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Chiesa di San Mattia alle Grazie

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Chiesa San Mattia alle Grazie Via delle Grazie Brescia
Chiesa San Mattia alle Grazie Via delle Grazie Brescia

La chiesa di San Mattia alle Grazie, nota semplicemente come chiesa di San Mattia, è una chiesa di Brescia situata in via delle Grazie, tra l'estremità su corso Garibaldi e la chiesa di Santa Maria delle Grazie, dalla quale trae l'appellativo benché non vi fu mai rapporto tra i due edifici di culto. Fondata nel Duecento, mantenne nei secoli un ruolo sempre marginale nel panorama religioso cittadino fino alla soppressione avvenuta nel 1797. Attualmente è utilizzata come palestra dell'attigua scuola media statale.

Estratto dall'articolo di Wikipedia Chiesa di San Mattia alle Grazie (Licenza: CC BY-SA 3.0, Autori, Immagini).

Chiesa di San Mattia alle Grazie
Via delle Grazie, Brescia

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25122 Brescia (Zona Centro)
Lombardia, Italia
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Chiesa San Mattia alle Grazie Via delle Grazie Brescia
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Luoghi vicini

Santuario della Madonna delle Grazie (Brescia)
Santuario della Madonna delle Grazie (Brescia)

Il Santuario della Madonna delle Grazie è una chiesa di Brescia, con funzione principalmente votiva e meditativa, situata lungo via delle Grazie, adiacente all'omonima basilica di Santa Maria delle Grazie. Il piccolo santuario sorge su una chiesa del Duecento variamente ricostruita nel corso del secoli, in particolare alla fine dell'Ottocento, quando è stato eseguito un rifacimento radicale degli interni. Il santuario è oggi il maggior esempio di arte e architettura neogotica ottocentesca in città. Il santuario sorge nel luogo dell'antica chiesa di Santa Maria di Palazzolo, costruita nel XIII secolo da un gruppo di Umiliati provenienti da Palazzolo sull'Oglio. Gli Umiliati erano comunque presenti a Brescia già dalla fine del XII secolo: in una lettera del 1254 vengono particolarmente lodati da Papa Innocenzo IV per il fervore religioso e la grande operosità. Berardo Maggi, vescovo di Brescia dal 1275 al 1308, favorì il loro radicamento nel territorio cittadino, incaricandoli della riscossione dei dazi, della vendita del sale e del pane e dell'arbitraggio di controversie. Per agevolare le operazioni di esazione dei tributi, le case degli Umiliati sorgevano spesso in corrispondenza delle porte urbiche e dei ponti sui vari corsi d'acqua che attraversavano la città come il Bova, il Celato e il Dragone. La chiesa di Santa Maria di Palazzolo sorse infatti nei pressi di Porta San Giovanni, a ovest della cortina muraria cittadina. L'antica chiesetta comprendeva un semplice vano rettangolare di modeste dimensioni, coperto da travature lignee. Il piccolo ambiente viene rinnovato nel corso del Trecento con l'erezione di una serie di volte a crociera costolonate e ampliato in pianta rispetto alla struttura originaria. Un importante apparato di affreschi impreziosiva le pareti dell'edificio: dell'intero ciclo pittorico sopravvivono solo alcuni frammenti attualmente conservati presso la pinacoteca Tosio Martinengo, dove furono portati per ragioni di salvaguardia alla fine dell'Ottocento. Si segnala in particolare un lacerto di gusto bizantino con la figura dell'Arcangelo Gabriele, proveniente da una più vasta Annunciazione degli inizi del Trecento, una Madonna lactans, la Veronica con il sudario e i Santi Francesco e Antonio con devota della fine del secolo. Sul finire del Quattrocento le cronache accennano ad una grave crisi morale che travolge alcuni esponenti umiliati: si rende così necessario l'intervento del cardinale Uberto Gambara, che nel 1517 insedia i Gerolamini nel convento con l'incarico di riformarlo. I Gerolamini, presenti a Brescia dalla metà del Quattrocento, avevano inoltre appena abbandonato la loro primitiva residenza a nord della città: nel 1517, infatti, dopo la triste esperienza del sacco operato nel 1512 dai soldati di Gaston de Foix-Nemours, la Repubblica di Venezia, ripreso il controllo della città, ordina da cosiddetta "spianata", ovvero la distruzione di qualsiasi edificio attorno alle mura nel raggio di circa un chilometro e mezzo. Anche la chiesa dei Gerolamini viene atterrata e l'intervento di Uberto Gambara dà loro nuova sede. I frati avviano quindi la riforma del monastero e costruiscono una nuova, più grande chiesa a fianco dell'antica, che non viene comunque distrutta e rimane in funzione di santuario. Frate Ludovico Barcella vi fa collocare una Natività del Quattrocento, che era oggetto di particolare venerazione per alcuni miracoli che le erano stati attribuiti ed era stata pertanto trasferita dalla chiesa abbattuta. Le pareti dell'edificio vengono impreziosite nel Seicento da affreschi di Tommaso Sandrino e Francesco Giugno, oggi perduti. Nel 1860 è registrato un intervento decorativo del pittore Giuseppe Ariassi, che esegue una Deposizione e figure di Santi. Nell'ultimo quarto dell'Ottocento l'edificio è finalmente interessato da un radicale intervento di recupero che porta alla completa trasfigurazione della sua architettura tradizionale. Per valorizzare il piccolo santuario, piuttosto spoglio ed oscuro ma sempre intensamente frequentato, il Comune decide di provvedere al suo restauro, affidando l'incarico all'architetto Antonio Tagliaferri, che ne porta a compimento la realizzazione fra il 1875 e il 1897 ricorrendo all'opera di numerosi decoratori, pittori e scultori. I lavori vengono infine completati tra il 1899 ed il 1907 con il posizionamento degli arredi progettati dallo stesso Tagliaferri. Nell'intervento ricostruttivo, l'antico altare e la venerata immagine della Madonna, strappata dal supporto originario, vengono riposizionati sul lato nord dell'edificio, in modo da consentire l'apertura di ampie finestre sul lato sud, esposto alla luce. Intorno all'immagine sacra viene creato un recinto in ferro, protetto da una balconata con inserti marmorei e colonnine tortili, che realizzava una distinzione fra gli spazi percorsi dai fedeli e la zona riservata all'officiante. Il santuario assume una preziosissima decorazione neogotica, con marmi, terrecotte e affreschi realizzati appositamente. La decorazione marmorea viene commissionata al lapicida rezzatese Davide Lombardi, che riproduce nei plinti delle colonne alcuni simboli mariani. La stuccatura delle lesene e delle innumerevoli cornici viene affidata invece alla famiglia Pedruzzi di Bergamo. La decorazione dipinta, realizzata con la tecnica della tempera a encausto, viene eseguita da Modesto Faustini, al quale si devono l'Annunciazione e la Visitazione ai lati dell'altare e le figure di Cristo, della Madonna e dei Santi nei medaglioni presenti nelle lunette e sugli archi. Alla morte dell'autore i lavori vengono portati a termine da Cesare Bertolotti, che realizza la Crocifissione di Cristo, la Nascita, lo Sposalizio e l'Assunzione della Vergine nei trittici a lato dell'altare e Personaggi dell'Antico Testamento nelle lesene circostanti. Il soffitto del presbiterio, con sfondo blu rivestito di stelle dorate, è opera dei pittori Salvi, Franchini e Chimeri. All'esterno del santuario è presente il chiostro del convento, con al centro una fontana decorata in sommità da una statuetta in bronzo della Madonna, opera di Santo Calegari il Vecchio. Sul matroneo si trova un organo a canne, costruito nel 1880 da Giovanni Tonoli, riformato dalla ditta Maccarinelli-Frigerio-Fusari nel 1921 secondo i gusti dell'epoca e ripristinato nel 2008 dalla ditta Inzoli. Lo strumento è a trasmissione meccanica ed ha due tastiere ciascuna di 58 note ed una pedaliera dritta di 27. Marina Braga, Roberta Simonetto (a cura di), Il quartiere Carmine, in Brescia Città Museo, Contributi di Antonella Busseni, Elena Remi, Brescia, Tip. S. Eustacchio, 2004, SBN IT\ICCU\BVE\0387824. Rino Cammilleri, Tutti i giorni con Maria, calendario delle apparizioni, Milano, Ares, 2020, ISBN 978-88-815-59-367. Wikibooks contiene testi o manuali sulla disposizione fonica dell'organo a canne Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sul santuario di Santa Maria delle Grazie

Basilica di Santa Maria delle Grazie (Brescia)
Basilica di Santa Maria delle Grazie (Brescia)

