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Grattacielo di Rimini

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Rimini, Grattacielo, 5
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Il grattacielo di Rimini è l'unico grattacielo della città romagnola di Rimini. I primi scavi per la realizzazione delle sue fondamenta ebbero inizio nell'ottobre 1957, mentre i lavori di costruzione della struttura (su progetto dell'ingegnere istriano Raoul Puhali) terminarono nel 1959. Nel 1960 furono completati gli allestimenti degli appartamenti agli ultimi piani. Si trova nelle vicinanze della stazione ferroviaria e a circa 300 metri dalla spiaggia, in una posizione di collegamento tra il centro storico e il mare. Ha un'altezza di circa 101,50 m e dispone di 28 piani fuori terra (abitabili dal primo al ventisettesimo), che includono 180 appartamenti ed uffici, serviti da 6 ascensori rapidi in grado di raggiungere l'ultimo piano in 50 secondi e da un montacarichi di servizio, su di un podio destinato a svariati esercizi commerciali. Questo avancorpo ospitò negli anni settanta, al primo piano, la scuola media statale n. 4 di Rimini. Dispone inoltre di portineria 24h, telecamere di sicurezza e un'autorimessa da circa 70 posti auto al piano interrato. Nel 2017 il regista Marco Bertozzi ha presentato il film-documentario intitolato "Cinema Grattacielo" dopo 10 anni di riprese, interamente girate all'interno dello stabile e interpretate da alcuni abitanti del grattacielo di Rimini. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Grattacielo di Rimini (EN) Grattacielo di Rimini, su Skyscraper Center.

Estratto dall'articolo di Wikipedia Grattacielo di Rimini (Licenza: CC BY-SA 3.0, Autori, Immagini).

Grattacielo di Rimini
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Chiesa di San Nicolò al Porto
Chiesa di San Nicolò al Porto

L'antica chiesa di San Nicolò al Porto era una chiesa cattolica di Rimini, situata nella zona del porto. In precedenza dedicata a San Lorenzo, cambiò nome nel XII secolo con l'arrivo delle reliquie di San Nicola di Bari. Già parzialmente ricostruita alla fine del XVIII secolo, fu definitivamente rasa al suolo durante i bombardamenti del 27 novembre 1943, che lasciarono in piedi solo il campanile e la Sala Celestina con affreschi di scuola riminese. Nel dopoguerra è stata costruita una nuova chiesa che porta lo stesso nome, al cui interno si continuano a conservare le reliquie del santo. Nel 1087 le reliquie di San Nicola erano state trafugate dalla chiesa di San Nicola a Myra (attuale Turchia) e portate a Bari. Nell'estate 1177 parte di esse, precisamente l'omero sinistro che appunto manca nelle spoglie del santo presenti a Rimini, vengono trafugate da un vescovo tedesco di nome Gulto di passaggio nella città pugliese. Il veliero che avrebbe dovuto riportare in Germania il vescovo e la reliquia fa tappa a Rimini, non riuscendo più a ripartire. Considerandolo un segno divino, il vescovo confessa il furto e deposita la reliquia nella chiesa di San Lorenzo, situata fuori le mura della città, nella zona portuale, e frequentata prevalentemente da marinai. Dopo questo avvenimento, ritenuto miracoloso, il nome della chiesa viene cambiato in San Nicolò, dalla forma contratta del nome latino del santo, Nicolaus. Nel 1338 fu concesso ai monaci celestini di stabilirsi fuori dalle mura, nella zona portuale della città di Rimini. Non è ancora chiaro se continuarono a usare, abbellendola, l'originaria chiesa di San Nicolò o se ne costruirono una nuova. Poco si sa anche dell'attiguo convento, di cui è nota solo la planimetria da un foglio catastale di metà XVIII secolo. Al periodo di poco seguente l'arrivo dei celestini sono datate le decorazioni dell'abside. Durante la peste del 1630, che risparmierà la città, l'attiguo convento è adibito a lazzaretto. Il 6 luglio 1797 il convento fu chiuso come da decreto napoleonico sulla soppressione degli ordini monastici, a cui seguì il 23 agosto dello stesso anno l'erezione della parrocchia di San Nicolò al Porto. Da una mappa recuperata nell'archivio storico parrocchiale è stato possibile ricostruire la chiesa trecentesca, che come detto precedentemente non è chiaro se fosse coincidente o meno con l'edificio in cui il vescovo Gulto depositò le reliquie di san Nicola. La chiesa era a navata unica con la facciata rivolta a sud-ovest. L'edificio era dotato di due ingressi laterali in quanto a un certo punto, in epoca sconosciuta e per motivi non noti, contro la facciata era stato costruito un altro edificio. Sul lato sud-est vi era una cappella dedicata alla Madonna. Il campanile, situato sul lato porto, era probabilmente un'antica torre di difesa e veniva usato anche come faro. L'abside aveva una volta a crociera, contenente un ciclo di affreschi trecenteschi di scuola riminese con episodi della Genesi. L'edificio iniziava a versare in condizioni precarie, nonostante i lavori di restauro del 1825 e il rifacimento della pavimentazione nel 1837. Il 17 gennaio 1863 iniziano i lavori di demolizione, che salvarono il campanile e l'abside. Quest'ultimo fu trasformato nella cosiddetta Sala Celestina, andando ad ospitare la teca con la reliquia di San Nicola. Il progetto fu affidato all'ingegnere Filippo Morolli, già autore della Chiesa di San Gaudenzo, anch'essa in seguito distrutta dai bombardamenti. La nuova chiesa di San Nicolò si differenziava dall'originale a partire dall'orientamento della facciata, rivolta a nord-ovest in direzione del porto canale. L'inaugurazione avvenne il 1º novembre 1863. Durante i restauri del 1925, che seguirono il terremoto del 1916, furono riportati alla luce gli affreschi trecenteschi della Sala Celestina. Il 