia, La Voce del Popolo, 1994, OCLC 955711986, SBN IT\ICCU\CFI\0293136. Francesco De Leonardis (a cura di), Guida di Brescia, La storia, l'arte, il volto della città, Brescia, Grafo, 2018, ISBN 9788873859918, OCLC 1124648622, SBN IT\ICCU\BVE\0818515. Valentino Volta, Le vicende edilizie della collegiata insigne dei Santi Nazaro e Celso, in La Collegiata insigne dei Santi Nazaro e Celso in Brescia, Banca San Paolo di Brescia, 1992, pp. 11-84, ISBN 88-350-8673-6, SBN IT\ICCU\UBO\4206205. Wikibooks contiene testi o manuali sulla disposizione fonica dell'organo a canne Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla collegiata dei Santi Nazaro e Celso Tiziano Vecellio Il Moretto Carlo Borromeo Itinerari Brescia, su itineraribrescia.it. URL consultato il 14 ottobre 2015 (archiviato dall'url originale il 9 maggio 2014). Santi Nazaro e Celso La Collegiata dei Santi Nazaro e Celso sul sito del Museo Diocesano di Brescia, su museodiocesano.brescia.it. URL consultato il 25 luglio 2023.

Palazzo Martinengo Colleoni di Pianezza
Palazzo Martinengo Colleoni di Pianezza

Palazzo Martinengo Colleoni di Pianezza, già Bargnani, è un edificio storico di Brescia situata lungo corso Matteotti al civico numero 8, in pieno centro storico. La dimora rientra, nel contesto delle antiche mura cittadine, nella quadra di San Giovanni. Edificato a partire dal XVII secolo dai nobili Martinengo Colleoni, costituisce la più monumentale e imponente delle residenze della famiglia Martinengo, oltre che un unicum, da un punto di vista prettamente architettonico e stilistico, nel panorama delle dimore signorili locali. La dimora fu edificata a partire dal 1671 per volere di Gaspare Giacinto Martinengo Colleoni, marchese di Pianezza. Quest'ultimo, infatti, aveva sposato nel 1659 la nobildonna Chiara Camilla Porcellaga che, essendo l'ultima discendente del suo ricco ramo familiare, aveva portato in dote una gran quantità di beni, tra cui figuravano appunto le proprietà su cui sorse, in seguito, il palazzo nobiliare voluto dallo stesso marchese. Parallelamente alla fabbrica di questo nuovo edificio, inoltre, si ebbe anche modo di compiere un riassetto della contrada e dell'isolato attiguo, allora facente parte della terza quadra di san Giovanni: al tempo, infatti, la zona era caratterizzata da una fitta maglia di piccole proprietà, formate da numerose casupole ed edifici. A partire dal 1682, a tal proposito, la famiglia Martinengo intraprese una sistematica e coerente campagna di acquisizioni e demolizioni delle proprietà limitrofe. Questa operazione aveva il fine ultimo, evidentemente, di ampliare i loro possedimenti al fine di "ridurre ad una possibile quadratura" la fabbrica stessa del palazzo. Sin dal 1672 è accostabile alla supervisione del cantiere del palazzo l'architetto Gian Battista Groppi, originario della val d'Intelvi e già attivo per la chiesa di San Lorenzo a Capriano del Colle. Il medesimo Groppi ebbe modo di misurare e verificare l'integrità delle «fabriche» compiute dalle imprese di Antonio Cavallino, documentato dal 1675 al 1699, di Antonio Somalvigo, attivo tra 1686 e 1700, e Silvestro e Gian Battista Avanzi. A riprova di questa sua supervisione dei lavori, il Groppi viene definito in alcuni documenti del 1689 come «Perito de' fabbri murari di questa città». Lo stesso Groppi, a coronamento dei suoi servigi, arrivò a sottoscrivere un dettagliato contratto con Gaspare Giacinto Martinengo nel corso del 1684, ufficializzando così la sua posizione e il suo ruolo. Infatti, dal 1696 in poi, sui documenti inerenti al cantiere del palazzo egli assume il titolo di «architetto». A questa prima fase dei lavori, nondimeno, è riscontrabile un pressoché totale impiego di manodopera intelvese o comunque ticinese, la quale si era già distinta come protagonista della decorazione seicentesca e settecentesca lombarda: si vedano i nomi di Ambrogio Ambrosini, detto «muratore luganese», oppure Pompeo Solari «luganese della terra di Caronna», così come il comasco Giorgio Ferretti, che realizzò per il marchese cinque statue di divinità. Per quanto riguarda la fabbrica del palazzo è deducibile che, a questa data, fosse già stata delineata con chiarezza la planimetria a U dell'edificio, con il corpo orientale più grande affiancato da due ali perpendicolari e della stessa altezza. Ciononostante, il progetto iniziale non è noto né riscontrabile in alcun documento o contratto. Sullo scorcio del XVIII secolo il disegno complessivo del Croppi doveva essere sostanzialmente terminato, sebbene le fonti del caso tacciono circa lo stato d'incompiutezza dell'ala settentrionale, la quale venne ultimata solo molti anni dopo. È proprio in questa fase che si riscontra tra l'altro la presenza di soluzioni stilistiche certamente innovative per il contesto bresciano: la critica e in generale gli studiosi sono concordi nell'individuare come autore di queste composizioni architettoniche il maestro Filippo Juvarra, architetto di corte della famiglia Savoia. Nonostante sia certa la sua presenza in città nel 1729 per una consulenza in merito ai cantieri del Duomo nuovo, e, sebbene il palazzo stesso sia indicato tra le opere dell'architetto in un elenco steso dopo la sua morte, va comunque contestualizzato il ruolo dello Juvarra in merito alla fabbrica del palazzo: pare che egli, infatti, si sia occupato solamente di fornire una consulenza mirata e circoscritta per alcuni elementi architettonici, tra i quali spicca l'atrio della dimora nobiliare, le cui soluzioni stilistiche differiscono da qualunque altra fino ad allora adottata nelle dimore bresciane del tempo e che, in una certa misura, richiamano le cifre artistiche del maestro piemontese Gian Giacomo Planteri riscontrabili per i palazzi Fontana di Cravenzana e Palazzo Benso di Cavour a Torino. Nel 1764 gli eredi Martinengo vendettero il palazzo, che era ancora privo dell'ala settentrionale, per 30.000 scudi a Gaetano Bargnani, che ne mantenne la proprietà per 50 anni; quest'ultimo lo cedette poi nel 1813 al regno italico. Appunto dal 1813 il palazzo cessò di fungere da dimora. Dal 1819 in poi vi fu trasferita la sede del liceo classico Arnaldo, che vi permase stabilmente fino al 1925, quando fu ulteriormente spostata a palazzo Poncarali Oldofredi. Durante gli eventi delle dieci giornate di Brescia, inoltre, il palazzo ospitò la sede del comando di difesa bresciana, guidata da Luigi Contratti e Carlo Cassola; il palazzo fu infatti scelto per motivi strategici, in quanto più riparato dagli attacchi dell'artiglieria austriaca rispetto alla precedente sede del teatro grande. A ricordo di tali avvenimenti è stata anche esposta una lapide commemorativa. Affacciato sulla strada si apre un grande portale ai cui lati sono poste quattro colonne, due per lato di tipo tuscanico; proprio queste ultime sono poste a sorreggere un balcone con balaustra in pietra. L'inquadramento del portale, per le soluzioni stilistiche ed architettoniche, ricorda e rimanda ad altri casi di dimore torinesi, come quelle di palazzo Birago e palazzo Madama. Tale schema competitivo sarà ripreso poi, in maniera ancora più monumentale, anche nel palazzo Martinengo Colleoni di Malpaga. Per questo motivo, forse, si individua anche in queste decorazioni un intervento dello Juvarra, poi replicato anche nelle soluzioni delle finestre laterali all'ingresso ed anche nella tripartizione architettonica a tre ordini orizzontali dell'edificio. L'atrio d'ingresso, in stile piemontese, è stato anch'esso progettato e realizzato con l'aiuto dello Juvarra. L'antica sala da ballo, che oggi funge da aula magna, è uno degli ambienti più notevoli dell'intero palazzo. La decorazione della volta, realizzata negli anni quaranta