La basilica di Santa Maria delle Grazie è una chiesa di Brescia, situata all'estremità ovest di via Elia Capriolo, all'intersezione con l'omonima via delle Grazie. Costruita a partire dalla prima metà del Cinquecento e notevolmente arricchita nel Seicento, custodisce varie opere di autori locali e tre tele del Moretto, due delle quali sono però oggi alla Pinacoteca Tosio Martinengo. Principale caratteristica della chiesa sono gli affreschi, gli stucchi e le dorature, eseguiti con notevole cura e grandissima varietà di repertorio decorativo, che rivestono ogni superficie dell'interno dell'edificio, rendendolo il più spettacolare esempio di arte barocca in città. Alla chiesa è annesso l'omonimo santuario di Santa Maria delle Grazie, pregevole opera neogotica ottocentesca. La primitiva chiesa viene costruita dai Gerolamini, presenti a Brescia dalla metà del Quattrocento, in un luogo molto lontano da qui, oggi corrispondente all'estremità nord di via Oberdan, molto a nord della città murata. Nel 1517, dopo la triste esperienza del sacco operato nel 1512 dai soldati di Gaston de Foix-Nemours, la Repubblica di Venezia, ripreso il controllo della città, ordina da cosiddetta "spianata", ovvero la distruzione di qualsiasi edificio attorno alle mura nel raggio di circa un chilometro e mezzo. Anche la chiesa dei Gerolamini viene atterrata e, per avere una nuova sede, chiedono e ottengono di insediarsi nella chiesa di Santa Maria di Palazzolo, situata all'interno della cerchia muraria all'estremità ovest dell'attuale via Elia Capriolo. La chiesa, oltretutto, apparteneva già agli Umiliati, i quali stavano però tenendo una bassa condotta morale e, di conseguenza, l'entrata dei Gerolamini servì anche per rinnovare il convento. Tramite bolla di Papa Leone X, nel 1519 i frati ottengono infine anche il diritto di sostituire l'antico nome del complesso religioso con quello di Santa Maria delle Grazie. Le minime dimensioni del luogo di culto, però, non dovettero soddisfare i nuovi abitanti del monastero e, di conseguenza, nel 1522 avviano il cantiere di una nuova chiesa, su progetto di frate Ludovico Barcella, immediatamente a lato dell'antico edificio, che sarà poi consacrata nel 1539. Questo nuovo luogo di culto diventa la principale chiesa di Santa Maria delle Grazie, mentre l'ex chiesa di Santa Maria di Palazzolo resta un santuario annesso. Nel 1668 la soppressione dell'ordine dei Gerolamini, decretata da Papa Clemente IX, porta all'insediamento dei Padri Gesuiti, che acquisiscono la chiesa con i chiostri annessi, istituendovi una scuola rinomata. Il monastero viene poi soppresso nel 1797 ma la chiesa rimane aperta e officiata ed è ancora oggi attiva. Il 17 marzo 1963 la chiesa viene elevata al rango di Basilica minore con decreto di papa Giovanni XXIII, da lui visitata più volte quando era Nunzio Apostolico e Patriarca di Venezia. La facciata della chiesa è accessibile tramite un piccolo sagrato delimitato da una cancellata in ferro battuto. A destra è presente un'alta colonna con capitello ionico che sorregge la statuetta in bronzo della Madonna della Pace, opera dello scultore bresciano Emilio Magoni. La colonna fu posizionata nel 1921, in luogo di una più antica abbattuta da un uragano nel 1873. La facciata della chiesa, che si innalza sullo sfondo, è ritmata da semplici lesene che dividono la superficie in tre settori, fra i quali quello centrale è il più elevato. Una fascia marcapiano la divide invece in senso orizzontale. Nel prospetto superiore, privo di elementi ornamentali, campeggia un grande rosone, impreziosito da una vetrata di settecentesca di Giovanni Bertini rappresentante la Natività. All'interno, la chiesa presenta una struttura a tre navate, con volta a botte di copertura nella navata centrale e cupolette emisferiche in successione nelle laterali, in corrispondenza dei singoli altari, sette per lato. Il profondo presbiterio è concluso da un'abside poligonale. Al centro della facciata si apre un portale scolpito in marmo di Botticino e marmo rosso di Verona, proveniente dalla chiesa a nord della città demolita nel 1517 e qui trasferito. L'architrave riporta l'iscrizione "MATTHEUS LEONEUS HANC PORTAM PROPRIIS FABREFACTAM SUMPTIBUS BEATAE DEI GENITRICI GRATIARUM MARIAE DEVOTE DEDICAVIT", a ricordo quindi dell'intervento di Matteo Leoni, capitano di ventura, che sovvenzionò l'opera. La lunetta al centro del portale è arricchita da un rilievo con la Madonna delle Grazie e il Bambino, fiancheggiati a destra da Matteo Leoni in vesti militari con San Gerolamo e a sinistra da un figlio del Leoni in preghiera con San Giovanni Battista. L'apparato scultoreo, decisamente innovativo nei modellati e nelle decorazioni ma ancora caratterizzato da un marcato retaggio gotico nella composizione generale, è la più rappresentativa opera della fase di transizione percorsa dall'arte lapidea bresciana nella seconda metà del XV secolo. La volta, le pareti e tutte le cupolette laterali sono interamente rivestiti da affreschi, stucchi e dorature eseguiti con notevole cura e grandissima varietà di repertorio decorativo, che fanno di questa chiesa il più spettacolare esempio di arte barocca in città. L'impresa decorativa nasce dal concorso di molti artisti, fra i quali si ricordano Francesco Giugno, autore dei cinque medaglioni nella volta centrale con l'Apparizione di Cristo risorto alla Madonna, la Pentecoste, l'Assunzione, l'Incoronazione e la Morte della Beata Vergine. Giovanni Mauro della Rovere opera invece nel presbiterio, mentre Girolamo Muziano dipinge Episodi della vita di San Gerolamo nella cupoletta presso l'altare del patrono. Il primo altare a destra, dedicato a santa Barbara, è arricchito da una tela raffigurante il Martirio della Santa opera del pittore bresciano Pietro Rosa, allievo di Tiziano. La cura dell'altare, come ricorda un'iscrizione presente ai lati del medesimo, spettava alla Scuola dei Bombardieri ed Artiglieri, istituita dal governo veneto nel 1531. L'altare successivo, originariamente intitolato a San Rocco, era sovrastato da una tela di Jacopo Palma il Giovane con il Redentore tra i santi Rocco, Vittoria e Corona. I Gesuiti, subentrati ai Gerolamini nella cura della chiesa, cambiarono la dedicazione dell'altare per celebrare la figura di san Francesco Saverio. Nel 1745 fu collocato sull'altare un dipinto con San Francesco Saverio fra i giapponesi del pittore veronese settecentesco Pietro Antonio Rotari. Segue l'altare delle Sante Lucia e Apollonia, arricchito da una tela del pittore vicentino Alessandro Maganza che raffigura le due Sante al cospetto della Madonna col Bambino attorniata da San Giuseppe e da un angelo. L'altare successivo è dedicato a sant'Antonio di Padova, sul quale dal 1529 aveva il proprio giuspatronato la famiglia Lana de' Terzi. In origine vi era collocato Sant'Antonio da Padova tra i santi Antonio Abate e Nicola da Tolentino, opera del Moretto: la tela, di notevole valore artistico, si trova oggi alla Pinacoteca Tosio Martinengo per ragioni conservative ed è sostituita da una copia tardo ottocentesca di Bortolo Schermini. Sopra la porta laterale è appeso un dipinto di Callisto Piazza con la Natività di Gesù. Segue l'altare di san Francesco Regis adornato da una tela di Simone Brentana che ritrae il santo dedicatario. La cappella di testa della navata è infine presente un altro dipinto del Moretto, la Madonna col Bambino in gloria con i santi Rocco, Martino e Sebastiano, altra opera molto importante che è invece rimasta nella chiesa. Sulla parete sinistra è invece appeso un San Martino che risuscita il figlio della vedova del pittore vicentino Francesco Maffei. Ai lati dell'arco santo si conservano le reliquie di San Gerolamo a sinistra e il mausoleo del benefattore Uberto Gambara, risalente al Quattrocento, a destra. All'altare maggiore fa da sfondo una Natività, copia moderna di un dipinto del Moretto, custodito dalla fine dell'Ottocento nella pinacoteca. Lungo le pareti del coro sono disposte altre tele: lo Sposalizio di Maria di frate Tiburzio Baldini (1609), la Circoncisione di Gesù Cristo di Francesco Giugno, l'Adorazione dei Magi di Grazio Cossali (1610), la Purificazione della Vergine di Antonio Gandino (1660) e la Visitazione di Maria ad Elisabetta di frate Tiburzio Baldini. L'organo dei fratelli bergamaschi Serassi ha sostituito nel 1844 quello cinquecentesco realizzato da Giangiacomo Antegnati, le cui ante erano decorate da Pietro Rosa con la scena della Sibilla Cumana in atto di profetizzare all'imperatore Augusto l'incarnazione di Cristo. Ai lati dell'organo sono presenti l'Annunciazione di Maria Vergine di Antonio Gandino, la Strage degli innocenti di frate Tiburzio Baldini, la Natività di Maria Vergine di Camillo Procaccini e la Presentazione di Gesù al tempio nuovamente di Antonio Gandino. Nella cappella absidale che chiude la navata sinistra, ornata dalla Deposizione e dalla Crocifissione di frate Tiburzio Baldini, è conservato un prezioso Crocifisso in legno degli inizi del Cinquecento, affiancato dalle statue in stucco dipinto della Vergine Maria e di San Carlo Borromeo. Presso l'altare del Crocefisso è presente anche il mausoleo del condottiero Tommaso Caprioli (1575-1608), eretto nel 1620 e riconducibile probabilmente alla scuola dei Carra, costituito da una lunga iscrizione commemorativa bordata da ampie lesene decorate con festoni ed armature a rilievo, sovrastate da un sarcofago con la rappresentazione del giovane conte, colto nel sonno eterno e coronato dal proprio sontuoso stemma gentilizio. È qui conservato solo il cuore del condottiero, morto a Praga nel 1608. Sopra la porta laterale che immette nel chiostro è appesa una Adorazione dei pastori con due figure di gesuiti, riconducibile a un pittore bresciano seguace di Pietro Maria Bagnadore. L'altare successivo è dedicato all'Immacolata Concezione e presenta una ricca decorazione a stucco della seconda metà del Cinquecento, a cornice di una tela di Pietro Maria Bagnadore con i Santi Anna e Gioacchino, alla quale Giuseppe Tortelli aggiunse la figura dell'Immacolata affiancata da angeli. Segue l'altare di San Luigi Gonzaga, un tempo intitolato ai Santi Giorgio e Gottardo e curato dalla corporazione degli armaioli, arricchito da un dipinto di Antonio Paglia che riproduce la Vergine con i Santi Luigi Gonzaga e Stanislao Kostka, protettori del Collegio dei nobili retto dall'ordine. L'altare seguente è intitolato a San Giuseppe e presenta un dipinto della scuola del Moretto con la Madonna della Misericordia circondata dai santi Michele, Giovanni Battista, Bernardo e Maddalena. Conclude l'altare di san Gerolamo, dedicato al santo protettore dei primi fondatori della chiesa, ornato da un dipinto di Paolo Caylina il Giovane con la Madonna delle Grazie con San Gerolamo, Sant'Eusebio e le Sante discepole Eustochia e Paola. Nella nicchia dell'altare si conserva, come preziosa reliquia, il calcagno di San Gerolamo donato al convento delle Grazie dalla nobildonna Giulia Fenaroli. Sulla controfacciata è visibile un grande dipinto di fra Tiburzio Baldini, rappresentante la Strage degli Innocenti. La chiesa conserva anche un ricco patrimonio di suppellettili liturgiche, fra le quali spicca un prezioso reliquiario cinquecentesco in ebano e avorio con statuette della Giustizia e della Temperanza, dono del cardinale Uberto Gambara. Il piccolo santuario, molto sentito e frequentato dalla popolazione, è ciò che rimane dell'antica chiesa di Santa Maria di Palazzolo, costruita nel Duecento degli Umiliati. L'edificio è stato variamente ricostruito nei secoli, in particolare alla fine dell'Ottocento, quando è stato eseguito un rifacimento radicale degli interni su progetto di Antonio Tagliaferri, aiutato da numerosi decoratori, pittori e scultori. Il santuario è oggi il maggior esempio di arte e architettura neogotica ottocentesca in città. Marina Braga, Roberta Simonetto (a cura di), Il quartiere Carmine, in Brescia Città Museo, Contributi di Antonella Busseni, Elena Remi, Brescia, Tip. S. Eustacchio, 2004, SBN IT\ICCU\BVE\0387824. Vito Zani, Maestri e cantieri nel Quattrocento e nella prima metà del Cinquecento, in Valerio Terraroli (a cura di), Scultura in Lombardia. Arti plastiche a Brescia e nel Bresciano dal XV al XX secolo, Milano, Skira, 2011, ISBN 978-88-572-0523-6, OCLC 936152663, SBN IT\ICCU\UBO\3839955. Francesco De Leonardis (a cura di), Guida di Brescia, La storia, l'arte, il volto della città, Brescia, Grafo, 2018, ISBN 9788873859918, OCLC 1124648622, SBN IT\ICCU\BVE\0818515. Antonio Fappani (a cura di), MARIA (S.) delle Grazie, in Enciclopedia bresciana, vol. 8, Brescia, La Voce del Popolo, 1991, OCLC 163182000, SBN IT\ICCU\MIL\0273002. Wikibooks contiene testi o manuali sulla disposizione fonica dell'organo a canne Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla basilica di Santa Maria delle Grazie