27 novembre 1943 gli alleati bombardarono Rimini. La chiesa di San Nicolò al porto fu letteralmente rasa al suolo. Si salvarono solo il campanile e la Sala Celestina. Nel dopoguerra fu eretta una nuova chiesa, inaugurata il 10 aprile 1955, giorno di Pasqua. La nuova chiesa ha la facciata rivolta in direzione opposta alla precedente, verso la stazione. Al suo interno conserva un Crocifisso quattrocentesco, recuperato dalle macerie al termine della guerra. Gli affreschi trecenteschi, nonostante alcuni tentavi di restauro, rimangono in condizioni molto precarie. L'edificio è chiuso al pubblico dalla primavera del 2019 a causa di problemi strutturali. Le condizioni precarie della struttura hanno fatto ipotizzare, come alternativa a un restauro, una demolizione e conseguente ricostruzione in minori dimensioni, con salvaguardia del campanile, degli affreschi trecenteschi e delle parti murarie sopravvissute più antiche. I tre altari, quello maggiore dedicato a San Nicolò e a Sant'Antonio da Padova, quello laterale dedicato a San Pietro Celestino e il terzo dedicato a San Gioacchino e a Sant'Anna, erano tutti opera del Centino. Tra i quadri conservati all'interno alla seconda metà del Settecento vi erano: un San Benedetto con fanciullo e una Morte di San Pietro Celestino, entrambi di Matteo Zamboni, allievo del Cignani, un San Pietro Celestino che rinuncia al papato e un San Mauro che soccorre San Placido, entrambi del Garofanini, allievo del bolognese Franceschini. Sempre opera del Garofanini erano i due San Pietro e San Nicolò laterali all'altare maggiore. Carlo Francesco Marcheselli, Pitture delle Chiese di Rimino descritte dal Signor Carlo Francesco Marcheselli, Rimini, Stamperia Albertiniana, 1754, ISBN non esistente, IT\ICCU\RMLE\008656. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa di San Nicolò

Domus del chirurgo
Domus del chirurgo

La domus del chirurgo è un'abitazione romana della seconda metà del II secolo, scoperta nel 1989 a Rimini in piazza Luigi Ferrari, e aperta al pubblico il 7 dicembre 2007; qui sono stati rinvenuti mosaici, affreschi e reperti, tra cui una delle serie più complete di strumenti chirurgici di età romana, conservate al Museo della città di Rimini. Il sito archeologico della domus del chirurgo mette in luce anche successive stratigrafie archeologiche, comprendendo delle mura di età imperiale, un'abitazione palaziale e parte di una casa bizantina altomedievale. Il sito archeologico rappresenta una sintesi storica delle vicende edilizie della città a partire dal I secolo a.C. fino all'età moderna: gli elementi di maggiore interesse sono identificabili in quattro settori: il comparto della domus del chirurgo, le mura di età imperiale, l'abitazione palaziale risalente in un periodo compreso tra la tarda romanità e l'età gota, e infine la parte di una casa bizantina altomedievale. A seguito del restauro, il complesso archeologico è stato musealizzato in sito per le parti non trasferibili e all'interno del Museo di Rimini per i reperti archeologici rinvenuti. Nella primavera del 1989, durante lo sradicamento di un albero nell'ambito della sistemazione dei giardini di piazza Ferrari, si scoprirono dei frammenti di affresco intrappolati nelle radici dell'albero, uno dei mosaici e ruderi di età romana. Al ritrovamento seguì l'intervento della Soprintendenza Archeologica e del Museo della città di Rimini; dopo i primi accertamenti fu eseguito un sondaggio che mise alla luce delle strutture murarie, una porzione di mosaico e dei manufatti in bronzo, il che diede inizio all'indagine sistematica dell'area. Le campagne di scavo hanno esplorato un'area di 700 m², il cui sottosuolo ha rivelato i primi mosaici a circa 2,5 m di profondità dal piano di campagna, oltre che stratificazioni e varie strutture databili a partire dall'età tardorepubblicana. L'attuale struttura museale in sito fu aperta nel dicembre del 2007 e consente al pubblico di vedere i ritrovamenti camminando su piattaforme sospese trasparenti. Il nome con cui è noto il sito archeologico "domus del chirurgo", si deve al corredo chirurgico rinvenuto: da una mensola originariamente posta sulla parete era caduta una scatola di bronzo, da cui si era rovesciato un gruppo di strumenti in ferro e bronzo utilizzati dal medico per i suoi interventi, pinze, bisturi, scalpelli, sonde e altri attrezzi, nonché bilance e misurini di bronzo; e ancora vasetti in terracotta, e un gruppo di vetri ormai irriconoscibili, pertinenti a fiale e ad altri contenitori di uso farmaceutico. La domus era collocata nei pressi del bacino portuale della foce del fiume Marecchia, prima che il suo percorso fosse deviato verso nord e prima che la linea di costa si spostasse di 1,5 km verso il mare. La domus nel suo complesso aveva un perimetro trapezoidale, che misurava circa 30 m in larghezza con un massimo di 21 m in profondità, con una superficie di 450 m², metà dei quali scoperti; in realtà l'edificio comprendeva anche il corpo residenziale anteriore, che era il componente primario, arrivando così a ricoprire un'area superiore a 1000 m². Della domus sono visibili in planimetria le varie stanze: il vestibolo, cioè l'ingresso, che si affacciava su un cardine romano minore (l'attuale Corso Giovanni XXIII); la prima stanza usata come prolungamento dell'ingresso, che attraverso una porta faceva accedere al cortile e probabilmente al piano superiore; il cortile-giardino, in cui sono stati ritrovati il piede della statua di Ermarco e un bacile marmoreo; il corridoio, che metteva in collegamento la prima stanza con le restanti e dava sul cortile; il triclinio, ambiente dedicato ai pasti, caratterizzato dalla presenza di tre letti disposti