del XVIII secolo, è attribuibile grazie alle fonti del tempo ed al contratto stipulato nel 1736, all'artista Stefano Orlandi ed a Francesco Monti, e testimonia come all'epoca la pittura bolognese fosse un importante punto di riferimento per i Martinengo; la scena ritrae l'ascesa in cielo di Romolo, a sua volta circondato da una schiera di putti alati e contornato da otto riquadri monocromi, raffiguranti episodi della vita di Remo e Romolo stesso - Romolo e Remo allattati dalla lupa, Remo mette in fuga ed uccide i ladri degli armenti, Remo in catene davanti ad Amulio, Remo uccide Amulio, Romolo traccia il confine della città di Roma, Romolo uccide Tito Tazio e Il ratto delle Sabine. Il tutto è stato ricoperto, a fine Ottocento, da un affresco con soggetto patriottico di Luigi Campini; il rifacimento ottocentesco, tuttavia, lascia intravedere, lungo i bordi, alcuni particolari dell'affresco precedentemente realizzato dal Monti: è possibile osservare infatti un angelo in volo, allegoria della Fama stessa, oltre che Nettuno con il tipico tridente, Ercole, munito di clava ed avvinghiato all'Idra di Lerna, e Mercurio che brandisce lo scettro caduceo. Il nuovo scalone fu realizzato probabilmente a ridosso della fine del Seicento. Ciò è testimoniato dalle fonti d'archivio che riportano diversi interventi e accrediti, come, per esempio, il pagamento nel 1699 "li stucchi nell'andito del scalone"; questi ultimi, tipicamente barocchi nelle decorazioni, dovrebbero corrispondere con quelli ancora in loco. Il palazzo è dotato di una chiesa, ora rimodulata ad auditorium, ed inizialmente dedicata a San Carlo. L'edificio è adiacente al lato nord del palazzo ed è stato rinominato San Carlino, principalmente perché già esisteva, al tempo, una chiesa dedicata al santo in via Moretto; la progettazione dell'ex chiesa è forse attribuita ad Antonio Marchetti, soprattutto in virtù di tutte quelle caratteristiche che ne evidenziano lo stile settecentesco: le due lesene che verticalmente ne scandiscono l'architettura, l'ampia zoccolatura in marmo di Botticino, suddiviso in pannelli quadrangolari, e la decorazione a doppia voluta nella fascia superiore. Nel corso del XIX secolo la chiesa, ormai sconsacrata, fungeva da palestra per il neonato liceo che al tempo ospitava; in seguito tuttavia divenne sede del centro universitario teatrale denominato "La Stanza". Nel 1925 fu appunto acquistata dall'amministrazione comunale e ristrutturata, quindi rimodulata in teatro, inaugurato il 27 novembre 1995. Note al testo Fonti Fausto Lechi, 5: Il Seicento, in Le dimore bresciane in cinque secoli di storia, V, Brescia, Edizioni di Storia bresciana, 1976, pp. 189-209, SBN IT\ICCU\LO1\0548057. Paolo Guerrini, I Martinengo Colleoni, in Una celebre famiglia lombarda: i conti di Martinengo: studi e ricerche genealogiche, Brescia, Tipo-litografia F.lli Geroldi, 1930, pp. 359-394, SBN IT\ICCU\MIL\0157486. Renata Massa (a cura di), Palazzo Martinengo Colleoni di Pianezza e oratorio di San Carlino, in collaborazione con Barbara D'Attoma e Angelo Loda. Coordinamento Emilio Salvatore, Brescia, 2003, SBN IT\ICCU\USM\1335080. Ospitato su Biblioteca digitale lombarda. Sara Parisio, Provincia di Brescia, già Liceo Olivieri, già Istituto Tecnico Commerciale “G. Abba”, già palazzo Bargnani, già Martinengo Colleoni di Pianezza, in Stefania Cretella (a cura di), Miti e altre storie: la grande decorazione a Brescia 1680-1830, Grafo, 2020, pp. 325-328, SBN IT\ICCU\TSA\1689768. Luigi Francesco Fè d'Ostiani, Corso Carlo Alberto, in Paolo Guerrini (a cura di), Storia, tradizione e arte nelle vie di Brescia, Brescia, Figli di Maria Immacolata, 1927, pp. 430-433, SBN IT\ICCU\VEA\1145856. Alessandro Brodini, Il palazzo Martinengo Colleoni di Pianezza a Brescia nell’ambito dell’architettura dei palazzi di Filippo Juvarra, in Elisabeth Kieven, Cristina Ruggero (a cura di), Filippo Juvarra, 1678-1736, architetto dei Savoia, architetto in Europa, vol. 2, Roma, Campisano editore, 2014, pp. 133-149, ISBN 978-88-98229-14-7, SBN IT\ICCU\BVE\0667620. Antonio Fappani (a cura di), PALAZZI della città, in Enciclopedia bresciana, vol. 11, Brescia, La Voce del Popolo, 1982, OCLC 163181589, SBN IT\ICCU\CFI\0293136. Antonio Fappani (a cura di), MARTINENGO COLLEONI, in Enciclopedia bresciana, vol. 8, Brescia, La Voce del Popolo, 1991, OCLC 163182000, SBN IT\ICCU\MIL\0273002. Palazzi di Brescia Martinengo Colleoni (famiglia) Filippo Juvarra Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Palazzo Bargnani Sara Parisio, Palazzo Martinengo Colleoni di Pianezza, poi Bargnani, ora sede del settore trasporti, edilizia, scolastica e interventi sul patrimonio della provincia, su centrobossaglia.it. URL consultato il 2 novembre 2022.

Palazzo Colleoni alla Pace
Palazzo Colleoni alla Pace

Palazzo Colleoni alla Pace è un edificio storico di Brescia situato al civico numero 10 in via della Pace, in pieno centro storico cittadino. Edificato negli anni centrali del XV secolo per volontà del condottiero bergamasco Bartolomeo Colleoni, è poi passato in eredità alla famiglia dei Martinengo Colleoni e, all'estinguersi della linea dinastica della casata, ai padri della Pace, poi in pianta stabile proprietari del palazzo. L'edificio, rimaneggiato più volte nel corso del tempo, costituisce tuttavia uno dei migliori esempi in città di architettura residenziale quattrocentesca; esso ospita inoltre il più vasto ed importante ciclo pittorico ligneo su soffitto del territorio bresciano. Le condizioni per le quali Bartolomeo Colleoni entrò in possesso di terra a Brescia, e vi fece costruire una dimora privata, sono in realtà non conosciute e poco chiare. Fatto invece certo e riportato anche dalle fonti coeve è che il condottiero bergamasco abbia ricevuto in città, dalla repubblica di Venezia, "la porzione di terreno a sera del vecchio fossato (l’odierna via Pace), compresa fra le contrade uscenti da Porta Palata a nord (corso Garibaldi), e porta S. Agata a sud (via Cairoli)". Bortolo Belotti, insigne biografo del Colleoni, ipotizza nella sua opera che il bergamasco fosse entrato in possesso, all'epoca, di terreni consistenti in vecchie casupole e giardini, sui quali sarà poi edificata la dimora signorile dello stesso condottiero; gli edifici di allora, infatti, erano diventati obsoleti a seguito dell'ampliamento delle nuove mura cittadine, le quali avevano ormai reso non funzionale la presenza della porta interna di san Giovanni, all'altezza della torre della Pallata. Lo studioso Fausto Lechi, d'altro canto, ha teorizzato che la cessione di tale appezzamento di terra possa essere ascritta forse al 1455, visto che nel 1467 furono avviati i lavori di rifacimento e sistemazione delle stesse mura. Potrebbe forse essere inserita in questi dodici anni, dal 1455 al 1467, la realizzazione della dimora del Colleoni, anche se non vi è al riguardo documentazione certa. Questa versione, in ogni caso, concorderebbe anche con la testimonianza fornita dal cronista e storico Marin Sanudo, il quale riporta che entro il 1483 i lavori alle fortificazioni cittadine si erano già conclusi. Tre diverse fonti testimoniano, a loro volta, che la fabbrica del palazzo fu avviata soltanto dal 1455 in poi, e non nel 1450 come si riteneva precedentemente. Una di esse è un atto pubblico nel quale il Colleoni figura come ospite e soggiornante, assieme ad altri nove capitani di ventura al soldo della Serenissima, nella città di Brescia, a partire dalla settimana santa sino al 3 aprile 1450; altra testimonianza ancora è una lettera scritta dal medesimo condottiero bergamasco: in data 7 novembre 1454, appunto, si indirizzava alla repubblica di Venezia lamentando la mancanza di un adeguato alloggio