Palazzo Martinengo Colleoni di Pianezza
Palazzo Martinengo Colleoni di Pianezza

Palazzo Martinengo Colleoni di Pianezza, già Bargnani, è un edificio storico di Brescia situata lungo corso Matteotti al civico numero 8, in pieno centro storico. La dimora rientra, nel contesto delle antiche mura cittadine, nella quadra di San Giovanni. Edificato a partire dal XVII secolo dai nobili Martinengo Colleoni, costituisce la più monumentale e imponente delle residenze della famiglia Martinengo, oltre che un unicum, da un punto di vista prettamente architettonico e stilistico, nel panorama delle dimore signorili locali. La dimora fu edificata a partire dal 1671 per volere di Gaspare Giacinto Martinengo Colleoni, marchese di Pianezza. Quest'ultimo, infatti, aveva sposato nel 1659 la nobildonna Chiara Camilla Porcellaga che, essendo l'ultima discendente del suo ricco ramo familiare, aveva portato in dote una gran quantità di beni, tra cui figuravano appunto le proprietà su cui sorse, in seguito, il palazzo nobiliare voluto dallo stesso marchese. Parallelamente alla fabbrica di questo nuovo edificio, inoltre, si ebbe anche modo di compiere un riassetto della contrada e dell'isolato attiguo, allora facente parte della terza quadra di san Giovanni: al tempo, infatti, la zona era caratterizzata da una fitta maglia di piccole proprietà, formate da numerose casupole ed edifici. A partire dal 1682, a tal proposito, la famiglia Martinengo intraprese una sistematica e coerente campagna di acquisizioni e demolizioni delle proprietà limitrofe. Questa operazione aveva il fine ultimo, evidentemente, di ampliare i loro possedimenti al fine di "ridurre ad una possibile quadratura" la fabbrica stessa del palazzo. Sin dal 1672 è accostabile alla supervisione del cantiere del palazzo l'architetto Gian Battista Groppi, originario della val d'Intelvi e già attivo per la chiesa di San Lorenzo a Capriano del Colle. Il medesimo Groppi ebbe modo di misurare e verificare l'integrità delle «fabriche» compiute dalle imprese di Antonio Cavallino, documentato dal 1675 al 1699, di Antonio Somalvigo, attivo tra 1686 e 1700, e Silvestro e Gian Battista Avanzi. A riprova di questa sua supervisione dei lavori, il Groppi viene definito in alcuni documenti del 1689 come «Perito de' fabbri murari di questa città». Lo stesso Groppi, a coronamento dei suoi servigi, arrivò a sottoscrivere un dettagliato contratto con Gaspare Giacinto Martinengo nel corso del 1684, ufficializzando così la sua posizione e il suo ruolo. Infatti, dal 1696 in poi, sui documenti inerenti al cantiere del palazzo egli assume il titolo di «architetto». A questa prima fase dei lavori, nondimeno, è riscontrabile un pressoché totale impiego di manodopera intelvese o comunque ticinese, la quale si era già distinta come protagonista della decorazione seicentesca e settecentesca lombarda: si vedano i nomi di Ambrogio Ambrosini, detto «muratore luganese», oppure Pompeo Solari «luganese della terra di Caronna», così come il comasco Giorgio Ferretti, che realizzò per il marchese cinque statue di divinità. Per quanto riguarda la fabbrica del palazzo è deducibile che, a questa data, fosse già stata delineata con chiarezza la planimetria a U dell'edificio, con il corpo orientale più grande affiancato da due ali perpendicolari e della stessa altezza. Ciononostante, il progetto iniziale non è noto né riscontrabile in alcun documento o contratto. Sullo scorcio del XVIII secolo il disegno complessivo del Croppi doveva essere sostanzialmente terminato, sebbene le fonti del caso tacciono circa lo stato d'incompiutezza dell'ala settentrionale, la quale venne ultimata solo molti anni dopo. È proprio in questa fase che si riscontra tra l'altro la presenza di soluzioni stilistiche certamente innovative per il contesto bresciano: la critica e in generale gli studiosi sono concordi nell'individuare come autore di queste composizioni architettoniche il maestro Filippo Juvarra, architetto di corte della famiglia Savoia. Nonostante sia certa la sua presenza in città nel 1729 per una consulenza in merito ai cantieri del Duomo nuovo, e, sebbene il palazzo stesso sia indicato tra le opere dell'architetto in un elenco steso dopo la sua morte, va comunque contestualizzato il ruolo dello Juvarra in merito alla fabbrica del palazzo: pare che egli, infatti, si sia occupato solamente di fornire una consulenza mirata e circoscritta per alcuni elementi architettonici, tra i quali spicca l'atrio della dimora nobiliare, le cui soluzioni stilistiche differiscono da qualunque altra fino ad allora adottata nelle dimore bresciane del tempo e che, in una certa misura, richiamano le cifre artistiche del maestro piemontese Gian Giacomo Planteri riscontrabili per i palazzi Fontana di Cravenzana e Palazzo Benso di Cavour a Torino. Nel 1764 gli eredi Martinengo vendettero il palazzo, che era ancora privo dell'ala settentrionale, per 30.000 scudi a Gaetano Bargnani, che ne mantenne la proprietà per 50 anni; quest'ultimo lo cedette poi nel 1813 al regno italico. Appunto dal 1813 il palazzo cessò di fungere da dimora. Dal 1819 in poi vi fu trasferita la sede del liceo classico Arnaldo, che vi permase stabilmente fino al 1925, quando fu ulteriormente spostata a palazzo Poncarali Oldofredi. Durante gli eventi delle dieci giornate di Brescia, inoltre, il palazzo ospitò la sede del comando di difesa bresciana, guidata da Luigi Contratti e Carlo Cassola; il palazzo fu infatti scelto per motivi strategici, in quanto più riparato dagli attacchi dell'artiglieria austriaca rispetto alla precedente sede del teatro grande. A ricordo di tali avvenimenti è stata anche esposta una lapide commemorativa. Affacciato sulla strada si apre un grande portale ai cui lati sono poste quattro colonne, due per lato di tipo tuscanico; proprio queste ultime sono poste a sorreggere un balcone con balaustra in pietra. L'inquadramento del portale, per le soluzioni stilistiche ed architettoniche, ricorda e rimanda ad altri casi di dimore torinesi, come quelle di palazzo Birago e palazzo Madama. Tale schema competitivo sarà ripreso poi, in maniera ancora più monumentale, anche nel palazzo Martinengo Colleoni di Malpaga. Per questo motivo, forse, si individua anche in queste decorazioni un intervento dello Juvarra, poi replicato anche nelle soluzioni delle finestre laterali all'ingresso ed anche nella tripartizione architettonica a tre ordini orizzontali dell'edificio. L'atrio d'ingresso, in stile piemontese, è stato anch'esso progettato e realizzato con l'aiuto dello Juvarra. L'antica sala da ballo, che oggi funge da aula magna, è uno degli ambienti più notevoli dell'intero palazzo. La decorazione della volta, realizzata negli anni quaranta del XVIII secolo, è attribuibile grazie alle fonti del tempo ed al contratto stipulato nel 1736, all'artista Stefano Orlandi ed a Francesco Monti, e testimonia come all'epoca la pittura bolognese fosse un importante punto di riferimento per i Martinengo; la scena ritrae l'ascesa in cielo di Romolo, a sua volta circondato da una schiera di putti alati e contornato da otto riquadri monocromi, raffiguranti episodi della vita di Remo e Romolo stesso - Romolo e Remo allattati dalla lupa, Remo mette in fuga ed uccide i ladri degli armenti, Remo in catene davanti ad Amulio, Remo uccide Amulio, Romolo traccia il confine della città di Roma, Romolo uccide Tito Tazio e Il ratto delle Sabine. Il tutto è stato ricoperto, a fine Ottocento, da un affresco con soggetto patriottico di Luigi Campini; il rifacimento ottocentesco, tuttavia, lascia intravedere, lungo i bordi, alcuni particolari dell'affresco precedentemente realizzato dal Monti: è possibile osservare infatti un angelo in volo, allegoria della Fama stessa, oltre che Nettuno con il tipico tridente, Ercole, munito di clava ed avvinghiato all'Idra di Lerna, e Mercurio che brandisce lo scettro caduceo. Il nuovo scalone fu realizzato probabilmente a ridosso della fine del Seicento. Ciò è testimoniato dalle fonti d'archivio che riportano diversi interventi e accrediti, come, per esempio, il pagamento nel 1699 "li stucchi nell'andito del scalone"; questi ultimi, tipicamente barocchi nelle decorazioni, dovrebbero corrispondere con quelli ancora in loco. Il palazzo è dotato di una chiesa, ora rimodulata ad auditorium, ed inizialmente dedicata a San Carlo. L'edificio è adiacente al lato nord del palazzo ed è stato rinominato San Carlino, principalmente perché già esisteva, al tempo, una chiesa dedicata al santo in via Moretto; la progettazione dell'ex chiesa è forse attribuita ad Antonio Marchetti, soprattutto in virtù di tutte quelle caratteristiche che ne evidenziano lo stile settecentesco: le due lesene che verticalmente ne scandiscono l'architettura, l'ampia zoccolatura in marmo di Botticino, suddiviso in pannelli quadrangolari, e la decorazione a doppia voluta nella fascia superiore. Nel corso del XIX secolo la chiesa, ormai sconsacrata, fungeva da palestra per il neonato liceo che al tempo ospitava; in seguito tuttavia divenne sede del centro universitario teatrale denominato "La Stanza". Nel 1925 fu appunto acquistata dall'amministrazione comunale e ristrutturata, quindi rimodulata in teatro, inaugurato il 27 novembre 1995. Note al testo Fonti Fausto Lechi, 5: Il Seicento, in Le dimore bresciane in cinque secoli di storia, V, Brescia, Edizioni di Storia bresciana, 1976, pp. 189-209, SBN IT\ICCU\LO1\0548057. Paolo Guerrini, I Martinengo Colleoni, in Una celebre famiglia lombarda: i conti di Martinengo: studi e ricerche genealogiche, Brescia, Tipo-litografia F.lli Geroldi, 1930, pp. 359-394, SBN IT\ICCU\MIL\0157486. Renata Massa (a cura di), Palazzo Martinengo Colleoni di Pianezza e oratorio di San Carlino, in collaborazione con Barbara D'Attoma e Angelo Loda. Coordinamento Emilio Salvatore, Brescia, 2003, SBN IT\ICCU\USM\1335080. Ospitato su Biblioteca digitale lombarda. Sara Parisio, Provincia di Brescia, già Liceo Olivieri, già Istituto Tecnico Commerciale “G. Abba”, già palazzo Bargnani, già Martinengo Colleoni di Pianezza, in Stefania Cretella (a cura di), Miti e altre storie: la grande decorazione a Brescia 1680-1830, Grafo, 2020, pp. 325-328, SBN IT\ICCU\TSA\1689768. Luigi Francesco Fè d'Ostiani, Corso Carlo Alberto, in Paolo Guerrini (a cura di), Storia, tradizione e arte nelle vie di Brescia, Brescia, Figli di Maria Immacolata, 1927, pp. 430-433, SBN IT\ICCU\VEA\1145856. Alessandro Brodini, Il palazzo Martinengo Colleoni di Pianezza a Brescia nell’ambito dell’architettura dei palazzi di Filippo Juvarra, in Elisabeth Kieven, Cristina Ruggero (a cura di), Filippo Juvarra, 1678-1736, architetto dei Savoia, architetto in Europa, vol. 2, Roma, Campisano editore, 2014, pp. 133-149, ISBN 978-88-98229-14-7, SBN IT\ICCU\BVE\0667620. Antonio Fappani (a cura di), PALAZZI della città, in Enciclopedia bresciana, vol. 11, Brescia, La Voce del Popolo, 1982, OCLC 163181589, SBN IT\ICCU\CFI\0293136. Antonio Fappani (a cura di), MARTINENGO COLLEONI, in Enciclopedia bresciana, vol. 8, Brescia, La Voce del Popolo, 1991, OCLC 163182000, SBN IT\ICCU\MIL\0273002. Palazzi di Brescia Martinengo Colleoni (famiglia) Filippo Juvarra Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Palazzo Bargnani Sara Parisio, Palazzo Martinengo Colleoni di Pianezza, poi Bargnani, ora sede del settore trasporti, edilizia, scolastica e interventi sul patrimonio della provincia, su centrobossaglia.it. URL consultato il 2 novembre 2022.