intorno a una mensa centrale; la taberna medica composta da: il cubicolo, posizionato successivamente al triclinio, ambiente provvisto di un letto dedicato al ricovero dei pazienti, dotato di una finestra che si affacciava sul corridoio e di una porta che collegava alla stanza di Orfeo; la stanza di Orfeo, in cui è stata rinvenuta la collezione di strumenti medici, tra cui anche quelli chirurgici; una sala di ricevimento; i locali di servizio, tra cui una latrina con caditoia di scarico, un sudatorium o laconicum con riscaldamento pavimentale a ipocausto, su suspensure e un sistema di riscaldamento parietale a tubuli. Sezioni della domus del chirurgo Il piano superiore, ora non più esistente in quanto crollato con l'incendio, conteneva altre stanze residenziali affrescate e mosaicate, probabilmente una dispensa sopra al triclinio e una mensa con cucina. La domus fu ristrutturata nella seconda metà del II secolo, come è testimoniato dalla zona del peristilio, al fine di ricavare nuove aree abitative; successivamente fu abbandonata a causa di un repentino incendio che la distrusse completamente, testimoniato dal fatto che non siano stati messi in salvo una cassetta lignea contenente 89 monete romane e gli strumenti chirurgici ritrovati tra le macerie, oltre al fatto che questi ultimi mostrino segni di fusione dovuta al calore. La datazione dell'incendio è stata fatta sulla base delle monete ritrovate, le più tarde risalenti agli anni 257 e 258. Si suppone che il nome del medico fosse Eutyches sulla base del graffito, tracciato con uno stile di scrittura del III secolo, presente sull'intonaco decorativo del muro del cubicolo nel posto dove era appoggiato il letto, probabilmente inciso da un paziente per ringraziarlo delle cure: Dai ritrovamenti, dai mosaici, dalle decorazioni e dalle numerose scritte in greco ritrovate sul vasellame, si ipotizza che Eutyches fosse proveniente dal mondo greco-orientale, dove probabilmente ha anche studiato, essendo presenti le più grandi scuole di medicina del tempo. A supportare l'origine ellenica di Eutyches ci sono alcuni oggetti che teneva in casa tra cui: un pinax, un quadretto policromo in pasta di vetro con rappresentati tre creature marine, difficilmente reperibile sul mercato occidentale, di cui si ha un esemplare simile a Corinto; due vasetti che contenevano erbe medicinali, i cui nomi sono incisi in greco sugli stessi; un piede della statua di Ermarco, filosofo successore di Epicuro, ritrovata nel giardino della domus; una mano votiva in bronzo associata al culto di Giove Dolicheno, divinità di origine siriana settentrionale venerata dai soldati romani dal II secolo. Inoltre, lo strumentario chirurgico ritrovato suggerisce la specializzazione militare del medico, essendo principalmente rivolto alla cura di traumi e ferite, come il ciatisco di Diocle (un cucchiaio per l'estrazione di punte di freccia), e esclusivamente degli uomini, non delle donne, in quanto mancano strumenti da ostetricia. All'interno della domus sono stati ritrovati centinaia di reperti, ora conservati nella sezione archeologica del Museo della città di Rimini: ferri chirurgici, vasellame da cucina, monete, una consistente serie di decorazioni e mosaici. Gli strumenti chirurgici ritrovati a Rimini rappresentano a oggi la più ricca collezione chirurgica antica del mondo, per varietà e numero degli oggetti: circa 150 pezzi utilizzati per intervenire su ferite e traumi ossei, più una serie di vasetti utilizzati per la preparazione e la conservazione dei medicinali. Nel corredo chirurgico spiccano vari bisturi, sonde, pinzette, tenaglie odontoiatriche, leve ortopediche, un trapano a bracci mobili e diversi ferri utilizzati per esportare calcoli urinari. La tipologia dei ferri chirurgici indica che il chirurgo riminese era un medico militare. Uno dei ritrovamenti più importanti è il cucchiaio di Diocle, pezzo unico al mondo, che serviva per estrarre le punte di freccia conficcate nel corpo: un manico di ferro termina con una lamina a forma di cucchiaio, forata al centro, in modo da bloccare ed estrarre la freccia. Era utilizzato dai medici che operavano sul campo di battaglia. Nel triclinio è stato invece ritrovato il pannello di pasta di vetro con raffigurati i tre animali marini. In mezzo alle macerie del crollo del secondo piano, sopra lo studio medico, sono state trovate 89 monete romane in una cassetta lignea, quasi tutte d'argento. Gli scavi archeologici hanno riportato alla luce molti mosaici ancora intatti e affreschi policromi. Tra i mosaici spicca Orfeo tra gli animali, ritrovato nella taberna medica, che vede al centro Orfeo circondato da animali in ascolto. I mosaici furono realizzati prevalentemente con la tecnica dell'opus tessellatum e dell'opus reticulatum. Mosaici della domus del chirurgo Ilaria Balena e Marco Sassi, La domus del chirurgo e il complesso archeologico di piazza Ferrari, 2. ed, La Pieve, 2009, ISBN 978-88-904644-0-9, OCLC 1075912945. Stefano De Carolis, Ars medica : i ferri del mestiere : la domus del Chirurgo di Rimini e la chirurgia nell'antica Roma, Guaraldi, 2009, ISBN 978-88-8049-351-8, OCLC 876597506. Cristina Giovagnetti, La Domus del Chirurgo - Arredi e suppellettili, in Ariminum, n. 6, Novembre - Dicembre 2017, p. 21. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Domus del chirurgo Domus Rimini, su domusrimini.com. Alberto Angela, La domus del chirurgo in "Creature fantastiche" - Passaggio a Nord Ovest, Rai, 9 gennaio 2021, a 14 min 28 s. Gli scavi di Piazza Ferrari e la domus "del Chirurgo": duemila anni di storia riminese, su archeobologna.beniculturali.it. URL consultato il 24 luglio 2008 (archiviato dall'url originale il 4 aprile 2011).