in città, richiedendo anche nella stessa occasione onorificenze ed un consistente stipendio. Terza e ultima fonte al riguardo è una richiesta fatta dal Colleoni agli allora membri del consiglio cittadino: all'alba del 1456, egli presentò infatti domanda per far ricevere acqua alla fontana della sua nuova dimora bresciana; quest'ultimo fatto fa senza dubbio presumere che al tempo i lavori per la costruzione del palazzo fossero già stati avviati, e che anzi fossero già a buon punto. Una prima menzione in cui la fabbrica figura essere ultimata, invece, è la cosiddetta Cronaca di Cristoforo da Soldo, nella quale la stessa residenza bresciana del «Capitanio de la terra» (si allude cioè alla nomina del Colleoni a capitano generale di terraferma) è descritta nel 1465 come «Palazzo Grande», laddove invece le altre proprietà del generale, ossia Malpaga, Cavernago, Cologno, Urgnano e Romano, sono invece chiamati «castelli». Altra testimonianza degna di essere considerata è il testamento redatto dallo stesso condottiero in data 27 ottobre 1475, nel quale egli lascia in eredità la dimora alla figlia Caterina, poi sposa del condottiero bresciano Gaspare Martinengo; l'unione dei due, peraltro, darà poi origine al cosiddetto ramo collaterale dei Martinengo della Pallata. Sempre per le volontà del Colleoni, poi, qualora si fosse estinto il ramo familiare al quale il palazzo era stato lasciato, esso sarebbe stato affidato all'Ospedale della Pietà di Bergamo, cosa che effettivamente si verificò nel 1681: all'estinguersi del già citato ramo dei Martinengo, infatti, l'edificio fu rilevato dalla summenzionata struttura ospedaliera, la quale la vendette a sua volta nel 1683 ai padri filippini della confederazione dell'oratorio di San Filippo Neri, da allora sempre in possesso dell'immobile. Il palazzo nobiliare, appena qualche anno dopo la morte del Colleoni, è inoltre citato da Marin Sanudo nei suoi Itinerari per la terraferma veneziana: tra l'altro, l'edificio è l'unico apertamente lodato dal cronista, in visita a Brescia, e viene appunto descritto come una «caxa magnifica» e un «bellissimo palazo». Ancora, circa tre generazioni dopo, il poeta e scrittore Pietro Spino, biografo del condottiero bergamasco, illustra la situazione della fabbrica del palazzo, nel 1569, come quella di un «Palagio grande, & nobile». All'alba del XVII secolo, invece, viene considerato essere l'unico «gentleman's palace» della città dal visitatore inglese Thomas Coryat, che lo segnala come esempio di «great magnificence» e dunque degno di visita. Sullo scorcio del XIX secolo, nondimeno, il palazzo nobiliare e il suo stesso prestigioso committente sembrano essere stati del tutto dimenticati dalle guide e testi anche locali, forse anche a causa della sua struttura architettonica esterna, al tempo assai rimaneggiata e ridimensionata rispetto alla fabbrica quattrocentesca originaria. A riprova di quanto detto esistono due raffigurazioni dell'edificio in altrettante antiche cartine della città, le quali testimoniano proprio i significativi mutamenti del palazzo: fonte primaria di queste due raffigurazioni è un disegno della facciata della dimora risalente al XVII secolo, cioè a quando i padri della Pace entrarono in possesso della struttura. La suddetta antica raffigurazione mostra come la facciata esterna fosse in origine ben più ampia rispetto all'attuale, la quale fu appunto accorciata in occasione dell'erezione della settecentesca chiesa di Santa Maria della Pace, oltre che per la costruzione, nel XIX secolo, di un teatro. Inoltre il grandioso portale d'accesso al palazzo, abbellito nel Cinquecento da una sfarzosa decorazione marmorea, si trovava leggermente più spostato a sud rispetto al centro della stessa facciata; lo stesso portale, posto appunto in origine all'ingresso del palazzo del Colleoni, fu invece asportato e portato come dote dalla nobildonna Isotta Martinengo Colleoni per il matrimonio con il conte Gaspare Calini, all'inizio del XVII secolo, e quindi usato come ingresso per il palazzo Martinengo della Motella. Grazie alla già citata raffigurazione seicentesca del palazzo eseguita dai padri della Pace, è possibile ricostruire almeno sommariamente l'originaria situazione planimetrica e volumetrica del palazzo del Colleoni. Esso constava in origine di un pianterreno con due ulteriori piani, i quali recavano, per ciascuno, un ordine orizzontale di finestre sormontate da un cornicione che si allungava lungo tutta la facciata in questione; di assoluta importanza, nel contesto del cortile interno, il colonnato costituito da cinque archi a sesto acuto a cui si accede tramite un atrio d'onore. L'impatto complessivo e la visione d'insieme del suddetto cortile, irreparabilmente compromesso nei secoli successivi rispetto alla sua originaria strutturazione, dovevano essere ulteriormente accentuati da un apparato decorativo costituito da numerosi affreschi, dei quali sono ancora visibili lacerti e parziali dettagli. In ogni caso, nessun altro palazzo o edificio civile nella Brescia del Quattrocento poteva vantare una simile dimensione e un complessivo sfarzo come quelli della dimora del Colleoni. Tra gli ambienti accessori del quale il palazzo era fornito, inoltre, vi erano anche ampie stalle per cavalli, alloggi vari, una vasta libreria, nonché una cappella privata. L'ambiente più importante del palazzo, nondimeno, doveva sicuramente essere il salone grande, il quale occupava da solo la maggior parte del primo piano nell'ala orientale della struttura: vi si poteva accedere tramite una scalinata, situata nella parte finale a sud del porticato, e con tutta probabilità essa conduceva prima in un più piccolo salone d'onore. In tal senso è possibile solo avanzare ipotesi, dal momento che la costruzione del già citato teatro in pieno Ottocento ha sconvolto la planimetria di questa porzione di palazzo: la suddetta scalinata è andata infatti perduta, così come almeno due campate della loggia interna e la più piccola sala d'onore, così come riporta anche il Lechi nella sua opera. Un accenno allo sfarzo del salone grande è contenuto nella cronaca del Da Soldo: egli infatti riporta che, al 1465, esso recava numerosi arazzi ed affreschi, oltre che una copertura di sette travi orizzontali, ciascuna recante un imponente lampadario. La testimonianza testé citata, in ogni caso, non menziona alcuna decorazione pittorica nei cassettoni lignei della sala; ciò porterebbe a pensare che, evidentemente, al tempo il grande ciclo decorativo di tavolette lignee contenuto nel grande salone fosse ancora da svilupparsi. I soffitti del palazzo signorile, come già detto, sono il maggiore esempio di decorazione pittorica su tavolette lignee dell'intera provincia; nonostante l'attenzione della critica in generale si sia concentrata unicamente sul grande Salone Bevilacqua, ossia il salone d'onore, anche lo stesso portico del primo piano consta di una considerevole quantità di tavolette lignee decorate, peraltro di una certa qualità esecutiva: sempre lo studioso Fausto Lechi evidenzia le caratteristiche del soffitto ligneo del porticato, costituito da "grandi mensole e travetti di legno scuro". Lo stesso Lechi, analogamente a quanto espresso degli studi effettuati da Carissimo Ruggeri, aggiunge poi che: Il grande salone del palazzo, intitolato alla personalità di Giulio Bevilacqua, è costituito da grandi travi che sono descritte dal Lechi come assai lavorate e che: L'apparato decorativo stesso delle tavole lignee e il loro ordine è rimasto inalterato nel tempo, andando a costituire nel complesso un totale di 306 tavolette, disposte rispettivamente tra il grande salone d'onore e la più piccola sala ad essa antistante poi andata