Chiesa di Santa Maria ad Elisabetta
Chiesa di Santa Maria ad Elisabetta

La chiesa di Santa Maria ad Elisabetta è una chiesa di Brescia, situata in via Francesco Lana. Fondata nel Seicento, fu riaperta al culto dopo la soppressione ottocentesca grazie all'interesse dei sacerdoti Giovanni Battista e Massimiliano Averoldi. All'interno si conserva un vasto patrimonio di affreschi e tele, molte di tipo votivo, risalenti soprattutto al Settecento. La chiesa viene fondata nel XVII secolo da una confraternita di Disciplini che curavano il culto della Visitazione della Beata Vergine Maria. In seguito alle soppressioni condotte dalla Repubblica Bresciana, l'edificio viene alienato a privati a, nel 1807, adibito a fabbrica di palle di cannone. Nel 1819 viene riscattata da due sacerdoti bresciani, Giovanni Battista e Massimiliano Averoldi, che ne ottengono la riapertura. Tra il 1867 e il 1897 don Andrea Livragna promuove un importante restauro dell'edificio e dell'oratorio attiguo. L'oratorio, che fin dall'origine, comprendeva alcune stanze e un piccolo cortile, viene ulteriormente ampliato nel 1954 grazie all'acquisizione di casa Brunori in contrada del Carmine, che diventa parte dell'oratorio permettendo l'abbattimento del muro che divideva i due cortili. L'edificio ha dimensioni modeste ed è inserito nel compatto paramento di facciate di abitazioni private che costituisce il lato est della via. La facciata è molto semplice, movimentata da lesene prive di ordine architettonico che, intersecandosi con la trabeazione superiore e con tratti di cornici piane, determinano delle specchiature quadrangolari. Corona il prospetto un frontone triangolare, unico elemento emergente sulle linee di gronda degli altri edifici. Al centro, sopra l'ingresso, si apre una grande finestra a lunetta, principale fonte di luce per l'interno. L'interno della chiesa è ad aula unica, priva di altari o cappelle laterali, ed è coperta da una volta a botte. Il presbiterio è di forma quadrangolare, ad abside piatta, ed è sormontato da una cupola emisferica con lanterna. Le grandi campiture monocrome delle pareti sono state ridipinte all'inizio del Novecento con intonaco verde. Nella fascia inferiore delle pareti laterali, in posizione centrale, sono dipinte a monocromo le insegne papali con, a destra, tralci di vite, a sinistra la croce, le tavole della legge ed una pisside. Nel registro superiore vi sono invece due tele: quella di destra è una Trasfigurazione di Cristo, già attribuita a Tommaso Bona ma da ritenersi in realtà opera più tarda; quella di sinistra è una Madonna in trono col Bambino e un santo, attribuita inizialmente a Pompeo Batoni ma poi autorevolmente riconosciuta come dipinta da Francesco Savanni. Sulla volta sono dipinti cartigli con invocazioni mariane: a destra "VENI COLUMBA", "FEDERIS ARCA", a sinistra "SICUT LILIUM INTER SPINAS" e "ROSA MISTICA". Al centro della volta, in un grande riquadro, è affrescata una Assunzione di Maria di ignoto pittore locale. La decorazione, databile al Settecento, denota l'uso di elementi derivati ancora barocchi quali conchiglie, decorazioni floreali accostate in modo naturalistico e forme geometriche morbide come ovali e volute. Nonostante lo spazio sia piuttosto esiguo e la presenza di elementi decorativi, per contro, molto varia, l'effetto d'insieme risulta comunque armonico ed elegante, soprattutto grazie al largo uso del monocromo e alla resa prospettica attraverso le ombre. La cupola emisferica che copre il presbiterio ospita una decorazione a finto cassettonato, più classicheggiante rispetto alle altre decorazioni della chiesa. Nei pennacchi vi sono altre invocazioni mariane simili a quelle della volta. Le pareti del presbiterio ospitano quattro dipinti votivi di pari dimensione, eseguiti da due artisti differenti di epoca settecentesca. Lungo la parete destra si riconoscono San Stanislao Konstka e San Luigi Gonzaga, mentre a sinistra vi sono una Vergine che consegna il Rosario a San Domenico e Santa Caterina da Siena a fianco della quale si vede la Madonna durante una miracolosa apparizione. Quest'ultimo dipinto è inoltre corredato da quattordici riquadri, posti lungo il perimetro, che narrano eventi miracolosi. L'altare maggiore è sormontato da una pala raffigurante la Visitazione di Maria a Santa Elisabetta attribuita a Sante Cattaneo, ma vistosamente decurtata. Dagli elenchi delle spoliazioni napoleoniche si deduce che arricchivano il patrimonio artistico della chiesa anche un San Pietro e una tela con i Misteri del Rosario collocata entro un'ancona intagliata e dipinta: le due opere sono disperse. Compensano la perdita altre due tele provenienti dalla chiesa di San Giovanni Evangelista: un San Luigi Gonzaga in preghiera davanti al Crocifisso a destra dell'ingresso e una Salita al Calvario in controfacciata, entrambe databili al Settecento. Marina Braga, Roberta Simonetto, Il quartiere Carmine in Brescia città museo, Brescia 2004 Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla chiesa di Santa Maria ad Elisabetta Chiesa di Santa Maria ad Elisabetta, su BeWeB, Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Conferenza Episcopale Italiana.

Chiesa dei Santi Cosma e Damiano (Brescia)
Chiesa dei Santi Cosma e Damiano (Brescia)

La chiesa dei Santi Cosma e Damiano è una chiesa di Brescia, situata all'incrocio tra contrada delle Bassiche e via Cairoli. Edificata all'inizio del Trecento e in seguito ricostruita nel Quattrocento, fino a un ultimo rifacimento nel Seicento, la chiesa ospita importanti opere d'arte, fra le quali due tele di Luca Mombello, una di Giambettino Cignaroli e la preziosa arca di San Tiziano, scolpita nel 1506 e capolavoro della scultura bresciana del periodo. Il chiostro quattrocentesco del monastero annesso, soppresso nel 1797, è noto come "chiostro della Memoria", nome conferito dal poeta Angelo Canossi che qui fondò nel 1916 l'Istituzione della Memoria, scolpendo sulle colonne i nomi dei caduti bresciani della prima guerra mondiale. La chiesa è ancora oggi officiata ed è stata affidata alla cura del Sovrano Militare Ordine di Malta è retta ed animata da un Cappellano dell'Ordine che coordina tutte le attività religiose , secondo le direttive del Capo Sezione di Brescia. Ogni anno viene celebrata in forma solenne la ricorrenza liturgica dei Santi Cosma e Damiano il 26 settembre e di San Giovanni Battista il 24 giugno. La fondazione di una comunità di monache benedettine dedicata ai Santi Cosma e Damiano all'interno del territorio cittadino si deve probabilmente alla presenza longobarda, che alla fine dell'VIII secolo risulta particolarmente impegnata nella creazione di cenobi in città, con il monastero di Santa Giulia, e in provincia con la badia leonense a Leno e il monastero di San Salvatore a Sirmione. Il monastero dedicato ai due martiri siriani viene costruito, come ricordano alcuni documenti del IX secolo, a nord dell'attuale Broletto. Gli stessi documenti forniscono l'immagine di un ente ecclesiastico ben inserito nella vita religiosa cittadina e saldamente ancorato a proprietà fondiarie nella zona ovest del centro urbano e nei territori circostanti. La gerarchia interna alla comunità, funzionale alla gestione economico-amministrativa e alla cura degli uffici liturgici, si apriva alla collaborazione del mondo laicale attraverso la presenza di conversi, che gravitavano attorno al monastero. Nel 1298, ottenuta l'autorizzazione da Papa Bonifacio VIII, il vescovo Berardo Maggi ordina il trasferimento del monastero nella zona occidentale dei Campi Bassi, che nell'espansione della cerchia muraria pianificata pochi anni prima da Alberico da Gambara era stata assorbita nel centro urbano. Le religiose trasferiscono quindi il proprio cenobio lungo l'attuale contrada delle Bassiche, insediandosi nella chiesa di Sant'Agostino ai Campi Bassi e nelle attigue strutture religiose già appartenute agli Eremitani. Le strutture del centro della città, invece, vengono demolite creando la zona nord dell'attuale Piazza del Duomo. Con il passare del tempo, la chiesa si arricchisce di importanti opere d'arte, fra le quali il polittico dei santi Cosma e Damiano di Paolo Veneziano, i cui pannelli superstiti sono oggi alla Pinacoteca Tosio Martinengo, realizzato fra il 1350 e il 1360. Nel Quattrocento il monastero attraversa un periodo di decadenza morale: le monache vivono seguendo una cattiva condotta e mancando di rispetto alla regola e all'osservanza della clausura. Era questa una grave mancanza, soprattutto in seguito alla riforma dell'ordine benedettino, promossa dalla Congregazione di Santa Giustina a Padova a partire dal 1417. Si procede dunque dal 1460 a un rinnovo spirituale e architettonico del cenobio, registrando i primi interventi edili nella chiesa. La situazione viene infine sanata nel 1495 con la definitiva annessione alla Congregazione Cassinese: il monastero perde la sua autonomia e passa in gestione all'abate del monastero dei Santi Faustino e Giovita, trovando nuova prosperità. Durante il Cinquecento si rilevano altri lavori di rifacimento e abbellimento della chiesa, che subisce notevoli rifacimenti nel Seicento. Il 1º ottobre 1797, infine, le monache vengono fatte uscire dal monastero e trasferite nel monastero di Santa Giulia, in vista della soppressione del cenobio, poi difatti decretata il 24 ottobre dello stesso anno dal governo provvisorio napoleonico. Nel 1916 il chiostro del monastero accoglie l'Istituzione della Memoria, fondata dal patriota e poeta dialettale bresciano Angelo Canossi per ricordare il sacrificio dei tanti soldati caduti durante la prima guerra mondiale: i loro nomi vengono incisi in ordine alfabetico sulle colonne marmoree del portico e il chiostro assume il nome di "chiostro della Memoria". Nel 1929 il complesso viene anche restaurato. Nel 2016 la Chiesa è stata affidata alla cura del Sovrano Militare Ordine di Malta. All'esterno, la chiesa si presenta con un aspetto molto complesso e articolato, dato dalla stratigrafia accumulata nei secoli: la migliore vista dell'edificio si ha dall'intersezione tra contrada delle Bassiche e via Cairoli: da qui si vede la chiesa verso il presbiterio, la cui abside sporge ortogonale alla contrada delle Bassiche. Da qui si diparte verso l'alto l'originale muratura gotica della chiesa, a corsi in pietra e laterizio. Lungo via Cairoli, invece, si affaccia l'ingresso alla chiesa costruito in epoca barocca e ancora oggi accesso principale. Il volume dell'edificio appare più in alto e si può scorgere anche parte del retro dell'originaria facciata della chiesa, sul chiostro interno. Sia il paramento murario del presbiterio, sia quello di facciata sono coronati, al vertice superiore e all'estremità dei due spioventi, da pinnacoli in cotto, molto ricorrenti dell'architettura gotica bresciana e presenti, ad esempio, sulla facciata della chiesa di San Giuseppe e su quella della chiesa del Santissimo Corpo di Cristo. Lungo contrada delle Bassiche, invece, si apprezza meglio la maestosa mole del campanile ancora ascrivibile all'architettura romanica e risalente pertanto al Trecento: è interamente in medolo, una pietra biancastra locale, decorato in sommità da bifore già di ispirazione gotica e coronato da archetti ancora tipicamente romanici. All'interno, la chiesa presenta un nartece d'ingresso coperto da tre volte a vela in sequenza, dove si conservano alcuni affreschi molto frammentari con angeli, frutti e finte scanalature di colonne. Attraversato il pronao, si accede al grande vano ottagonale che costituisce l'aula della chiesa, sorretto agli angoli da poderose colonne. L'accesso odierno, però, non avviene più tramite il nartece ma lateralmente, in prossimità dell'abside. Nel nartece, a sinistra dell'ingresso all'aula ottagonale, è conservato un gruppo ligneo composto da San Filippo Neri che stringe per mano due bambini. Sulla parete, una lapide menziona le famiglie Mazzoleni, Migliorati e Bonardi che, nel 1926, in memoria dei loro congiunti, rinnovarono a proprie spese il pavimento della chiesa, adibita durante la guerra ad ospedale. All'interno, invece, si ha l'altare laterale destro con la Natività di Luca Mombello, ricca di vivaci effetti cromatici, mentre l'altare laterale sinistro reca un dipinto dello stesso autore, raffigurante San Benedetto fra i santi discepoli Mauro e Placido. Nella tela, san Benedetto è rappresentato con il testo della Regola in mano, assiso su un trono, ai piedi del quale sono poggiate le tiare dei discepoli che gli stanno accanto. Entrambi gli altari minori sono decorati, nella parte superiore, da angeli marmorei di Giovanni Battista Carboni. Il presbiterio è dominato dall'altare maggiore barocco opera di Giuseppe Cantone, sul quale campeggia la Gloria dei Santi Cosma e Damiano dipinta da Giambettino Cignaroli nel 1766. A fianco vi sono due statue allegoriche della Fede e della Carità, opera di Antonio Calegari. A destra dell'altare maggiore, in corrispondenza dell'organo e della cantoria, si apre la Cappella del Crocifisso, che reca tracce di affreschi e un Crocifisso ligneo di scuola lombarda, opere risalenti entrambe al Quattrocento. A sinistra dell'altare, invece, sotto il controrgano e una simmetrica cantoria, vicino all'attuale ingresso della chiesa, è presente un'altra cappella, all'interno della quale si conserva la preziosa arca di san Tiziano, eseguita nel 1505 nell'ambito dei Sanmicheli e opera significativa della scultura bresciana di inizio XVI secolo. Il sarcofago che accoglieva precedentemente i resti di San Tiziano, risalente al XII secolo, era stato comunque conservato nei secoli e fu smontato solo nel 1885, quando l'architetto Antonio Tagliaferri ne progettò il reimpiego, assemblandolo con altri materiali lapidei provenienti dallo stesso contesto monastico per creare una fontana ornamentale, tuttora murata sul lato est di piazzetta Tito Speri, a pochi metri da dove anticamente sorgeva l'originario complesso nel centro della città, e nota appunto come fontana di san Tiziano. Sopra la cantoria lignea in finto marmo situata alla sinistra del presbiterio in corrispondenza della sottostante cappella di San Carlo, vi è l'organo a canne, costruito nel XIX secolo da Giovanni Tonoli, attualmente non suonabile perché privo di alcuni elementi della manticeria. Lo strumento, a trasmissione meccanica, ha una tastiera di 66 tasti e una pedaliera a leggio di 19. Sorge ancora oggi, annesso alla chiesa, l'antico monastero benedettino, incentrato sul grande chiostro quattrocentesco che conserva la sua struttura porticata, articolata su ben tre livelli. Al piano inferiore le arcate si susseguono lungo i quattro lati, raddoppiandosi nei due ordini superiori, fino ad interrompersi nel tratto prossimo alla chiesa, occupato da una loggetta neogotica. La struttura monastica comprendeva la sala capitolare ed una biblioteca, mentre il refettorio venne realizzato occultando la facciata della chiesa. All'interno di quest'ultimo ambiente, utilizzato durante il Novecento come sala di lettura comunale ed attualmente chiuso al pubblico, si conserva una Ultima Cena di impronta romaniniana. Marina Braga, Roberta Simonetto (a cura di), Verso porta San Nazaro in Brescia Città Museo, Sant'Eustacchio, Brescia 2004 Wikibooks contiene testi o manuali sulla disposizione fonica dell'organo a canne Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla chiesa dei Santi Cosma e Damiano "Le carte del monastero dei Santi Cosma e Damiano (1127 - 1197)", importante relazione sull'archivio del monastero in epoca altomedievale per il Codice Diplomatico della Lombardia medievale sul sito dell'Università di Pavia, su cdlm.unipv.it. URL consultato il 16 dicembre 2010 (archiviato dall'url originale l'8 febbraio 2007).