Chiesa del Suffragio (Rimini)
Chiesa del Suffragio (Rimini)

La chiesa di San Francesco Saverio, più nota come chiesa del Suffragio, è una chiesa cattolica del centro storico di Rimini, fondata a inizio Settecento dai Gesuiti. L'annesso collegio è dal 1981 sede del Museo della città di Rimini. I Gesuiti erano giunti a Rimini nel 1627 e nel 1631 fondarono la prima chiesa, dedicata anch'essa a San Francesco Saverio, costruita nell'ex-granaio di un cittadino benevolente. Nel 1655 i Gesuiti, beneficiati del lascito di Cesare Galli, protonotario apostolico, iniziarono a pensare alla costruzione di una nuova chiesa, che sarà disegnata su modello della romana Chiesa del Gesù. Non certa è l'identità dell'autore del progetto, attribuito da tradizione a Giovan Francesco Buonamici o al conte Francesco Garampi, quest'ultimo deceduto nel 1714. Altri lo attribuiscono ad Alfonso Torreggiani, che tra il 1746 e il 1755 progettò l'annesso collegio. I lavori iniziarono nel 1719 e poterono dirsi terminati nel 1721. La facciata rimane però priva del rivestimento lapideo, rimasto incompiuto a seguito della soppressione della Compagnia di Gesù. La chiesa fu gravemente danneggiata dai bombardamenti Alleati durante la seconda guerra mondiale e ricostruita nel dopoguerra. L'annesso collegio, adibito ad ospedale per circa un secolo e mezzo, dal 1981 è sede del Museo della città di Rimini. La chiesa ha una pianta a croce latina, con interno a navata unica fiancheggiata da cappelle. L'organo Zanin è stato restaurato nel 2007. Elenco delle opere Adorazione di San Francesco Borgia, Pietro Rotari Gloria di Sant'Ignazio, Pietro Rotari Martiri Gesuiti Giapponesi, Guido Cagnacci Santa Cecilia ed il Bambin Gesù, Andrea Barbiani Sant'Emidio protegge Rimini, Giuseppe Soleri Brancaleoni (1793) San Nicola e le anime del Purgatorio, ignoto del XVIII secolo Due Annunciazioni di scuola toscana Altare marmoreo dedicato a Sant'Ignazio di Loyola, Giovan Francesco Buonamici Nevio Matteini, Rimini. I suoi dintorni. La riviera di Romagna, Rimini, Cappelli, 1966. Luigi Tonini, Guida del forestiere nella città di Rimini del bibliotecario dottor Luigi Tonini, Tipografia Malvolti ed Ercolani, 1864. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa del Suffragio Chiesa del Suffragio Rimini, su suffragio.it. URL consultato il 6 maggio 2021 (archiviato dall'url originale il 6 maggio 2021).

Museo della città di Rimini
Museo della città di Rimini

Il Museo della città di Rimini è situato in via Tonini (angolo piazza Ferrari), nell'ex-convento dei Padri Gesuiti ed ex-Ospedale Civile. Aperto nel 1981 e dedicato a Luigi Tonini, sorge accanto alla coeva chiesa del Suffragio. L'edificio fu progettato, come convento e collegio dei Gesuiti, da Alfonso Torreggiani e realizzato tra gli anni 1746 e 1755. Dopo la soppressione della Compagnia di Gesù, per circa un secolo e mezzo l'edificio fu usato come ospedale di Rimini. A seguito dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, si è resa necessaria una ristrutturazione, che è stata guidata dall'architetto Pier Luigi Foschi, che fu poi direttore del museo dal 1985 al 2010; i lavori di recupero e restauro hanno riportato all'antico splendore il vecchio convento, che può essere considerato un patrimonio culturale italiano, in seguito scelto come sede del Museo cittadino. Il museo è diviso in diverse sezioni, tra le cui sono degne di nota la sezione archeologica e quella medievale. Un ampio spazio è dedicato alla pittura del Trecento ed ospita, oltre a numerose opere della Scuola riminese, anche opere di Giovanni Bellini, Domenico Ghirlandaio, Guercino, Guido Cagnacci e altri. La sezione archeologica espone i reperti della domus del chirurgo, un'abitazione romana della seconda metà del II secolo, scoperta nel 1989 in piazza Ferrari a pochi metri dal museo. Di eccezionale importanza per numero e varietà gli strumenti chirurgici, che rappresentano uno dei più importanti corredi di attrezzi medici mai rinvenuto. Sono presenti numerosi mosaici di epoca romana, di particolare bellezza ed importanza. Dal 2010 il museo ospita una sezione dalla preistoria alla tarda antichità, partendo da un milione di anni fa con i segni della presenza dell'homo erectus sul colle di Covignano, al tempo lambito dal mare che sommergeva il piano su cui sarebbe stata costruita Rimini; qui sono state trovate selci scheggiate e levigate (cuspidi di freccia, lame foliate, asce e martelli forati), paragonabili a quelle ritrovate nel giacimento preistorico di Cà Belvedere di Monte Poggiolo a Forlì, oltre alle prime forme ceramiche (con superficie liscia o decorata, in forma di ollette, scodelle o vasi a fiasco per contenere semi e liquidi) che segnano la nuova economia agro-pastorale, ai ripostigli dell'età del bronzo di oggetti occultati da commercianti-fonditori. Alcune sale del museo vengono allestite per ospitare mostre temporanee ed esposizioni culturali. Giovanni Bellini, Pietà, 1470 circa Giovanni da Rimini, Giudizio Universale; Crocifisso Domenico Ghirlandaio, Pala di San Vincenzo Ferrer, iniziata da Domenico e conclusa nel 1496 dai collaboratori della bottega: spetta probabilmente a David Ghirlandaio la figura di San Vincenzo Ferrer, a Sebastiano Mainardi il San Sebastiano e a Francesco Granacci il San Rocco. Guercino, San Girolamo; Sant'Antonio da Padova Guido Reni, San Giuseppe con Gesù Bambino, sec. XVII Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Museo della città di Rimini Sito ufficiale, su museicomunalirimini.it.