dispersa per la costruzione del teatro ottocentesco. I soggetti raffigurati su queste piccole tavole lignee sono personaggi illustri della mitologia greca e romana, recanti quindi raffigurazioni di celebri eroi, regine e sovrani dell'antichità; la loro elevata posizione sociale e il loro prestigio è deducibile, oltre che dagli sfarzosi abiti con cui sono ritratti, anche in taluni casi da titoli rimasti chiaramente leggibili. Altro elemento saliente della grande decorazione del salone è l'elevato numero di donne presenti sulle suddette tavole lignee, quali Ecuba, Andromaca, Pentesilea, Cassandra, Elena, Poppea, Lucrezia ed altre ancora. Nondimeno, nella scelta iconografica dei soggetti femminili è evidente una certa predilezione per Tisbe, almeno in tre diverse raffigurazioni, proprio per celebrare l'omonima moglie del condottiero bergamasco, Tisbe Martinengo. È comunque interessante notare che le tavolette del salone condividono pressappoco tutte le stesse dimensioni, e che, nondimeno, dal punto di vista stilistico esse presentano importanti innovazioni rispetto ad altri soffitti lignei quattrocenteschi; in tal senso, è evidente infatti la volontà di creare un contesto nel quale la lettura dei pannelli è organizzata in un unico schema compositivo, organico e coerente. Insieme alle scritte che chiariscono l'identità dei soggetti rappresentati, dunque, emerge chiaramente una progettazione dell'apparato iconografico come un tutt'uno, alla luce di una nuova sensibilità, lontana dalla precedente tradizione gotica. È infatti ben evidente un'ispirazione di tale apparato stilistico ai dettami espressi da Leon Battista Alberti nel suo trattato del De pictura, oltre che un'importante influenza esercitata dall'arte di Bonifacio Bembo; in ogni caso, l'esecuzione delle tavolette lignee del grande salone può essere circoscritta tra gli anni 60 del XV secolo e i primi anni 70, sicuramente prima del 1475, anno della morte del Colleoni. Le medesime tavolette, poi, rappresentano indubbiamente un'importante testimonianza, sia a Brescia che non, della nuova sensibilità umanistica emergente all'epoca, nella fattispecie nelle arti visive ed in ambito civile, come appunto nella dimora del Colleoni, che si voleva presentare non solo come condottiero e capitano di ventura, ma anche come mecenate ed uomo di cultura. Questa particolare declinazione di arte civile in chiave classica e antica, con tutta probabilità, fu concepita ed organizzata da un intellettuale al servizio del condottiero quale Antonio Cornazzano, il quale soggiornò presso il Colleoni fino alla sua morte nel 1475. Note al testo Fonti Fonti antiche Pietro Spino, Historia della vita, et fatti dell'eccellentissimo capitano di guerra Bartolomeo Coglione scritta per m. Pietro Spino, Venezia, Grazioso Percacino, 1569, SBN IT\ICCU\BVEE\011337. Cristoforo da Soldo, La Cronaca di Cristoforo da Soldo, in Giuseppe Brizzolara (a cura di), Rerum Italicarum Scriptores, Bologna, N. Zanichelli, 1938-1942, SBN IT\ICCU\PUV\0107271. Marino Sanudo, Itinerario di Marin Sanuto per la terraferma veneziana nell'anno 1483, a cura di Rawdon Brown, Padova, Tip. del seminario, 1847, SBN IT\ICCU\VEA\0154251. Fonti moderne Paola Bonfadini, Palazzo Colleoni (PDF), in Colori di legno: soffitti con tavolette dipinte a Brescia e nel territorio: secoli XV-XVI, Brescia, Starrylink editrice, 2005, pp. 43-49, ISBN 88-89720-19-0, SBN IT\ICCU\PAR\0964493. (EN) Christiane L. Joost-Gaugier, Bartolomeo Colleoni as a Patron of art and architecture: the Palazzo Colleoni in Brescia, in Arte Lombarda, no. 84-85 (1-2), Vita e Pensiero, 1988, pp. 61-72, ISSN 0004-3443, JSTOR 43130226. Antonio Fappani (a cura di), MARTINENGO della PALLATA, in Enciclopedia bresciana, vol. 8, Brescia, La Voce del Popolo, 1991, OCLC 163182000, SBN IT\ICCU\MIL\0273002. Carissimo Ruggeri, I Padri della Pace nel secolo dei lumi, in La chiesa di Santa Maria della Pace in Brescia, Brescia, La Scuola, 1995, pp. 13-40, ISBN 88-350-9081-4, SBN IT\ICCU\MIL\0341264. Antonio Fappani (a cura di), COLLEONI Bartolomeo, in Enciclopedia bresciana, vol. 2, Brescia, La Voce del Popolo, 1974, OCLC 163181903, SBN IT\ICCU\MIL\0272986. Luigi Francesco Fè d'Ostiani, Storia, tradizione e arte nelle vie di Brescia, a cura di Paolo Guerrini, Brescia, Figli di Maria Immacolata, 1927, SBN IT\ICCU\VEA\1145856. Adriano Peroni, L'architettura e la scultura nei secoli XV e XVI, in Giovanni Treccani degli Alfieri (a cura di), Storia di Brescia, II, Brescia, Morcelliana, 1963, SBN IT\ICCU\LO1\1152780. Paolo Guerrini, Una celebre famiglia lombarda: i conti di Martinengo: studi e ricerche genealogiche, Brescia, Tipo-litografia F.lli Geroldi, 1930, SBN IT\ICCU\MIL\0157486. Fausto Lechi, 2: Il Quattrocento, in Le dimore bresciane in cinque secoli di storia, III, Brescia, Edizioni di Storia bresciana, 1974, pp. 236-245, SBN IT\ICCU\MIL\0000927. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Palazzo Colleoni alla Pace Palazzo Colleoni alla Pace, su fondoambiente.it. URL consultato l'11 ottobre 2021. Paola Bonfadini, Tavolette lignee da soffitto – Quando il Rinascimento entrò nelle case, su stilearte.it. URL consultato il 5 novembre 2021.

Palazzo Averoldi
Palazzo Averoldi

Palazzo Averoldi è un edificio storico di Brescia situato in via Moretto al civico numero 12. È stato costruito a partire dal XVI secolo in pieno centro storico sud, in quella che una volta era la cosiddetta quadra di San Giovanni. Edificato per volontà della potente e influente famiglia degli Averoldi, il palazzo nobiliare rappresenta uno dei maggiori esempi di produzione artistica bresciana in ambito civico e reca, nei suoi ambienti e nelle sale interne, importanti decorazioni ed affreschi di epoca cinquecentesca di pittori quali il Romanino e Lattanzio Gambara, due tra i maggiori protagonisti dell'arte bresciana fra Rinascimento e Manierismo. Verso la fine del XV secolo Giovan Paolo Averoldi, «homo costumatissimo e devoto», acquistò diversi terreni della famiglia Porcellaga in vicinanza delle mura cittadine, nell'allora contrada di santa Croce, detta anche contrada del Bue, o ancora «della fontana del bò». Egli, così facendo, si separò dagli altri rami della famiglia, i quali vivevano tutti nei pressi di quella che è conosciuta modernamente come via Marsala ed era una volta chiamata contrada di Monzia; in ogni caso, lo stesso Giovan Paolo scelse come area per edificare il suo palazzo la quinta quadra di San Giovanni, settore della città noto anche come borgo san Nazaro. L'area, che prendeva il nome dalla vicina porta San Nazaro ed era allora caratterizzata da una forte vocazione artigianale, si trovava appunto in vicinanza delle mura e costituiva, tra l'altro, un punto d'accesso privilegiato per chi faceva il proprio ingresso a Brescia tramite le mura urbiche. La costruzione del palazzo nobiliare, nondimeno, cominciò solo dal 1544 in poi. Furono i quattro figli del già citato Giovan Paolo Averoldi ad avviare la fabbrica della dimora: Giovan Andrea, Leandro, Mario e Fulgenzio, nella summenzionata data, stipularono infatti un contratto con gli architetti ed ingegneri militari bergamaschi Pietro Isabello e il figlio Marcantonio; i due progettisti furono incaricati, in tale sede, sia di progettare ex novo la nuova dimora che di adattare le casupole ed edifici preesistenti nell'area del cortile di servizio. È assai probabile, inoltre, che i lavori fossero condotti piuttosto celermente, anche in virtù del fatto che, sempre secondo i termini del contratto stipulato, il compenso non sarebbe stato reso se non in ottemperanza a certe tempistiche del cantiere. A distanza di pochi mesi dalla stipula del contratto, peraltro, lo stesso Giovan Andrea Averoldi, parlando