Chiesa di San Rocco (Brescia)
Chiesa di San Rocco (Brescia)

La chiesa di San Rocco è una chiesa di Brescia, situata sul lato sud di via Capriolo, a metà fra i crocevia con Via Francesco Lana e vicolo Due Torri. Fondata nel Cinquecento dopo un'epidemia di peste, la chiesa si è nei secoli arricchita di opere d'arte fino alla soppressione, avvenuta nel 1797. Fortunatamente, l'edificio non viene riutilizzato per usi impropri e viene ceduto alla parrocchia di San Giovanni, che ne mantiene il decoro. Sede di varie fondazioni tra l'Ottocento e il Novecento, è oggi utilizzata dalla Caritas parrocchiale di San Giovanni. L'interno della chiesa conserva parte delle originali decorazioni e tutti gli originali altari, privati però delle tele che un tempo li arricchivano. La chiesa viene costruita alla fine del Cinquecento per volere della Confraternita di San Rocco, nata in seguito a un'epidemia di peste verificatasi nel 1577. La chiesa venne pertanto dedicata a San Rocco, tradizionale protettore degli ammalati. Il piccolo luogo di culto, semplicemente ricavato all'interno di un edificio residenziale di epoca medievale, viene nel tempo mantenuto e impreziosito dai membri della confraternita, finché nel 1797 viene soppresso e ceduto alla vicina chiesa di San Giovanni. Rimanendo all'interno di proprietà ecclesiastiche, l'edificio non decade in usi impropri, mantenendo così gran parte delle sue ricchezze artistiche originali. Nel 1803 diventa la sede della "Scuola di Carità di San Rocco", destinata all'istruzione delle donne povere del quartiere. L'istituzione, che rimarrà attiva fino alla fine dell'Ottocento, viene affidata alle suore di un vicino istituto scolastico. Nel 1918 la chiesa torna a svolgere il ruolo di sede di un'associazione, questa volta della "Scuola della Buona Massaia", nata per la preparazione delle giovani agli impegni della famiglia, dalla quale avrà origine l'Istituto Pro Familia, ancora oggi attivo con sede in via Calatafimi. La chiesa viene infine sconsacrata alla metà del Novecento. Attualmente, l'edificio è sede della Caritas parrocchiale di San Giovanni, che la utilizza come punto di distribuzione di abiti per i bisognosi. La facciata è assolutamente anonima: la chiesa infatti, fu ricavata all'interno di un normale edificio abitativo popolare e la sua presenza è tradita solamente da una finestra a lunetta, inconsueta nell'edilizia residenziale. Ai lati dell'ingresso, due lapidi ricordano la fondazione, avvenuta all'interno della chiesa, "Scuola di Carità di San Rocco" nel 1803 e della "Scuola della Buona Massaia" nel 1918. L'interno della chiesa è ad aula unica coperta da una volta a botte, originariamente dipinta da Agostino Avanzo e Gian Giacomo Barbelli, che vi lavorarono nel Seicento dipingendovi episodi della vita del santo titolare. Oggi, la decorazione è in gran parte perduta e sopravvive solo sulla parete di fondo del presbiterio, dove si trova un affresco con motivi prospettici di un'abside illusoria alla quale è annessa l'ancona dell'altare maggiore, in marmo venato di rosso e bianco. La soasa è oggi vuota, ma un tempo ospitava una Madonna con i santi Martino e Rocco di Grazio Cossali. Sulla volta del presbiterio, invece, è affrescato un altro esercizio prospettico con la presenza illusoria di una cupola fortemente scorciata, nella cui immaginaria lanterna si inserisce la colomba, simbolo dello Spirito Santo, entro una luminosa raggiera. Della struttura originaria sopravvive anche l'arco santo, decorato nell'intradosso con motivi vegetali a monocromo, oltre il quale, nello spazio della navata, si prolunga la volta a botte. Lungo quest'ultima si trovano ancora numerosi frammenti dell'originale decorazione seicentesca. Alle pareti, invece, sono ancora presenti gli antichi altari laterali, comunque privi delle tele e delle statue che li ornavano, ad esempio la Flagellazione di Cristo di Francesco Bernardi e la statua della Vergine Maria della Speranza. Tra le opere più significative un tempo presenti nell'edificio vi è la Sacra Conversazione del Romanino, eseguita tra il 1510 e il 1513 e donata alla chiesa all'inizio dell'Ottocento dalla nobile Flaminia Monti della Corte. La pala rimase in loco fino alla metà del Novecento quando, sconsacrata la piccola chiesa, venne trasferita nella chiesa di San Giovanni. Marina Braga, Roberta Simonetto (a cura di), Il quartiere Carmine in Brescia Città Museo, Sant'Eustacchio, Brescia 2004 Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa di San Rocco