Tempio malatestiano
Tempio malatestiano

Il Tempio malatestiano, usualmente indicato dai cittadini come il Duomo e dal 1809 divenuta cattedrale col titolo di Santa Colomba, è il principale luogo di culto cattolico di Rimini. Rinnovato completamente sotto la signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesta, con il contributo di artisti come Leon Battista Alberti, Matteo de' Pasti, Agostino di Duccio e Piero della Francesca, è sebbene incompleto, l'opera chiave del Rinascimento riminese e una delle architetture più significative del Quattrocento italiano in generale. Nell'area è documentata già nel IX secolo una cappella chiamata Santa Maria in Trivio, demolita nel 1257 per consentire l'erezione di una chiesa più grande, in stile gotico a navata unica e triabsidata, che sarà poi consacrata a San Francesco e retta dall'Ordine francescano. Tra il Duecento e Trecento furono aggiunte due cappelle sul lato sud. Parte dei marmi per i lavori furono presi da rovine romane in Sant'Apollinare in Classe e da Fano. La chiesa, nonostante le dimensioni relativamente modeste, era già utilizzata nel 1312 come luogo di sepoltura della famiglia Malatesta, arricchita da altari e opere d'arte, alle quali fu chiamato a contribuire anche Giotto. Sotto la signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesta, fu deciso di sistemarvi una cappella dedicata a San Sigismondo, patrono del committente, affidando il progetto al veronese Matteo de' Pasti. Il 31 ottobre del 1447 fu benedetta la posa della prima pietra. Negli anni successivi, in seguito a una fortunata serie di vittorie e riconoscimenti, il Malatesta decise di estendere il progetto a tutto l'edificio. Probabilmente ebbe un ruolo, nella decisione di mutare il progetto, Leon Battista Alberti al quale fu poi affidato il progetto di una nuova sistemazione architettonica esterna, che comprendeva, secondo la testimonianza di una serie di note medaglie, di Matteo de' Pasti del 1450, l'aggiunta di una rotonda nella parte posteriore della chiesa, coperta da una cupola a imitazione di quella del Pantheon. I lavori relativi al progetto di Alberti iniziarono presumibilmente nel 1453. Se il progetto fosse stato completato, la navata avrebbe allora assunto un ruolo di semplice accesso al maestoso edificio circolare, e sarebbe stata molto più evidente la funzione celebrativa dell'edificio. Il tema iconografico della struttura è inconsueto per una chiesa cristiana. Nell'apparato decorativo originale i riferimenti religiosi tradizionali sono talmente ridotti e defilati da sembrare a prima vista del tutto assenti. Il Malatesta volle tale edificio unicamente come sepolcro suo, per la sua stirpe e per i dignitari a lui vicini, quale enorme monumento celebrativo di sé stesso e della sua casata, prevedendo una iconografia articolata in un complesso linguaggio proprio del paganesimo: da qui la denominazione Tempio. Ciò contribuì al peggioramento dei rapporti con papa Pio II Piccolomini, già critici prima della sua elezione nel 1458 (a causa anche delle precedenti campagne militari ostili alla sua città natale, Siena), rapporti che degenerarono fino alla scomunica nel 1460. La quantità di riferimenti pagani è tale per cui Pio II riportò nei suoi Commentari: Tuttavia sarebbe riduttivo leggere il tempio malatestiano solo come sfida personale, ma piuttosto come massima manifestazione di una raffinata cultura di tipo neoplatonico, intellettuale e idealistica, intenzionalmente lontana dalla realtà, non timorosa di esprimersi attraverso un linguaggio, tra ethos apollineo e pathos dionisiaco, estraneo alla cristianità proprio in quello che doveva essere un tempio cristiano. La lettura dell'apparato del Tempio non si presenta affatto agevole. Tra le fonti letterarie ispiratrici si possono rinvenire Macrobio, Platone, Porfirio, Giamblico e Gemisto Pletone. Roberto Valturio, membro della corte illuminata che circondava il Malatesta e che tanta parte ha avuto nella definizione del gusto e dei temi, ribadì nel De re militari che il Tempio era colmo di “simboli tratti dai più occulti penetrali della filosofia" che solo gli iniziati potevano penetrarne il significato. L'insieme decorativo si presenta, per quanto raffinato, abbastanza dispersivo, con alcuni contrasti in particolar modo tra l'interno e l'esterno dell'edificio; qualora si debba ricercare una chiave unica di lettura, questa è sicuramente da individuare nell'intento celebrativo della figura del signore e della sua corte. La struttura progettata dall'Alberti non fu completata, in seguito all'avversa fortuna in campo militare del Malatesta (e alle conseguenti difficoltà economiche) che resero impossibile la fine dei lavori. Nel 1460 erano state del tutto ultimate solo tre cappelle ed i rivestimenti esterni, realizzati incapsulando la struttura medievale. Sigismondo fu definitivamente sconfitto dalle truppe papali alleate con Federico da Montefeltro due anni dopo sul Cesano. Ne conseguì l'interruzione di tutte le fabbriche da lui avviate (a parte l'aggiunta del sarcofago del filosofo neoplatonico Giorgio Gemisto Pletone nel 1464). Su spinta dell'ordine francescano che reggeva la chiesa, i lavori ripresero negli anni successivi ma, perso l'originale committente, proseguirono in difformità dal progetto dell'Alberti, per essere completati nel 1503. Nel 1809 le soppressioni napoleoniche sciolsero il convento francescano e in seguito alla sconsacrazione e distruzione dell'antica Santa Colomba, il tempio fu consacrato a cattedrale cittadina, assumendo la dedica della santa. Durante la seconda guerra mondiale, l'edificio