anche a nome degli altri tre fratelli, si rivolse al Consiglio cittadino per chiedere la cessione di altra area pubblica, così che si potesse «far fabrica qual sia ben intesa e fatta secondo i canoni dell’architettura, e per quadrare il loro sito»; in cambio, inoltre, fu ceduta dagli Averoldi parte della loro proprietà sia a sud che a nord, in modo da far allargare la strada pubblica adiacente. L'ala orientale del palazzo fu realizzata con una certa celerità, dal momento che, a soli sei mesi dall'inizio dei lavori, essa risulta già ultimata. A riprova di ciò si deve anche considerare la testimonianza fornita dalle monache agostiniane del limitrofo monastero di santa Croce: queste ultime, proprio a seguito della costruzione della suddetta ala del palazzo, chiesero al Consiglio cittadino di poter alzare ulteriormente il muro perimetrale del loro edificio, in modo da non poter essere viste dalle finestre del palazzo stesso. I lavori della fabbrica, in ogni caso, non dovettero procedere molto speditamente: la testimonianza di Leandro Averoldi, risalente al 1548, riporta infatti che era ancora necessario sostenere ingenti spese per terminarne la costruzione; vent'anni dopo, poi, viene addirittura detto che vi era «anchora da fabricar più della mità». Alla fine del Settecento, nondimeno, il palazzo e in particolare il piano nobiliare furono interessati da una nuova fase di committenza edilizia e artistica: infatti, su volontà dei fratelli Giuseppe e Faustino Chizzola, allora proprietari dell'immobile, fu incaricato l'architetto Giovanni Donegani e artisti quali Giuseppe Manfredini, Giuseppe Teosa, oltre che ornatisti quali Saverio Gandini, Francesco Tellaroli e Ferdinando Pellizzari. Le stanze furono affrescate tra il 1788 e il 1796 e presentano, nel complesso, una rielaborazione in chiave preromantica di temi seicenteschi, riprendendo anche motivi e stilemi dell'arte classica. Essendo quella di palazzo Averoldi una fabbrica protrattasi molto nel tempo, non è semplice ricostruire sia l'aspetto originario dell'edificio che i vari interventi effettuati nei secoli. Nondimeno, l'impianto planimetrico della dimora si configura come un caso unico nel panorama delle residenze nobiliari cittadine, dal momento che esso presenta una pianta ad U, con il cortile di rappresentanza aperto verso sud. Altrettanto inusuale è il fatto che l'ingresso da nord immetta direttamente nel cortile di servizio, munito in origine di stalle, fienili e rimesse e costituito da murature in rustico; ulteriore elemento insolito è la mancanza, nel palazzo nobiliare stesso, di una facciata principale. Fausto Lechi afferma con una certa sicurezza che la facciata esterna della dimora, verso via Moretto, sia senza dubbio stata costruita non appena fu avviata la fabbrica, ossia nel 1544. Seppur incompiuta, tale facciata si presenta asimmetrica e presenta un portale in bugnato di una certa imponenza; esso è poi ornato semplicemente da due teste di Medusa scolpite in rilievo, senza presentare altri elementi degni di menzione. Spostandosi invece dal già citato cortile di servizio, passando per un ulteriore androne, si giunge invece nel cortile più interno della dimora nobiliare, il quale presenta, in questa sezione, un'impostazione sicuramente più ricercata e, appunto, nobiliare. Il cortile interno del palazzo, poi, è costituito da un portico coperto da volte a crociera e sorretto da colonne di ordine tuscanico in marmo di Botticino: lo stesso cortile presenta poi una scansione in cinque arcate nei due bracci laterali e sei invece nel corpo centrale; in quest’ultimo, il numero pari delle campate implica l'insolita soluzione del pieno di una colonna in asse, anziché del vuoto di un’arcata. Le summenzionate colonne, inoltre, sorreggono archi sopraccigliati a tutto sesto, mentre al piano superiore vi sono lesene ioniche nelle quali sono inscritte semplici finestre; il tutto è concluso poi da un cornice marcapiano con anche vistosi mensoloni. La scansione architettonica appena descritta, nel complesso, è stata attribuita da Fausto Lechi all'opera giovanile dell'architetto bresciano Lodovico Beretta, come sostenuto peraltro in numerose altre opere di studiosi locali. Lo stesso Fausto Lechi, analizzando la fabbrica del palazzo, ha avuto modo di notare alcune anomalie a proposito della facciata prospiciente contrada Santa Croce: in tal proposito, lo studioso aveva ipotizzato che originariamente il palazzo presentasse due livelli solo nel corpo centrale, mentre le ali laterali dovevano avere soltanto il piano porticato. Conferma di ciò sembrerebbe essere contenuta in alcuni documenti che testimoniano la costruzione, ad opera di Agostino Avanzo a metà Seicento, di un «partamento di fabrica» nell’ala occidentale del palazzo. Inoltre, una fotografia scattata dopo i bombardamenti del 1943 lascia vedere la trabeazione del corpo centrale, in cui si intravedono appena i fori effettuati per alloggiare le travi del soffitto. La giustapposizione solo in seguito dei corpi di fabbrica corrispondenti alle ali laterali, spiegherebbe anche la debole soluzione d’angolo nel livello superiore del cortile, dove la parasta sembra come incastrata. Lo studioso Fausto Lechi giudica difficile operare una netta distinzione tra l'opera del Romanino e quella di Lattanzio Gambara: l'ipotesi dello stesso Lechi, in ogni caso, è che i due artisti abbiano collaborato in maniera sostanzialmente omogenea ed univoca. La cooperazione dei due artisti bresciani, nondimeno, è riscontrata anche a palazzo Bargnani e nel convento di Sant'Eufemia, sempre a Brescia, e nel caso di palazzo Averoldi è accertata dalle fonti seicentesche, ma è stata precisata soltanto negli ultimi anni: gli affreschi cinquecenteschi sono databili all’inizio del sesto decennio e ornano le volte di cinque salette al piano terra, collocate nel corpo di fabbrica che separa il portico dal cortile retrostante, a cui si accede da via Moretto. Il ciclo pittorico, nondimeno, ruota attorno al salone d'onore sulla cui volta è ritratto il Carro di Fetonte, che con l'effetto ottico della pittura distende i limiti del soffitto stesso; questi stessi scorci si ispirano, evidentemente, al ciclo di affreschi eseguito dallo stesso Romanino nel castello del Buonconsiglio a Trento. L'opera in questione, comunque, è attribuita non senza riserve alla mano di Lattanzio Gambara, il quale sembra avere tratto ispirazione dalla lezione del pittore cremonese Giulio Campi, presso il quale aveva compiuto il suo apprendistato giovanile. Muovendosi poi verso le altre sale del pianterreno, in direzione ovest, si incontrano rispettivamente la Sala delle Stagioni e quella del Carro di Diana. La realizzazione di questi cicli d'affresco va in ogni caso attribuita in egual modo sia al Romanino che a Lattanzio Gambara, i quali diedero vita ad una «lineare spartizione delle incombenze»; la critica, infine, è concorde nell’assegnare al solo Romanino gli affreschi delle salette orientali, contrassegnati dalle figure di Minerva e dell’Abbondanza, la cui lettura risulta ostacolata da ridipinture e, in certi casi, da vere e proprie lacune nell’intonaco. Analogamente a quanto appena detto, anche le salette laterali presentano uno strato o patina bianca, la quale preclude in ogni modo un'analisi o lettura dell'apparato decorativo sottostante. Tra il 1788 e il 1796, come già detto in precedenza, ebbe inizio la seconda grande stagione decorativa di palazzo Averoldi, riguardante il piano nobiliare dell'edificio: questo stesso ciclo pittorico, che vide la partecipazione delle maggiori figure artistiche della Brescia settecentesca, rappresenta un importante punto di passaggio tra arte settecentesca e, in seguito, la vera