Palazzo Colleoni alla Pace
Palazzo Colleoni alla Pace

Palazzo Colleoni alla Pace è un edificio storico di Brescia situato al civico numero 10 in via della Pace, in pieno centro storico cittadino. Edificato negli anni centrali del XV secolo per volontà del condottiero bergamasco Bartolomeo Colleoni, è poi passato in eredità alla famiglia dei Martinengo Colleoni e, all'estinguersi della linea dinastica della casata, ai padri della Pace, poi in pianta stabile proprietari del palazzo. L'edificio, rimaneggiato più volte nel corso del tempo, costituisce tuttavia uno dei migliori esempi in città di architettura residenziale quattrocentesca; esso ospita inoltre il più vasto ed importante ciclo pittorico ligneo su soffitto del territorio bresciano. Le condizioni per le quali Bartolomeo Colleoni entrò in possesso di terra a Brescia, e vi fece costruire una dimora privata, sono in realtà non conosciute e poco chiare. Fatto invece certo e riportato anche dalle fonti coeve è che il condottiero bergamasco abbia ricevuto in città, dalla repubblica di Venezia, "la porzione di terreno a sera del vecchio fossato (l’odierna via Pace), compresa fra le contrade uscenti da Porta Palata a nord (corso Garibaldi), e porta S. Agata a sud (via Cairoli)". Bortolo Belotti, insigne biografo del Colleoni, ipotizza nella sua opera che il bergamasco fosse entrato in possesso, all'epoca, di terreni consistenti in vecchie casupole e giardini, sui quali sarà poi edificata la dimora signorile dello stesso condottiero; gli edifici di allora, infatti, erano diventati obsoleti a seguito dell'ampliamento delle nuove mura cittadine, le quali avevano ormai reso non funzionale la presenza della porta interna di san Giovanni, all'altezza della torre della Pallata. Lo studioso Fausto Lechi, d'altro canto, ha teorizzato che la cessione di tale appezzamento di terra possa essere ascritta forse al 1455, visto che nel 1467 furono avviati i lavori di rifacimento e sistemazione delle stesse mura. Potrebbe forse essere inserita in questi dodici anni, dal 1455 al 1467, la realizzazione della dimora del Colleoni, anche se non vi è al riguardo documentazione certa. Questa versione, in ogni caso, concorderebbe anche con la testimonianza fornita dal cronista e storico Marin Sanudo, il quale riporta che entro il 1483 i lavori alle fortificazioni cittadine si erano già conclusi. Tre diverse fonti testimoniano, a loro volta, che la fabbrica del palazzo fu avviata soltanto dal 1455 in poi, e non nel 1450 come si riteneva precedentemente. Una di esse è un atto pubblico nel quale il Colleoni figura come ospite e soggiornante, assieme ad altri nove capitani di ventura al soldo della Serenissima, nella città di Brescia, a partire dalla settimana santa sino al 3 aprile 1450; altra testimonianza ancora è una lettera scritta dal medesimo condottiero bergamasco: in data 7 novembre 1454, appunto, si indirizzava alla repubblica di Venezia lamentando la mancanza di un adeguato alloggio in città, richiedendo anche nella stessa occasione onorificenze ed un consistente stipendio. Terza e ultima fonte al riguardo è una richiesta fatta dal Colleoni agli allora membri del consiglio cittadino: all'alba del 1456, egli presentò infatti domanda per far ricevere acqua alla fontana della sua nuova dimora bresciana; quest'ultimo fatto fa senza dubbio presumere che al tempo i lavori per la costruzione del palazzo fossero già stati avviati, e che anzi fossero già a buon punto. Una prima menzione in cui la fabbrica figura essere ultimata, invece, è la cosiddetta Cronaca di Cristoforo da Soldo, nella quale la stessa residenza bresciana del «Capitanio de la terra» (si allude cioè alla nomina del Colleoni a capitano generale di terraferma) è descritta nel 1465 come «Palazzo Grande», laddove invece le altre proprietà del generale, ossia Malpaga, Cavernago, Cologno, Urgnano e Romano, sono invece chiamati «castelli». Altra testimonianza degna di essere considerata è il testamento redatto dallo stesso condottiero in data 27 ottobre 1475, nel quale egli lascia in eredità la dimora alla figlia Caterina, poi sposa del condottiero bresciano Gaspare Martinengo; l'unione dei due, peraltro, darà poi origine al cosiddetto ramo collaterale dei Martinengo della Pallata. Sempre per le volontà del Colleoni, poi, qualora si fosse estinto il ramo familiare al quale il palazzo era stato lasciato, esso sarebbe stato affidato all'Ospedale della Pietà di Bergamo, cosa che effettivamente si verificò nel 1681: all'estinguersi del già citato ramo dei Martinengo, infatti, l'edificio fu rilevato dalla summenzionata struttura ospedaliera, la quale la vendette a sua volta nel 1683 ai padri filippini della confederazione dell'oratorio di San Filippo Neri, da allora sempre in possesso dell'immobile. Il palazzo nobiliare, appena qualche anno dopo la morte del Colleoni, è inoltre citato da Marin Sanudo nei suoi Itinerari per la terraferma veneziana: tra l'altro, l'edificio è l'unico apertamente lodato dal cronista, in visita a Brescia, e viene appunto descritto come una «caxa magnifica» e un «bellissimo palazo». Ancora, circa tre generazioni dopo, il poeta e scrittore Pietro Spino, biografo del condottiero bergamasco, illustra la situazione della fabbrica del palazzo, nel 1569, come quella di un «Palagio grande, & nobile». All'alba del XVII secolo, invece, viene considerato essere l'unico «gentleman's palace» della città dal visitatore inglese Thomas Coryat, che lo segnala come esempio di «great magnificence» e dunque degno di visita. Sullo scorcio del XIX secolo, nondimeno, il palazzo nobiliare e il suo stesso prestigioso committente sembrano essere stati del tutto dimenticati dalle guide e testi anche locali, forse anche a causa della sua struttura architettonica esterna, al tempo assai rimaneggiata e ridimensionata rispetto alla fabbrica quattrocentesca originaria. A riprova di quanto detto esistono due raffigurazioni dell'edificio in altrettante antiche cartine della città, le quali testimoniano proprio i significativi mutamenti del palazzo: fonte primaria di queste due raffigurazioni è un disegno della facciata della dimora risalente al XVII secolo, cioè a quando i padri della Pace entrarono in possesso della struttura. La suddetta antica raffigurazione mostra come la facciata esterna fosse in origine ben più ampia rispetto all'attuale, la quale fu appunto accorciata in occasione dell'erezione della settecentesca chiesa di Santa Maria della Pace, oltre che per la costruzione, nel XIX secolo, di un teatro. Inoltre il grandioso portale d'accesso al palazzo, abbellito nel Cinquecento da una sfarzosa decorazione marmorea, si trovava leggermente più spostato a sud rispetto al centro della stessa facciata; lo stesso portale, posto appunto in origine all'ingresso del palazzo del Colleoni, fu invece asportato e portato come dote dalla nobildonna Isotta Martinengo Colleoni per il matrimonio con il conte Gaspare Calini, all'inizio del XVII secolo, e quindi usato come ingresso per il palazzo Martinengo della Motella. Grazie alla già citata raffigurazione seicentesca del palazzo eseguita dai padri della Pace, è possibile ricostruire almeno sommariamente l'originaria situazione planimetrica e volumetrica del palazzo del Colleoni. Esso constava in origine di un pianterreno con due ulteriori piani, i quali recavano, per ciascuno, un ordine orizzontale di finestre sormontate da un cornicione che si allungava lungo tutta la facciata in questione; di assoluta importanza, nel contesto del cortile interno, il colonnato costituito da cinque archi a sesto acuto a cui si accede tramite un atrio d'onore. L'impatto complessivo e la visione d'insieme del suddetto cortile, irreparabilmente compromesso nei secoli successivi rispetto alla sua originaria strutturazione, dovevano essere ulteriormente accentuati da un apparato decorativo costituito da numerosi affreschi, dei quali sono ancora visibili lacerti e parziali dettagli. In ogni caso, nessun altro palazzo o edificio civile nella Brescia del Quattrocento poteva vantare una simile dimensione e un complessivo sfarzo come quelli della dimora del Colleoni. Tra gli ambienti accessori del quale il palazzo era fornito, inoltre, vi erano anche ampie stalle per cavalli, alloggi vari, una vasta libreria, nonché una cappella privata. L'ambiente più importante del palazzo, nondimeno, doveva sicuramente essere il salone grande, il quale occupava da solo la maggior parte del primo piano nell'ala orientale della struttura: vi si poteva accedere tramite una scalinata, situata nella parte finale a sud del porticato, e con tutta probabilità essa conduceva prima in un più piccolo salone d'onore. In tal senso è possibile solo avanzare ipotesi, dal momento che la costruzione del già citato teatro in pieno Ottocento ha sconvolto la planimetria di questa porzione di palazzo: la suddetta scalinata è andata infatti perduta, così come almeno due campate della loggia interna e la più piccola sala d'onore, così come riporta anche il Lechi nella sua opera. Un accenno allo sfarzo del salone grande è contenuto nella cronaca del Da Soldo: egli infatti riporta che, al 1465, esso recava numerosi arazzi ed affreschi, oltre che una copertura di sette travi orizzontali, ciascuna recante un imponente lampadario. La testimonianza testé citata, in ogni caso, non menziona alcuna decorazione pittorica nei cassettoni lignei della sala; ciò porterebbe a pensare che, evidentemente, al tempo il grande ciclo decorativo di tavolette lignee contenuto nel grande salone fosse ancora da svilupparsi. I soffitti del palazzo signorile, come già detto, sono il maggiore esempio di decorazione pittorica su tavolette lignee dell'intera provincia; nonostante l'attenzione della critica in generale si sia concentrata unicamente sul grande Salone Bevilacqua, ossia il salone d'onore, anche lo stesso portico del primo piano consta di una considerevole quantità di tavolette lignee decorate, peraltro di una certa qualità esecutiva: sempre lo studioso Fausto Lechi evidenzia le caratteristiche del soffitto ligneo del porticato, costituito da "grandi mensole e travetti di legno scuro". Lo stesso Lechi, analogamente a quanto espresso degli studi effettuati da Carissimo Ruggeri, aggiunge poi che: Il grande salone del palazzo, intitolato alla personalità di Giulio Bevilacqua, è costituito da grandi travi che sono descritte dal Lechi come assai lavorate e che: L'apparato decorativo stesso delle tavole lignee e il loro ordine è rimasto inalterato nel tempo, andando a costituire nel complesso un totale di 306 tavolette, disposte rispettivamente tra il grande salone d'onore e la più piccola sala ad essa antistante poi andata dispersa per la costruzione del teatro ottocentesco. I soggetti raffigurati su queste piccole tavole lignee sono personaggi illustri della mitologia greca e romana, recanti quindi raffigurazioni di celebri eroi, regine e sovrani dell'antichità; la loro elevata posizione sociale e il loro prestigio è deducibile, oltre che dagli sfarzosi abiti con cui sono ritratti, anche in taluni casi da titoli rimasti chiaramente leggibili. Altro elemento saliente della grande decorazione del salone è l'elevato numero di donne presenti sulle suddette tavole lignee, quali Ecuba, Andromaca, Pentesilea, Cassandra, Elena, Poppea, Lucrezia ed altre ancora. Nondimeno, nella scelta iconografica dei soggetti femminili è evidente una certa predilezione per Tisbe, almeno in tre diverse raffigurazioni, proprio per celebrare l'omonima moglie del condottiero bergamasco, Tisbe Martinengo. È comunque interessante notare che le tavolette del salone condividono pressappoco tutte le stesse dimensioni, e che, nondimeno, dal punto di vista stilistico esse presentano importanti innovazioni rispetto ad altri soffitti lignei quattrocenteschi; in tal senso, è evidente infatti la volontà di creare un contesto nel quale la lettura dei pannelli è organizzata in un unico schema compositivo, organico e coerente. Insieme alle scritte che chiariscono l'identità dei soggetti rappresentati, dunque, emerge chiaramente una progettazione dell'apparato iconografico come un tutt'uno, alla luce di una nuova sensibilità, lontana dalla precedente tradizione gotica. È infatti ben evidente un'ispirazione di tale apparato stilistico ai dettami espressi da Leon Battista Alberti nel suo trattato del De pictura, oltre che un'importante influenza esercitata dall'arte di Bonifacio Bembo; in ogni caso, l'esecuzione delle tavolette lignee del grande salone può essere circoscritta tra gli anni 60 del XV secolo e i primi anni 70, sicuramente prima del 1475, anno della morte del Colleoni. Le medesime tavolette, poi, rappresentano indubbiamente un'importante testimonianza, sia a Brescia che non, della nuova sensibilità umanistica emergente all'epoca, nella fattispecie nelle arti visive ed in ambito civile, come appunto nella dimora del Colleoni, che si voleva presentare non solo come condottiero e capitano di ventura, ma anche come mecenate ed uomo di cultura. Questa particolare declinazione di arte civile in chiave classica e antica, con tutta probabilità, fu concepita ed organizzata da un intellettuale al servizio del condottiero quale Antonio Cornazzano, il quale soggiornò presso il Colleoni fino alla sua morte nel 1475. Note al testo Fonti Fonti antiche Pietro Spino, Historia della vita, et fatti dell'eccellentissimo capitano di guerra Bartolomeo Coglione scritta per m. Pietro Spino, Venezia, Grazioso Percacino, 1569, SBN IT\ICCU\BVEE\011337. Cristoforo da Soldo, La Cronaca di Cristoforo da Soldo, in Giuseppe Brizzolara (a cura di), Rerum Italicarum Scriptores, Bologna, N. Zanichelli, 1938-1942, SBN IT\ICCU\PUV\0107271. Marino Sanudo, Itinerario di Marin Sanuto per la terraferma veneziana nell'anno 1483, a cura di Rawdon Brown, Padova, Tip. del seminario, 1847, SBN IT\ICCU\VEA\0154251. Fonti moderne Paola Bonfadini, Palazzo Colleoni (PDF), in Colori di legno: soffitti con tavolette dipinte a Brescia e nel territorio: secoli XV-XVI, Brescia, Starrylink editrice, 2005, pp. 43-49, ISBN 88-89720-19-0, SBN IT\ICCU\PAR\0964493. (EN) Christiane L. Joost-Gaugier, Bartolomeo Colleoni as a Patron of art and architecture: the Palazzo Colleoni in Brescia, in Arte Lombarda, no. 84-85 (1-2), Vita e Pensiero, 1988, pp. 61-72, ISSN 0004-3443, JSTOR 43130226. Antonio Fappani (a cura di), MARTINENGO della PALLATA, in Enciclopedia bresciana, vol. 8, Brescia, La Voce del Popolo, 1991, OCLC 163182000, SBN IT\ICCU\MIL\0273002. Carissimo Ruggeri, I Padri della Pace nel secolo dei lumi, in La chiesa di Santa Maria della Pace in Brescia, Brescia, La Scuola, 1995, pp. 13-40, ISBN 88-350-9081-4, SBN IT\ICCU\MIL\0341264. Antonio Fappani (a cura di), COLLEONI Bartolomeo, in Enciclopedia bresciana, vol. 2, Brescia, La Voce del Popolo, 1974, OCLC 163181903, SBN IT\ICCU\MIL\0272986. Luigi Francesco Fè d'Ostiani, Storia, tradizione e arte nelle vie di Brescia, a cura di Paolo Guerrini, Brescia, Figli di Maria Immacolata, 1927, SBN IT\ICCU\VEA\1145856. Adriano Peroni, L'architettura e la scultura nei secoli XV e XVI, in Giovanni Treccani degli Alfieri (a cura di), Storia di Brescia, II, Brescia, Morcelliana, 1963, SBN IT\ICCU\LO1\1152780. Paolo Guerrini, Una celebre famiglia lombarda: i conti di Martinengo: studi e ricerche genealogiche, Brescia, Tipo-litografia F.lli Geroldi, 1930, SBN IT\ICCU\MIL\0157486. Fausto Lechi, 2: Il Quattrocento, in Le dimore bresciane in cinque secoli di storia, III, Brescia, Edizioni di Storia bresciana, 1974, pp. 236-245, SBN IT\ICCU\MIL\0000927. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Palazzo Colleoni alla Pace Palazzo Colleoni alla Pace, su fondoambiente.it. URL consultato l'11 ottobre 2021. Paola Bonfadini, Tavolette lignee da soffitto – Quando il Rinascimento entrò nelle case, su stilearte.it. URL consultato il 5 novembre 2021.