subì molti danni (in particolare, nel 1944), tanto da far esclamare, commosso, ad Ezra Pound, nel suo Canto LXXII (a parlare è lo spirito di Ezzelino III da Romano): La zona absidale, insieme a buona parte della copertura, fu distrutta e ricostruita in forme semplificate con l'esterno in mattoni a vista e l'interno in semplice e disadorno intonaco bianco. Solo recentemente l'altare maggiore è stato arricchito da un celebre crocifisso di Giotto, dipinto durante il suo soggiorno a Rimini tra il 1308 e il 1312. La facciata e i fianchi furono danneggiati, con dislivelli, fuoripiombo e distacchi, tanto da dover procedere con un difficile intervento, smontando e rimontando sostanzialmente l'intero paramento murario, numerando i vari conci e blocchi lapidei. L'esterno del tempio malatestiano fu progettato da Leon Battista Alberti alcuni anni dopo l'avvio dei lavori all'interno. Egli ideò un involucro marmoreo che lasciasse intatto l'edificio preesistente. L'opera, incompiuta, prevedeva nella parte bassa della facciata una tripartizione con archi inquadrati da semicolonne con capitello composito, mentre nella parte superiore era previsto una specie di frontone con arco al centro affiancato da paraste. Punto focale era il portale centrale, con timpano triangolare al centro di un fornice riccamente ornato da lastre marmoree policrome di spoglio, provenienti probabilmente da Ravenna, che richiamano, nella stessa accurata scelta cromatica delle pietre, l'opus sectile della Roma imperiale. La mancanza dell'arco superiore permette di vedere, ancora oggi, un pezzo della semplice facciata medievale a capanna di San Francesco. Sopra di essa è poi collocata una piccola croce, simbolo del cristianesimo cattolico praticato nel Duomo. Le fiancate sono composte da una sequenza di archi su pilastri il cui modello è stato rintracciato nei pilastri interni del Colosseo. Gli arconi delle fiancate si presentano con un'imposta rialzata trasformando l'arco a tutto sesto in arco 'semistaffato', dove nella maggior parte dei casi non presentano il concio in chiave Le arcate cieche erano destinate ad accogliere i sarcofagi dei più alti dignitari di corte. Vi si trovano sepolti Giusto de' Conti, Roberto Valturio, Basinio Basini, i medici Gentile e Giuliano Arnolfi. Tuttavia, il sepolcro più significativo è quello del filosofo neoplatonico Giorgio Gemisto Pletone, ritenuto all'epoca uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi, che aveva fatto rinascere le scuole filosofiche dell'antica Grecia e i cui resti furono portati da Sigismondo dalla campagna militare nel Peloponneso. Fianchi e facciata sono unificati da un alto zoccolo che isola la costruzione dallo spazio circostante. Anche all'esterno ricorre la ghirlanda circolare, qui usata come oculo. Alberti trasse spunto dall'architettura classica, ma affidandosi a spunti locali, come l'arco di Augusto, il cui modulo è triplicato nella parte bassa della facciata. Una particolarità di questo intervento è che il rivestimento non tiene conto delle precedenti aperture gotiche: infatti, il passo delle arcate laterali non è lo stesso delle finestre ogivali, che risultano posizionate in maniera sempre diversa. Del resto Alberti scrisse a Matteo de' Pasti che «queste larghezze et altezze delle Chappelle mi perturbano». La medaglia di Matteo de' Pasti del 1450 mostra l'aspetto originario che il tempio avrebbe dovuto avere, con una grande rotonda coperta da cupola semisferica simile a quella del Pantheon. Se completato, la navata avrebbe allora assunto un ruolo di semplice accesso al maestoso edificio circolare, e sarebbe stata molto più evidente la funzione celebrativa dell'edificio, anche in rapporto allo skyline cittadino. La parte posteriore è nuda: qui si eleva il campanile eretto tra XV e XVI secolo. La distruzione su questo lato del convento francescano, operata nel 1921 per allargare via IV Novembre, ha alterato i rapporti del monumento col contesto urbanistico. L'interno, durante i lavori rinascimentali, venne mantenuto ad aula unica aggiungendo alcune profonde cappelle laterali, incorniciate da arcate a sesto acuto, rialzate di un gradino e chiuse da balaustre marmoree dalla ricca ornamentazione. Vennero usati elementi classicheggianti, ma svincolati da rapporti di proporzione, con una preminenza della decorazione plastica, la quale arriva a mettere in secondo piano la struttura architettonica. Sulle prime tre cappelle di ciascun lato, risalenti all'epoca di Sigismondo, viene ripetuta l'iscrizione latina della facciata. Generalmente gli storici escludono un intervento diretto di Alberti nel disegno complessivo dell'interno, assegnato a Matteo de' Pasti e Agostino di Duccio, tuttavia alcuni non escludono che Alberti possa aver dato indicazioni generali sull'intervento. La copertura è a semplici capriate lignee, con travi e tavelle visibili, realizzata dai francescani a loro spese in seguito all'interruzione delle fabbriche di Malatesta. In particolare vennero riccamente decorati i due pilastri di accesso di ciascuna cappella, divisi in settori con rilievi allegorici o narrativi. Protagonista di questa decorazione fu Agostino di Duccio, che sviluppò un proprio stile fluido a partire dallo stiacciato donatelliano, di una grazia un po' fredda, "neoattica". I temi sono soprattutto profani e intrecciano complesse allegorie decise probabilmente dallo stesso Sigismondo. Oltre ad Agostino di Duccio, contribuirono all'opera anche Roberto Valturio, Basinio da Parma. A guisa di tempio pagano le sei cappelle laterali sono intitolate alle Arti Liberali, allo Zodiaco, ai Giochi dei