e propria corrente neoclassica. In ogni caso, come emerge anche dai documenti rinvenuti nel fondo Averoldi, le stesse decorazioni delle varie sale costarono ai committenti la non indifferente somma di 60.905 lire. La cosiddetta sala cinese del palazzo, identificata anticamente come sala verde, costituisce un unicum nel territorio bresciano, specialmente per la decorazione a pannelli lignei laccati di soggetto orientale, realizzati con fondo verde e figure in ocra. A una prima osservazione essa si presenta, nel complesso, come apparentemente omogenea; risulta composta peraltro di una boiserie e di quattro dipinti sovraporte, una controsoffittatura lignea composta di dipinti su tavola e su tela, culminanti in un fregio con motivi a grottesche. Questo complesso apparato decorativo è stato attribuito dalla critica alla mano del Manfredini e del Teosa con una certa sicurezza, che considera degli originali cinesi le lacche componenti la boiserie, e, nello specifico, riconduce le sovraporte e il medaglione centrale della volta alternativamente a Manfredini (Tanzi) o Teosa (Cretella). In realtà più approfondite ricerche archivistiche condotte da Pietro Balzani per la redazione della sua tesi di laurea (proposta in bibliografia) hanno fatto emergere alcuni significativi elementi che mostrano come l'aspetto attuale della sala sia frutto di interventi cronologicamente distinti e ascrivibili a diverse personalità artistiche. Note al testo Fonti Filippo Piazza, Brescia nel secondo Cinquecento, Architettura, arte e società (PDF), in Filippo Piazza, Enrico Valseriati (a cura di), Annali di Storia Bresciana, schede a cura di Irene Giustina e Elisa Sala, Brescia, Morcelliana, 2016, pp. 297-299, ISBN 978-88-372-3015-9, SBN IT\ICCU\UBS\0007368. Camillo Boselli, Asterischi bresciani: la decorazione settecentesca di Palazzo Averoldi in contrada S. Croce in Brescia, in Arte Lombarda, vol. 17, n. 37, Vita e Pensiero, Secondo Semestre 1972, pp. 96-139, ISSN 0004-3443, JSTOR 43104924. Stefania Cretella, La grande stagione neoclassica a Brescia: il rinnovamento di palazzo Averoldi, in Ricche Minere, n. 6, Venezia, dicembre 2016, pp. 121-144, ISSN 2284-1717. Fausto Lechi, 3: Il Cinquecento nella città, in Le dimore bresciane in cinque secoli di storia, III, Brescia, Edizioni di Storia bresciana, 1975, pp. 312-330, SBN IT\ICCU\VEA\0078826. Barbara Bettoni, I beni dell'agiatezza. Stili di vita nelle famiglie bresciane dell'età moderna, Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 45-124, ISBN 88-464-6868-6, SBN IT\ICCU\MIL\0685287. Paolo Brognoli, Nuova guida per la città di Brescia opera di Paolo Brognoli, illustrazioni di Pietro Bassaglia, Brescia, presso Federico Nicoli-Cristiani tipografo nel palazzo Avogadro a S. Alessandro, 1826, pp. 201-202, SBN IT\ICCU\RMRE\000817. Pietro Balzani, Elisa Bassini (a cura di), Palazzo Averoldi: arte e storia di una nobile dimora bresciana, Milano, Scalpendi, 2020, ISBN 978-88-322-0394-3, SBN IT\ICCU\UBS\0017431. Francesco Frangi, L’ultimo Romanino (e il primo Gambara), in L'ultimo Romanino: ricerche sulle opere tarde del pittore bresciano, Cinisello Balsamo, Silvana, 2007, pp. 17-39, ISBN 978-88-366-0770-9, SBN IT\ICCU\UBO\3268295. Stefania Cretella, Palazzo Averoldi, in Stefania Cretella (a cura di), Miti e altre storie: la grande decorazione a Brescia 1680-1830, Grafo, 2020, pp. 99-102, SBN IT\ICCU\TSA\1689768. Antonio Fappani (a cura di), PALAZZI della città, in Enciclopedia bresciana, vol. 11, Brescia, La Voce del Popolo, 1982, OCLC 163181589, SBN IT\ICCU\CFI\0293136. Francesco De Leonardis (a cura di), Guida di Brescia, La storia, l'arte, il volto della città, Brescia, Grafo, 2018, ISBN 9788873859918, OCLC 1124648622, SBN IT\ICCU\BVE\0818515. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Palazzo Averoldi Palazzo Averoldi, su fondoambiente.it. URL consultato il 16 dicembre 2021. Palazzo Averoldi, ora sede del Rotary Club, su centrobossaglia.it. URL consultato il 16 dicembre 2021. Palazzo Averoldi, Brescia, su lombardiabeniculturali.it. URL consultato il 16 dicembre 2021. Edoardo Lo Cicero, Sala cinese - Palazzo Averoldi, su centrobossaglia.it. URL consultato il 20 dicembre 2021.

Chiesa di Santa Maria della Pace (Brescia)
Chiesa di Santa Maria della Pace (Brescia)

La chiesa di Santa Maria della Pace è una chiesa di Brescia, situata a metà dell'omonima Via Pace, non lontano dalla chiesa di San Francesco d'Assisi. Appartiene alla Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri. La fondazione della chiesa di Santa Maria della Pace, nella prima metà del Settecento, si pone al centro di un periodo di grande rinnovo e fervore religioso a Brescia dovuto alla rinascita economica e sociale della città dopo l'epidemia di peste del 1630, in larga parte favorito dall'operato del vescovo Angelo Maria Querini che venne a capo della diocesi di Brescia nel 1728. Nello stesso periodo, anche il cantiere del Duomo nuovo si riapriva, dopo anni di abbandono. La fondazione della chiesa si deve ai Padri Filippini che, nel 1686, lasciano il convento della chiesa di San Gaetano e si trasferiscono in un palazzo vicino alla torre della Pallata, dove viene aperto un nuovo oratorio. Il primo accenno alla chiesa viene fatto in un verbale della Congregazione Universale datato 10 luglio 1697, dove viene registrata la scelta comune, messa ai voti, di edificare il nuovo luogo di culto. Vi erano comunque state delle premesse, evidenziate in particolare da una serie di corrispondenza scambiata tra il 1691 e il 1692 da due filippini, Padre Brunelli e Padre Celerio: quest'ultimo si era recato a Roma per alcune pratiche di culto, ma scriveva a Padre Brunelli, rimasto a Brescia, della bellezza e della varietà delle chiese di Roma, dalle quali si poteva estrarre il meglio per far sì che il progetto della nuova chiesa fosse bello e alla moda con il nuovo stile dell'epoca, il barocco, e con i nuovi dettami della Controriforma. Il proposito viene inizialmente ritardato dalla guerra di successione spagnola, che scoppia pochi anni dopo. Bisogna attendere il 1707 per trovare una nuova annotazione riguardante la fabbrica della chiesa, in un nuovo verbale dei Filippini datato 3 settembre dove si registra l'acquisto del terreno su cui sorgerà, un fondo di proprietà dei nobili Calini che viene pagato 34.100 lire veneziane. Segue una nuova pausa, probabilmente dovuta a difficoltà finanziarie e, soprattutto, per le trattative d'acquisto di un altro fondo dai Masperoni, che doveva completare il terreno sul quale costruire la chiesa. Nel 1719, inoltre, si ha la conferma che il disegno della chiesa è affidato a Giorgio Massari, importante architetto operante nella repubblica di Venezia a quel tempo. Le prime voci annotate sul Libro spese della Fabbrica si rileva la presenza del Massari a Brescia nel marzo 1720, affiancato da Bartolomeo Spazzi, originario di Salò e architetto locale. Si ha anche notizia di un modello in legno della chiesa, del quale ci è giunta solamente la cupola. Completato l'acquisto dei fondi e ottenuto un architetto cui commissionare il progetto, si poteva finalmente dar via al cantiere della chiesa, dopo almeno trent'anni dalla nascita delle prime idee in merito. La posa della prima pietra viene narrata nei Diari dei Bianchi, una famiglia bresciana con numerose presenze negli ordini religiosi e in Vescovado. Il capitolo, al riguardo, scrive: "Adì 15 settembre, Domenica in cui cade la solennità del Nome di Maria, si mette da Mons. Giov. Francesco nostro Vescovo (si tratta di Gianfrancesco Barbarigo) la prima pietra della Chiesa che intendono Fabbricare li Padri della Congregazione dello Oratorio, detti della Pace, e ciò con grande concorso di gente e superbissima musica, e sopra detta pietra, che fu collocata in cornu evangelii (uno dei lati del presbiterio) nel fondamento del Pilone dove dovransi mettere li balaustri dello Altare Maggiore, fu posta una scattola rottonda di piombo con dentro un medaglione di metallo, che da una parte aveva impresso l'arma del Pontefice regnante (era Papa Clemente XI) col nome del medesimo e l'anno del Pontificato, l'arma del Serenissimo Principe con il nome dell'istesso ed anno del Principato, l'arma dell'Ill.mo e Rev.mo nostro Vescovo con il nome del medesimo ed anno del Vescovato, e l'arma dell'Ecc.mo sig. Pietro Grimani [...], uno delli tre Inquisitori mandati dalla Serenissima Repubblica [...]