Chiesa di Santa Maria della Pace (Brescia)
Chiesa di Santa Maria della Pace (Brescia)

La chiesa di Santa Maria della Pace è una chiesa di Brescia, situata a metà dell'omonima Via Pace, non lontano dalla chiesa di San Francesco d'Assisi. Appartiene alla Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri. La fondazione della chiesa di Santa Maria della Pace, nella prima metà del Settecento, si pone al centro di un periodo di grande rinnovo e fervore religioso a Brescia dovuto alla rinascita economica e sociale della città dopo l'epidemia di peste del 1630, in larga parte favorito dall'operato del vescovo Angelo Maria Querini che venne a capo della diocesi di Brescia nel 1728. Nello stesso periodo, anche il cantiere del Duomo nuovo si riapriva, dopo anni di abbandono. La fondazione della chiesa si deve ai Padri Filippini che, nel 1686, lasciano il convento della chiesa di San Gaetano e si trasferiscono in un palazzo vicino alla torre della Pallata, dove viene aperto un nuovo oratorio. Il primo accenno alla chiesa viene fatto in un verbale della Congregazione Universale datato 10 luglio 1697, dove viene registrata la scelta comune, messa ai voti, di edificare il nuovo luogo di culto. Vi erano comunque state delle premesse, evidenziate in particolare da una serie di corrispondenza scambiata tra il 1691 e il 1692 da due filippini, Padre Brunelli e Padre Celerio: quest'ultimo si era recato a Roma per alcune pratiche di culto, ma scriveva a Padre Brunelli, rimasto a Brescia, della bellezza e della varietà delle chiese di Roma, dalle quali si poteva estrarre il meglio per far sì che il progetto della nuova chiesa fosse bello e alla moda con il nuovo stile dell'epoca, il barocco, e con i nuovi dettami della Controriforma. Il proposito viene inizialmente ritardato dalla guerra di successione spagnola, che scoppia pochi anni dopo. Bisogna attendere il 1707 per trovare una nuova annotazione riguardante la fabbrica della chiesa, in un nuovo verbale dei Filippini datato 3 settembre dove si registra l'acquisto del terreno su cui sorgerà, un fondo di proprietà dei nobili Calini che viene pagato 34.100 lire veneziane. Segue una nuova pausa, probabilmente dovuta a difficoltà finanziarie e, soprattutto, per le trattative d'acquisto di un altro fondo dai Masperoni, che doveva completare il terreno sul quale costruire la chiesa. Nel 1719, inoltre, si ha la conferma che il disegno della chiesa è affidato a Giorgio Massari, importante architetto operante nella repubblica di Venezia a quel tempo. Le prime voci annotate sul Libro spese della Fabbrica si rileva la presenza del Massari a Brescia nel marzo 1720, affiancato da Bartolomeo Spazzi, originario di Salò e architetto locale. Si ha anche notizia di un modello in legno della chiesa, del quale ci è giunta solamente la cupola. Completato l'acquisto dei fondi e ottenuto un architetto cui commissionare il progetto, si poteva finalmente dar via al cantiere della chiesa, dopo almeno trent'anni dalla nascita delle prime idee in merito. La posa della prima pietra viene narrata nei Diari dei Bianchi, una famiglia bresciana con numerose presenze negli ordini religiosi e in Vescovado. Il capitolo, al riguardo, scrive: "Adì 15 settembre, Domenica in cui cade la solennità del Nome di Maria, si mette da Mons. Giov. Francesco nostro Vescovo (si tratta di Gianfrancesco Barbarigo) la prima pietra della Chiesa che intendono Fabbricare li Padri della Congregazione dello Oratorio, detti della Pace, e ciò con grande concorso di gente e superbissima musica, e sopra detta pietra, che fu collocata in cornu evangelii (uno dei lati del presbiterio) nel fondamento del Pilone dove dovransi mettere li balaustri dello Altare Maggiore, fu posta una scattola rottonda di piombo con dentro un medaglione di metallo, che da una parte aveva impresso l'arma del Pontefice regnante (era Papa Clemente XI) col nome del medesimo e l'anno del Pontificato, l'arma del Serenissimo Principe con il nome dell'istesso ed anno del Principato, l'arma dell'Ill.mo e Rev.mo nostro Vescovo con il nome del medesimo ed anno del Vescovato, e l'arma dell'Ecc.mo sig. Pietro Grimani [...], uno delli tre Inquisitori mandati dalla Serenissima Repubblica [...]. Dall'altra parte della medaglia vi era il titolo di detta chiesa e l'anno di nostra salute 1720, e si faceva menzione della Congregazione dell'Oratorio. Ne' giorni poi in venire si seguita a lavorare alla galliarda, credendosi abbia a riuscire una delle chiese più celebri che sii in Brescia.... Questa lode da parte dei Bianchi doveva provenire, molto probabilmente, dalla vista del modello in legno della chiesa, sicuramente presente alla posa della prima pietra. Della medaglia, descritta, oltretutto, ne esistono ancora due esemplari. Le due cupole sono alte da terra 52 e 37 m. rispettivamente, la torre campanaria 40 metri. Il diametro della cupola maggiore alla base è di 17 metri.. Il cantiere, avviato dunque nel 1720, dura circa venticinque anni, fino al 1746. Giorgio Massari si mantiene costantemente in contatto con la fabbrica attraverso lettere, inviando disegni e particolari architettonici e decorativi. Visita comunque più volte il cantiere per accertare l'esecuzione regolare delle sue direttive, fin dal primo anno, il 1721: una nota nel Libro delle spese della Fabbrica attesta: "Regalo al sig. Giorgio Massari architetto per viaggi e visita alla fabrica". Altre visite si segnalano nel 1727 e nel 1728, e in quest'ultimo anno invia alla fabbrica il progetto della facciata, che poi non sarà compiuta. Per le trentasei colonne monolitiche, che dovevano essere collocate all'interno della chiesa, il Massari pensa inizialmente di far importare a Brescia una tonalità rosata di marmo rosso di Verona, ma viene fortunatamente scoperta una cava di pietra simile molto vicina alla città, come dimostra la cronaca di Alfondo Cazzago che, mentre descrive lo stato del cantiere al 5 dicembre 1725, annota: Quali colonne sono assai piaciute, e sono di marmo non mai più adoperato, ma fatto scoprire dalla Provvidenza di Dio lontano solo quattro miglia, cioè sul terren di Botticino da Sera. Nel 1729 il cantiere riceve l'importante visita di Filippo Juvarra, chiamato in città per dare consigli su come estrarre le imponenti colonne interne del Duomo nuovo. Sempre il Cazzago riporta: "(Filippo Juvarra) ha veduto ancora la Fabrica della nostra Chiesa qui alla Pace, e l'ha lodata, ed approvata in tutto esprimendosi di non vedervi un difetto. Perciò ha detto che il Duomo sarà lo sposo, e la nostra Chiesa sarà la sposa tutta bella e ornata. Nel 1731 è ancora il Cazzago, che morirà a breve, a darci un nuovo resoconto sullo stato del cantiere: in quell'anno, le colonne sono ormai tutte collocate e una buona parte dell'edificio è costruita fino alla trabeazione di queste. comprese le cappelle laterali. Nello stesso anno, Bartolomeo Spazzi viene sostituito da Giacomo Scalvi alla direzione del cantiere, il quale avvia la fabbricazione dei due altari laterali principali, posti al centro della navata, e dell'altare maggiore: la decorazione scultorea dei tre viene affidata ad Antonio Calegari. Nel 1736 il Massari è nuovamente in visita al cantiere per avviare i lavori di erezione della cupola, parte di notevole impegno dell'intero complesso architettonico. Nel gennaio 1737 giunge ai padri il gradito dono di Angelo Maria Querini: la pala dell'altare maggiore, la Presentazione al Tempio di Gesù di Pompeo Batoni (vedi dopo). Contemporaneamente all'innalzamento della cupola si provvede alla costruzione del campanile: il Massari invia in proposito una lettera molto dettagliata che ne descrive le caratteristiche architettoniche e le misure, mostrando una certa preoccupazione sul fatto che tutto venga eseguito secondo le sue direttive. Nel 1738, rivestita di piombo la cupola, ha inizio la decorazione pittorica degli interni, monocroma color grigio stucco polveroso: Francesco Monti, che già in quell'anno aveva cominciato a dipingere per la chiesa la Madonna col Bambino e San Maurizio, viene chiamato ad affrescare i riquadri della volta con gli Episodi della vita della Vergine, affiancato da Giacomo Zanardi che si occupa invece dell'ornato. I lavori dei due proseguono fino al 1746. Gli anni dal 1739 al 1746, dunque contemporaneamente al lavoro dei due pittori, vedono un'ulteriore, fervida attività decorativa e scultorea all'interno della chiesa. I marmisti di Rezzato e Botticino sono attivamente impegnati nell'assemblaggio degli altari della crociera e dell'altare maggiore, per i quali viene chiesta la consulenza di Giovanni Maria Morlaitero. Le statue di Antonio Calegari, già commissionate anni prima, vengono posizionate nello stesso periodo, o integrate negli altari in via di realizzazione. Il Massari, in concomitanza con questi lavori, invia una ricca serie di disegni per gli interni, ad esempio per il pavimento del presbiterio, per le due cappelle centrali, per i capitelli e per altre decorazioni interne alla chiesa: questi ultimi due, in particolare, vengono eseguiti per mano di Giovanni Zirotti, raffinato scultore locale. È possibile percepire l'effettivo impegno di Giorgio Massari nella fabbrica, così come la sua preoccupazione che tutto si svolgesse secondo le sue direttive, da una lunga serie di annotazioni leggibili in più contratti; in uno, ad esempio, si può leggere: "attenersi al dissegno fissato ed approvato dal sig. Giorgio Massari Architetto", oppure, riguardo ai capitelli, "devono essere fatti secondo le misure e dissegno fatto dal sig. Giorgio Massari", oppure ancora, in una polizza, si dice addirittura che "le sagome, mandate dal sig. Giorgio Massari Architetto in giusta misura, dovranno essere copiate dall'artefice e restar in mano dei Padri Fabriceri le sagome originali per confrontare la giusta esecuzione, non dovendosi prendere un minimo arbitrio sopra di esse [...] e occorrendo qualche difficoltà, avvisare per scrivere, e aspettare la risoluzione dell'architetto". Nel 1745 la chiesa si arricchisce di opere d'arte: il pittore Giacomo Zoboli fornisce la pala di San Filippo Neri genuflesso davanti alla Madonna, Giambattista Pittoni la Madonna col Bambino adorata da San Carlo Borromeo e Pompeo Batoni il San Giovanni Nepomuceno davanti alla Vergine, contribuendo così con un'altra opera oltre a quella già realizzata per l'altare maggiore. Nel 1737 era invece arrivato il San Francesco di Sales cui appare la Madonna di Antonio Balestra, commissionato da Emilia Venazzoli, anonima benefattrice locale. Il completamento delle sculture avviene con 10 statue di Cesare Zani di Rezzato negli anni 1880-1891. Il 24 maggio 1746 la chiesa, ormai completata nei suoi elementi principali, mancando solo i quattro altari laterali, viene consacrata dal vescovo Angelo Maria Querini. Così il Guerrini, sulla scorta della relazione redatta al tempo, descrive la solenne giornata della consacrazione: "Compiuto il tempio, il Cardinal Querini in persona volle consacrarlo il 24 maggio 1746 con lo splendore delle funzioni pontificali, perché fosse solennemente inaugurato con le feste annuali in onore di San Filippo (il 26 maggio è la memoria liturgica di San Filippo Neri) [...] Grandiosi festeggiamenti in quei giorni alla Pace! Splendore di riti sacri, sfarzo settecentesco di addobbi, profusione di musica vocale e strumentale, accademie letterarie, versi, elogi, una folla immensa accorsa ad ammirare la mole e le eleganze architettoniche del nuovo tempio. I Padri Filippini, in riconoscenza al Massari che aveva saputo creare per loro una degna chiesa, gli inviano a Venezia un prezioso reliquiario d'argento. Nel 1756, oltretutto, avviata la realizzazione delle cantorie, viene nuovamente chiesta consulenza al Massari circa i colori da utilizzare e i dettagli architettonici. Posto su due cantorie gemelle ai lati dell'altar maggiore, è uno strumento a tre tastiere nato dall'unione dei due corpi, comunque suonabili autonomamente attraverso due consolle meccaniche, l'uno Amati del 1854 e l'altro Tamburini del 1972. Carissimo Ruggeri,Valentino Volta, Pier Virgilio Begni Redona, Rossana Prestini, Ivo Panteghini, La chiesa di Santa Maria della Pace in Brescia, Brescia, Banca San Paolo, 1995. Archivio di Stato di Brescia, Fondo di religione, Archivio dei Padri Filippini, Libro dei decreti della Congregazione universale dal 1696 al 1747 Ruggero Boschi, Carissimo Ruggeri, Antonio Miceli, Fabio Perrone, Luciano Anelli, Bruno Passamani, La chiesa di Santa Maria della Pace a Brescia, Brescia, Grafo edizioni 1982 Ruggero Boschi, Introduzione Carissimo Ruggeri, I Padri della Pace nel secolo dei lumi Antonio Miceli, Fabio Perrone, Chiesa di Santa Maria della Pace: oggetti sacri del XVIII secolo Luciano Anelli, Bruno Passamani, Carissimo Ruggeri, Le opere pittoriche Libro delle Spese della Fabbrica della chiesa di Santa Maria della Pace: Libro A (1720-1737) e il Libro B (1738-1834), il primo con segnatura F.IV 37 e il secondo F.IV 38 Paolo Guerrini, "Diari dei Bianchi" in Cronache bresciane inedite, Brescia 1934, vol. 5, pp. 35–37 Alfonso Cazzago, Libro che contiene tutti i successi di Brescia scritti da me Alfonso Cazzago Principiando l'anno 1700 sino a quando Dio mi darà questa vita, Archivio Civico Storico, C I 1 Paolo Guerrini, La congregazione dei padri della Pace, Brescia, Scuola Tip. Opera Pavoniana, 1933, SBN IT\ICCU\CUB\0331318. Palazzo Colleoni alla Pace Angelo Maria Querini Pompeo Batoni Giacomo Zoboli Wikibooks contiene testi o manuali sulla disposizione fonica dell'organo a canne Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla chiesa di Santa Maria della Pace