Bambini, alle Sibille e Profeti e decorate in tema. Due ulteriori cappelle sono dedicate ai sepolcri di Sigismondo (cappella delle Virtù) e Isotta (cappella degli Angeli). Complessi rimandi, tematici ed estetici, si incrociano tra le cappelle opposte. Ovunque, quasi ossessivamente, sono ripetute in bassorilievo la S e la I incrociate, in passato ritenuta conferma che l'intero edificio fosse stato concepito da Sigismondo per celebrare il suo amore con Isotta degli Atti; più realisticamente si può interpretare come prosaica abbreviazione di Sigismondo; si segnala infatti il quasi contemporaneo monogramma di Federico da Montefeltro, visibile nel vicino Palazzo Ducale di Urbino, che appunto riporta due lettere, F e E. Altri simboli sovente ripetuti sono la rosa canina (più 500 volte), le tre teste e l'elefante, legati al casato dei Malatesta, nonché ghirlande di foglie e frutta. Una grande quantità di statuette di putti adornava l'interno, una parte dei quali sono oggi asportati e dispersi in collezioni private. Sulla controfacciata, a sinistra dell'entrata, si trova la pietra tombale del cardinale Ludovico Bonito (m. 1413), già nella vecchia chiesa. A destra invece il sepolcro di Sigismondo Malatesta, attribuito ai fiorentini Bernardo Ciuffagni e Francesco di Simone Ferrucci, con in alto due formelle col profilo del condottiero. La prima cappella a destra è quella delle Virtù, o di San Sigismondo, avviata nel 1447 nell'architettura e il 14 ottobre 1450 per le decorazioni scultoree: in tale data venne collocata la prima coppia di elefanti reggipilastro, in marmo bardiglio. I pilastri, nelle facciate verso la navata, hanno teste e figure intere di Virtù ad altorilievo con giovanetti portascudo, riferibili al primo periodo di Agostino di Duccio. Allo stesso artista è riferita la statua di San Sigismondo e la sua ricchissima edicola sull'altare. Il bassorilievo sottostante (San Sigismondo in viaggio con la famiglia verso il monastero di Agauno) è una copia in stucco dell'originale oggi al Museo d'arte antica di Milano. Sulle pareti laterali, dello stesso scultore, due straordinari bassorilievi di grandi dimensioni in stiacciato, con Angeli reggicortina, dalle sinuose linee. Segue sullo stesso lato la cella delle Reliquie, già sagrestia della cappella delle Virtù, a cui si accede da un portale scolpito con bassorilievi di apostoli, evangelisti e simboli malatestiani. Sia le ante lignee che i chiavistelli sono originari del Quattrocento. Qui sono conservati alcuni reliquiari settecenteschi, una pala di Camillo Sagrestani, un piccolo sarcofago del VII secolo, e alcuni oggetti rinvenuti nel sopralluogo del 1920 dentro la tomba di Sigismondo (frammenti di vesti in broccato d'oro, spada, stocco, speroni e sei medaglie, oggi in parte trasferiti al Museo della città di Rimini). Anche l'affresco staccato di Piero della Francesca si trovava un tempo qui, mentre oggi è nell'ultima cappella a destra. Sulla parete si trovano tracce delle decorazione in cotto della fabbrica trecentesca. La seconda cappella di destra è quella degli Angeli, o di Isotta o di San Michele. La statua dell'arcangelo, sull'edicola sull'altare, è di Agostino di Duccio, autore anche degli angeli alati che giocano e suonano nei riquadri dei pilastri dell'arcone di ingresso. Sulla parete sinistra il sarcofago di Isotta degli Atti, sorretto da due elefanti portastemma e scolpito probabilmente da Matteo de' Pasti. Sopra il sarcofago si trova un padiglione marmoreo sormontato dal cimiero malatestiano tra teste d'elefante alate recanti cartigli. Un tempo era conservato qui il Crocifisso di Rimini di Giotto, oggi dietro l'altare maggiore. Si prosegue con la cappella dello Zodiaco, o dei Pianeti, o di San Girolamo, la più sorprendente del complesso. È ricca di rappresentazioni non convenzionali attribuite ad Agostino di Duccio, come nel Saturno e nei carri trionfali di Marte, di Venere e della Luna. Qui si può notare come nei bassorilievi dei segni con quadrupedi (Ariete, Toro, Leone, Capricorno e Sagittario) sono stati eliminati gli arti posteriori, dei quali resta solo il contorno. Sempre nella cappella dello zodiaco vi sono due bassorilievi che si riallacciano alla figura di Sigismondo. Il primo è quello del segno del Cancro (danneggiato da una granata nell'ultima guerra), lo stesso di Sigismondo, che domina come un sole la rappresentazione della città, la più antica conosciuta. Il secondo è il bassorilievo del Naufragio di Sigismondo in vista dell'isola Fortunata, su ispirazione di un poemetto laudatorio di Basinio Basini: un uomo nudo rema in una barca, in un mare disseminato da piccole isole, abitate da diversi animali (leone, un elefante uccello rapace) e nel mare vi sono delfini e mostri marini. Ogni pilastro poggia su un canestro marmoreo (attribuzione incerta), colmo di fiori, frutta e animali, e ornato da festoni retti da quattro putti. La balaustra è in marmo rosso di Verona tra lesene in marmo bianco, con ricche decorazioni in stiacciato. Sul lato opposto, dopo un'altra uscita laterale, in senso antiorario, si incontra la cappella delle Arti Liberali, dedicata alle Scienze del Trivio e del Quadrivio ed altre figure. Secondo un programma celebrativo assai singolare per una chiesa, qui si trovano liberamente mischiate la Filosofia e la Botanica, la Concordia e la Musica, la Retorica e la Grammatica. Si tratta delle opere più tarde di Agostino di Duccio (1456). Segue la cappella dei Giochi infantili, o dell'Angelo custode, dove trovano posto i sepolcri delle prime due mogli di Sigismondo, Ginevra d'Este e Polissena Sforza, circondate da