. Dall'altra parte della medaglia vi era il titolo di detta chiesa e l'anno di nostra salute 1720, e si faceva menzione della Congregazione dell'Oratorio. Ne' giorni poi in venire si seguita a lavorare alla galliarda, credendosi abbia a riuscire una delle chiese più celebri che sii in Brescia.... Questa lode da parte dei Bianchi doveva provenire, molto probabilmente, dalla vista del modello in legno della chiesa, sicuramente presente alla posa della prima pietra. Della medaglia, descritta, oltretutto, ne esistono ancora due esemplari. Le due cupole sono alte da terra 52 e 37 m. rispettivamente, la torre campanaria 40 metri. Il diametro della cupola maggiore alla base è di 17 metri.. Il cantiere, avviato dunque nel 1720, dura circa venticinque anni, fino al 1746. Giorgio Massari si mantiene costantemente in contatto con la fabbrica attraverso lettere, inviando disegni e particolari architettonici e decorativi. Visita comunque più volte il cantiere per accertare l'esecuzione regolare delle sue direttive, fin dal primo anno, il 1721: una nota nel Libro delle spese della Fabbrica attesta: "Regalo al sig. Giorgio Massari architetto per viaggi e visita alla fabrica". Altre visite si segnalano nel 1727 e nel 1728, e in quest'ultimo anno invia alla fabbrica il progetto della facciata, che poi non sarà compiuta. Per le trentasei colonne monolitiche, che dovevano essere collocate all'interno della chiesa, il Massari pensa inizialmente di far importare a Brescia una tonalità rosata di marmo rosso di Verona, ma viene fortunatamente scoperta una cava di pietra simile molto vicina alla città, come dimostra la cronaca di Alfondo Cazzago che, mentre descrive lo stato del cantiere al 5 dicembre 1725, annota: Quali colonne sono assai piaciute, e sono di marmo non mai più adoperato, ma fatto scoprire dalla Provvidenza di Dio lontano solo quattro miglia, cioè sul terren di Botticino da Sera. Nel 1729 il cantiere riceve l'importante visita di Filippo Juvarra, chiamato in città per dare consigli su come estrarre le imponenti colonne interne del Duomo nuovo. Sempre il Cazzago riporta: "(Filippo Juvarra) ha veduto ancora la Fabrica della nostra Chiesa qui alla Pace, e l'ha lodata, ed approvata in tutto esprimendosi di non vedervi un difetto. Perciò ha detto che il Duomo sarà lo sposo, e la nostra Chiesa sarà la sposa tutta bella e ornata. Nel 1731 è ancora il Cazzago, che morirà a breve, a darci un nuovo resoconto sullo stato del cantiere: in quell'anno, le colonne sono ormai tutte collocate e una buona parte dell'edificio è costruita fino alla trabeazione di queste. comprese le cappelle laterali. Nello stesso anno, Bartolomeo Spazzi viene sostituito da Giacomo Scalvi alla direzione del cantiere, il quale avvia la fabbricazione dei due altari laterali principali, posti al centro della navata, e dell'altare maggiore: la decorazione scultorea dei tre viene affidata ad Antonio Calegari. Nel 1736 il Massari è nuovamente in visita al cantiere per avviare i lavori di erezione della cupola, parte di notevole impegno dell'intero complesso architettonico. Nel gennaio 1737 giunge ai padri il gradito dono di Angelo Maria Querini: la pala dell'altare maggiore, la Presentazione al Tempio di Gesù di Pompeo Batoni (vedi dopo). Contemporaneamente all'innalzamento della cupola si provvede alla costruzione del campanile: il Massari invia in proposito una lettera molto dettagliata che ne descrive le caratteristiche architettoniche e le misure, mostrando una certa preoccupazione sul fatto che tutto venga eseguito secondo le sue direttive. Nel 1738, rivestita di piombo la cupola, ha inizio la decorazione pittorica degli interni, monocroma color grigio stucco polveroso: Francesco Monti, che già in quell'anno aveva cominciato a dipingere per la chiesa la Madonna col Bambino e San Maurizio, viene chiamato ad affrescare i riquadri della volta con gli Episodi della vita della Vergine, affiancato da Giacomo Zanardi che si occupa invece dell'ornato. I lavori dei due proseguono fino al 1746. Gli anni dal 1739 al 1746, dunque contemporaneamente al lavoro dei due pittori, vedono un'ulteriore, fervida attività decorativa e scultorea all'interno della chiesa. I marmisti di Rezzato e Botticino sono attivamente impegnati nell'assemblaggio degli altari della crociera e dell'altare maggiore, per i quali viene chiesta la consulenza di Giovanni Maria Morlaitero. Le statue di Antonio Calegari, già commissionate anni prima, vengono posizionate nello stesso periodo, o integrate negli altari in via di realizzazione. Il Massari, in concomitanza con questi lavori, invia una ricca serie di disegni per gli interni, ad esempio per il pavimento del presbiterio, per le due cappelle centrali, per i capitelli e per altre decorazioni interne alla chiesa: questi ultimi due, in particolare, vengono eseguiti per mano di Giovanni Zirotti, raffinato scultore locale. È possibile percepire l'effettivo impegno di Giorgio Massari nella fabbrica, così come la sua preoccupazione che tutto si svolgesse secondo le sue direttive, da una lunga serie di annotazioni leggibili in più contratti; in uno, ad esempio, si può leggere: "attenersi al dissegno fissato ed approvato dal sig. Giorgio Massari Architetto", oppure, riguardo ai capitelli, "devono essere fatti secondo le misure e dissegno fatto dal sig. Giorgio Massari", oppure ancora, in una polizza, si dice addirittura che "le sagome, mandate dal sig. Giorgio Massari Architetto in giusta misura, dovranno essere copiate dall'artefice e restar in mano dei Padri Fabriceri le sagome originali per confrontare la giusta esecuzione, non dovendosi prendere un minimo arbitrio sopra di esse [...] e occorrendo qualche difficoltà, avvisare per scrivere, e aspettare la risoluzione dell'architetto". Nel 1745 la chiesa si arricchisce di opere d'arte: il pittore Giacomo Zoboli fornisce la pala di San Filippo Neri genuflesso davanti alla Madonna, Giambattista Pittoni la Madonna col Bambino adorata da San Carlo Borromeo e Pompeo Batoni il San Giovanni Nepomuceno davanti alla Vergine, contribuendo così con un'altra opera oltre a quella già realizzata per l'altare maggiore. Nel 1737 era invece arrivato il San Francesco di Sales cui appare la Madonna di Antonio Balestra, commissionato da Emilia Venazzoli, anonima benefattrice locale. Il completamento delle sculture avviene con 10 statue di Cesare Zani di Rezzato negli anni 1880-1891. Il 24 maggio 1746 la chiesa, ormai completata nei suoi elementi principali, mancando solo i quattro altari laterali, viene consacrata dal vescovo Angelo Maria Querini. Così il Guerrini, sulla scorta della relazione redatta al tempo, descrive la solenne giornata della consacrazione: "Compiuto il tempio, il Cardinal Querini in persona volle consacrarlo il 24 maggio 1746 con lo splendore delle funzioni pontificali, perché fosse solennemente inaugurato con le feste annuali in onore di San Filippo (il 26 maggio è la memoria liturgica di San Filippo Neri) [...] Grandiosi festeggiamenti in quei giorni alla Pace! Splendore