Centro Storico Nord
Centro Storico Nord

Centro Storico Nord è un quartiere del comune di Brescia. L'area del quartiere occupa la parte settentrionale del centro storico cittadino, comprendente i quartieri che fanno riferimento alle parrocchie di san Faustino, di San Giovanni e, parzialmente, di Sant'Agata. Territorio fortemente urbanizzato, i suoi confini sono delimitati a nord da via Leonardo da Vinci, a est da via Castello e da Piazza della Loggia, a sud da via Dante e via Cairoli, a ovest da via Fratelli Ugoni e da via Tartaglia. Il quartiere è ricco di corsi d'acqua, tombinati nel corso degli anni per motivi igienici e di decoro. Lungo il confine settentrionale e occidentale scorre il torrente Garza, nel suo percorso attorno a quello che un tempo era l'area occupata dalle mura venete; fino al Rinascimento scorreva lungo via san Faustino, il cui andamento sinuoso ricorda quello del torrente. Il canale Bova scorre lungo via Nino Bixio, mentre il canale Dragone, segue l'andamento della prima cerchia muraria medievale in via delle Battaglie. Il toponimo è di origine moderna, concepito per distinguere il quartiere dagli altri due del centro storico della città: Centro Storico Sud e Brescia Antica. Nel 1972, è riportato come "Centro Nord". La prima urbanizzazione dell'area corrisponde allo sviluppo del quartiere del Carmine, che prendeva nome dalla chiesa omonima: nato come borgo esterno alle mura, nel Duecento fu inglobato nella prima cerchia muraria. Fino ancora al XIX secolo, il quartiere era caratterizzato da numerose attività produttive, come ricordato da alcuni nomi stradali, ad esempio "Rua Confettora", per la conceria delle pelli, e "Rua Sovera", per la costruzione dei mastelli. Dal 1859 al 1923, l'area occupata dal quartiere del Centro Storico Nord corrispose alla parte settentrionale del II Mandamento di Brescia con annessa Pretura. Negli anni Trenta del Novecento, la zona fu coinvolta parzialmente in un piano di modifiche urbanistiche che avrebbe dovuto portare alla rettificazione di via San Faustino, ma che si limitò all'abbattimento delle abitazioni a ridosso di Palazzo della Loggia, costituendo lo slargo detto del "Formentone". Nel luglio 1972, dopo l'approvazione del consiglio comunale, fu istituito il consiglio di quartiere di "Centro Nord". La prima elezione si tenne il 24 novembre 1974. Tre anni dopo, il consiglio comunale approvò il regolamento predisposto dalla Giunta Trebeschi per l'attuazione delle nuove circoscrizioni, secondo la legge 278/1976. La Nona circoscrizione occupò l'intero centro storico originario, assorbendo il quartiere Centro Nord assieme agli altri due di Brescia Antica e di Centro Storico Sud. I quartieri furono mantenuti solo per finalità statistiche. Nel 2007, la Giunta Corsini riorganizzò le circoscrizioni. A partire dalle elezioni amministrative dell'anno seguente, tutti e tre i quartieri entrarono a far parte della nuova Circoscrizione Centro. L'esperienza fu di breve durata, a seguito dell'abolizione delle circoscrizioni per i nuovi limiti imposti dalla legge 191/2009. Nel 2014, la Giunta Del Bono avvertì la necessità di costituire degli organi consultivi di rappresentanza per le realtà locali e decise di riattivare i consigli di quartiere. Le prime elezioni del nuovo organismo si tennero il 14 ottobre. Chiesa di Sant'Agata Chiesa di San Carlino, adibita a sala conferenze. Chiesa di San Faustino in Riposo Chiesa dei Santi Faustino e Giovita Chiesa di San Giorgio Chiesa di San Giovanni Evangelista Chiesa di San Giuseppe Chiesa di Santa Maria del Carmine Basilica di Santa Maria delle Grazie Chiesa di Santa Maria della Pace Monte di Pietà nuovo Monte di Pietà vecchio Palazzo della Loggia Caserma Randaccio Nell'area del quartiere sono operative tre parrocchie di religione cattolica, appartenenti alla Diocesi di Brescia: quella di san Faustino, quella di San Giovanni e, parzialmente, quella di Sant'Agata. In via dei Mille è presente il Tempio della Chiesa evangelica valdese. Nel quartiere è presente una scuola primaria pubblica, la «Muzio Calini». La storica scuola gestita dalla Congregazione di San Filippo Neri, presso la Chiesa della Pace, chiuse nell'estate del 2018. L'Università degli Studi di Brescia ha alcune sedi nell'area del quartiere in quanto utilizza Palazzo Calini ai fiumi per i corsi di Giurisprudenza, l'ex Monastero di santa Chiara per quelli di Economia, il Palazzo delle Mercanzie per alcune aule di studio e l'ex Monastero di San Faustino per la segreteria. La metropolitana di Brescia corre in sotterranea lungo via san Faustino. All'interno del territorio assegnato al quartiere sono presenti le stazioni di San Faustino e Vittoria. Il quartiere è servito dalle linee 2 (Pendolina - Chiesanuova), 7 (Caino - Roncadelle), 13 (Gussago - Poliambulanza), 15 (Montini / Mompiano - Noce), 17 (Costalunga - Castel Mella) e 18 (Piazzale Beccaria - Bornata) della rete di trasporti urbani. Lisa Cesco, Diego Serino, 30 anni di partecipazione: l'esperienza delle circoscrizioni a Brescia. Circoscrizione Centro, Brescia, Comune di Brescia, 2010. Maurillio Lovatti, Marco Fenaroli, Governare la città. Movimento dei quartieri e forze politiche a Brescia 1967-77, Brescia, Nuova ricerca editrice, 1978. Le elezioni dei Consigli di Quartiere a Brescia nel 2014 (PDF), su comune.brescia.it. URL consultato il 12 dicembre 2020 (archiviato dall'url originale il 13 giugno 2022). Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Centro Storico Nord