sessantuno figure di angioletti, in diciotto riquadri, danzanti o in gioco fra loro, che cavalcano bastoni e delfini, improvvisano un concerto o fingono di navigare, si tirano per i capelli e giocano a girotondo attorno ad una fontana, tutti scolpiti da Agostino di Duccio (1455). All'altare si trova un crocifisso ligneo cinquecentesco. La sagrestia adiacente, oggi cappella dei Caduti, ha un portale quattrocentesco con figurazioni di eroi biblici. L'ultima cappella (prima sinistra) è detta degli Antenati, o della Pietà o della Madonna dell'Acqua da un piccolo gruppo marmoreo di scuola franco-tedesca del XV secolo sull'altare, che il popolo era solito invocare per chiedere la pioggia. Iniziata nel 1454 seguendo un programma iconografico descritto da Roberto Valturio e di Poggio Bracciolini, fu decorata da dodici figure di Profeti e Sibille (due dei primi, dieci delle seconde), di Agostino di Duccio e aiuti. Alla base dei pilastri, sopra gli elefanti malatestiani, dadi con grandi medaglioni del profilo di Sigismondo Malatesta entro ghirlande d'alloro. Alla parete sinistra, sotto un padiglione in marmo, spicca l'arca degli Antenati e dei Discendenti, importante lavoro di Agostino di Duccio destinato ad accogliere, appunto, i personaggi della dinastia malatestiana prima e dopo Sigismondo. Sul fronte la dedica è incisa tra due bassorilievi (Minerva tra una schiera di eroi e il Trionfo di Scipione l'Africano) che simboleggiano i due attributi fondamentali dell'immortalità: la Saggezza e la Gloria. Essendo originariamente destinata alla facciata del tempio, ha sia i fianchi che il coperchio scolpiti, anche nei lati non visibili. All'interno del coperchio ad esempio si trova un bel profilo di Sigismondo incorniciato da un festone e da un distico attribuito a Basinio da Parma: "Haec Sigismundi vera est victoris imago qui dedit heac Patribus digna sepulcra suis" (questa è la vera effigie di Sigismondo vittorioso che diede ai suoi antenati questo degno sepolcro). Un calco è visibile nel Museo della città di Rimini. La cappella si differenzia dalle altre per il suo stile gotico e veneto. L'aspetto attuale della cappella è stato alterato da un pesante intervento Luigi Poletti nel 1862-1868, rimaneggiando il rivestimento marmoreo del fondo e aggiungendo la nicchia sull'altare, le decorazioni in oro e azzurro, come ricorda un'iscrizione sulla parete destra (1868). L'ultima cappella di destra e di sinistra sono successive all'epoca malatestiana: dopo il vano dell'accesso laterale, la cappella della Concezione presenta il monumento neoclassico al conte Paolo Garattoni (m. 1827). Qui è stato collocato l'affresco di Piero della Francesca di Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a san Sigismondo (datato 1451), dove la glorificazione del committente ha il culmine. Il tema religioso si intreccia con aspetti politici e dinastici, come nelle fattezze di san Sigismondo che celano quelle dell'imperatore Sigismondo del Lussemburgo, che nel 1433 investì il Malatesta come cavaliere e ne legittimò la successione dinastica, ratificandone la presa di potere. Il presbiterio fu ricostruito dopo le distruzioni belliche. L'attuale altare principale, in metallo e travertino, opera di Giuliano Vangi, sostituisce il precedente dono di Napoleone attribuito a Luigi Poletti. La sua collocazione nel 2001 fu oggetto di aspre polemiche da parte del critico Vittorio Sgarbi. Dietro l'altare si trova il notevole Crocifisso di Rimini attribuito a Giotto, la cui presenza a Rimini è documentata alla fine del Trecento. Il crocifisso sarebbe l'unica opere superstite della sua attività per la chiesa francescana che forse aveva compreso anche la realizzazione di affreschi. Il Poletti è autore anche dell'altare nell'attigua, ultima cappella di sinistra, dove si trovano anche i dipinti dei Santi Antonio e Francesco di Simone Cantarini e il San Francesco che riceve le stigmate di Giorgio Vasari (1548). Domenico Paulucci, Il tempio malatestiano di Rimini, Mirabilia urbis, Rimini, Luise, 1993, ISBN 88-85050-71-9. Pierluigi De Vecchi e Elda Cerchiari, I tempi dell'arte, vol. 2, Milano, Bompiani, 1999, ISBN 88-451-7212-0. Stefano Zuffi, Il Quattrocento, Milano, Electa, 2004, ISBN 88-370-2315-4. Ethos apollineo e pathos dionisiaco nel cosmo Malatestiano, in Engramma, da appunti di Aby Warburg e collaboratori del 1929, n. 35, agosto–settembre 2004 (archiviato dall'url originale l'11 novembre 2013). Marco Musmeci (a cura di), Templum Mirabile", Atti del Convegno 2001, Rimini, Fondazione Cassa di risparmio di Rimini, 2003, SBN IT\ICCU\RAV\1204248. F. Canali, C. Muscolino, Il Tempio della Meraviglia, Firenze, 2007. Architettura rinascimentale Rinascimento riminese Giotto, Crocifisso di Rimini Piero della Francesca, Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a san Sigismondo Wikiquote contiene citazioni sul Tempio Malatestiano Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sul Tempio Malatestiano Engramma n. 61, gennaio 2008, su engramma.it. Info sul sito della diocesi di Rimini, su diocesi.rimini.it (archiviato dall'url originale il 13 marzo 2007). Descrizione dettagliata del Tempio e delle sue cappelle, su hotel-rimini.com. URL consultato il 12 agosto 2014 (archiviato dall'url originale il 12 agosto 2014). (EN) Orsini Luigi, The Malatesta temple (1915), su archive.org. Disponibile per il download su Internet Archive Fossati, Carlo Giuseppe, Le temple de Malateste de Rimini architecture de Leon Baptiste Alberti de Florence, A Fuligno: chez Jean Tomassini, 1794. Chiesa di Santa Colomba (Rimini) su BeWeB - Beni ecclesiastici in web