di riti sacri, sfarzo settecentesco di addobbi, profusione di musica vocale e strumentale, accademie letterarie, versi, elogi, una folla immensa accorsa ad ammirare la mole e le eleganze architettoniche del nuovo tempio. I Padri Filippini, in riconoscenza al Massari che aveva saputo creare per loro una degna chiesa, gli inviano a Venezia un prezioso reliquiario d'argento. Nel 1756, oltretutto, avviata la realizzazione delle cantorie, viene nuovamente chiesta consulenza al Massari circa i colori da utilizzare e i dettagli architettonici. Posto su due cantorie gemelle ai lati dell'altar maggiore, è uno strumento a tre tastiere nato dall'unione dei due corpi, comunque suonabili autonomamente attraverso due consolle meccaniche, l'uno Amati del 1854 e l'altro Tamburini del 1972. Carissimo Ruggeri,Valentino Volta, Pier Virgilio Begni Redona, Rossana Prestini, Ivo Panteghini, La chiesa di Santa Maria della Pace in Brescia, Brescia, Banca San Paolo, 1995. Archivio di Stato di Brescia, Fondo di religione, Archivio dei Padri Filippini, Libro dei decreti della Congregazione universale dal 1696 al 1747 Ruggero Boschi, Carissimo Ruggeri, Antonio Miceli, Fabio Perrone, Luciano Anelli, Bruno Passamani, La chiesa di Santa Maria della Pace a Brescia, Brescia, Grafo edizioni 1982 Ruggero Boschi, Introduzione Carissimo Ruggeri, I Padri della Pace nel secolo dei lumi Antonio Miceli, Fabio Perrone, Chiesa di Santa Maria della Pace: oggetti sacri del XVIII secolo Luciano Anelli, Bruno Passamani, Carissimo Ruggeri, Le opere pittoriche Libro delle Spese della Fabbrica della chiesa di Santa Maria della Pace: Libro A (1720-1737) e il Libro B (1738-1834), il primo con segnatura F.IV 37 e il secondo F.IV 38 Paolo Guerrini, "Diari dei Bianchi" in Cronache bresciane inedite, Brescia 1934, vol. 5, pp. 35–37 Alfonso Cazzago, Libro che contiene tutti i successi di Brescia scritti da me Alfonso Cazzago Principiando l'anno 1700 sino a quando Dio mi darà questa vita, Archivio Civico Storico, C I 1 Paolo Guerrini, La congregazione dei padri della Pace, Brescia, Scuola Tip. Opera Pavoniana, 1933, SBN IT\ICCU\CUB\0331318. Palazzo Colleoni alla Pace Angelo Maria Querini Pompeo Batoni Giacomo Zoboli Wikibooks contiene testi o manuali sulla disposizione fonica dell'organo a canne Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla chiesa di Santa Maria della Pace

Centro Storico Sud
Centro Storico Sud

Centro Storico Sud è un quartiere della città di Brescia. L'area del quartiere occupa la parte meridionale del centro storico cittadino, comprendente i quartieri che fanno riferimento alle parrocchie di san Lorenzo, dei santi Nazaro e Celso e, parzialmente, di Sant'Agata. Ad esso appartiene anche l'area compresa fra via XX settembre e la ferrovia Milano-Venezia, parte del complesso commerciale «Freccia Rossa» e il Palazzo di giustizia della città. Il territorio è fortemente urbanizzato, i suoi confini sono delimitati a nord da via Dante e via Cairoli, a est da via X giornate, corso Zanardelli e via San Martino della Battaglia, a sud dalla linea ferroviaria sopracitata e ad ovest da viale Italia, via Cassala e via Fratelli Ugoni. Il toponimo è di origine moderna, concepito per distinguere il quartiere dagli altri due del centro storico della città: Centro Storico Nord (in origine solo "Centro Nord") e Brescia Antica. L'area del quartiere occupa parte delle antiche quadre di San Giovanni e di Sant'Alessandro che furono comprese nella cinta muraria cittadina solamente nel Duecento. La zona fu caratterizzata dalla presenza di ospizi e nosocomi: in via Moretto, presso la Crocera di San Luca, ebbe sede l'Ospedale Maggiore poi trasferito nella prima metà dell'Ottocento nel convento di San Domenico e, dal 1954, al moderno edificio che si trova nel quartiere di San Rocchino-Costalunga. Per iniziativa di Alessandro Luzzago, sempre in via Moretto ma nei pressi della porta di San Nazzaro (attuale piazza Repubblica), fu aperta l'opera Pia «Casa di Dio», nata per ospitare orfani e malati. Nel 1854, fu aperta la stazione di Brescia della ferrovia Milano-Venezia nei pressi del borghetto detto di San Nazzaro. Questo quartiere era sorto al di fuori della porta anzidetta e fu sede municipale dell'omonimo comune che si estendeva sull'attuale area sud-orientale del comune cittadino. Con la riforma amministrativa del 1859, l'area occupata dal quartiere del Centro Storico sud corrispose alla parte meridionale del II Mandamento di Brescia con annessa Pretura, mentre l'area del borghetto San Nazzaro, appartenendo a un altro comune, fu assegnato al III Mandamento. Nel luglio 1880, il comune di San Nazzaro Mella fu aggregato alla città. Nel 1923, i mandamenti furono abrogati. Nel luglio 1972, il consiglio comunale votò la costituzione dei consigli di quartiere e istituì quello del "Centro Storico Sud" le cui elezioni si tennero il 24 novembre 1974. Tre anni dopo, la Giunta Trebeschi recepì la legge 278/1976 istituendo le nuove circoscrizioni: il quartiere del Centro Storico Sud fu aggregato alla Nona circoscrizione, assieme ai quartieri del Centro Nord e di Brescia Antica. Nel 2007, la giunta Corsini riformò la suddivisione circoscrizionale riducendone il numero a cinque: i tre quartieri del centro storico furono quindi assegnati alla nuova Circoscrizione Centro. Sette anni dopo, in conseguenza dell'abolizione delle circoscrizioni per i nuovi limiti imposti dalla legge 191/2009, la Giunta Del Bono decise di ricostituire gli organi consultivi di rappresentanza dei quartieri. Le prime elezioni del consiglio di quartiere si tennero in tutta la città il 14 ottobre. chiesa di san Francesco d'Assisi chiesa di San Lorenzo chiesa di San Luca chiesa della Madonna del Lino chiesa di santa Maria dei Miracoli chiesa dei santi Nazaro e Celso chiesa di sant'Orsola Palazzo di Giustizia Piazza della Vittoria stazione ferroviaria di Brescia Nell'area del quartiere sono operative due parrocchie di religione cattolica, appartenenti alla Diocesi di Brescia: quella dei santi Nazaro e Celso e quella di San Lorenzo. In piazza del Mercato, presso Palazzo Martinengo Palatini, ha sede il Rettorato dell'Università di Brescia. Nel territorio assegnato al quartiere si trova la stazione ferroviaria servita dalla ferrovia Milano-Venezia, la Brescia-Iseo-Edolo, Brescia-Bergamo, Brescia-Cremona e Brescia-Parma. La metropolitana di Brescia corre in sotterranea tra la stazione anzidetta e via Giuseppe Verdi. Stazione FS è l'unica fermata della metropolitana presente nel territorio del quartiere; quella di Vittoria si trova poco a nord del confine con il vicino quartiere del Centro Storico Nord. Il Centro Storico Sud è servito dalle linee 3 (Mandolossa - Rezzato), 7 (Caino - Roncadelle), 9 (Villaggio Violino - Buffalora), 12 (Fiumicello - San Polo), 13 (Gussago - Poliambulanza), 15 (Montini / Mompiano - Noce) e 17 (Costalunga - Castel Mella) della rete di trasporti urbani. La linea 4, diretta a Folzano, e la 14, diretta a Borgosatollo e Capodimonte, hanno il capolinea presso la stazione ferroviaria negli orari di punta. Lisa Cesco, Diego Serino, 30 anni di partecipazione: l'esperienza delle circoscrizioni a Brescia. Circoscrizione Centro, Brescia, Comune di Brescia, 2010. Maurillio Lovatti, Marco Fenaroli, Governare la città. Movimento dei quartieri e forze politiche a Brescia 1967-77, Brescia, Nuova ricerca editrice, 1978. Giovanni Boccingher, Brescia Andata e Ritorno. Le molte vite di una stazione, Brescia, 2016. Le elezioni dei Consigli di Quartiere a Brescia nel 2014 (PDF), su comune.brescia.it. URL consultato il 12 dicembre 2020 (archiviato dall'url originale il 13 giugno 2022). Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Centro Storico Sud