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Rimini

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Rimini (Rémin, Rémni o Rémne in romagnolo, , Rimino in italiano arcaico) è un comune italiano di 150 459 abitanti, capoluogo dell'omonima provincia in Emilia-Romagna. Località di soggiorno estivo di rilevanza internazionale, con un litorale che si estende per 15 km lungo la costa dell'Alto Adriatico. Vanta una lunga tradizione turistica: nel 1873 vi fu infatti inaugurato il primo stabilimento balneare della riviera romagnola. Colonia fondata dai Romani nel 268 a.C., per tutto il periodo della loro dominazione è stata nodo di comunicazione fra il nord e il sud della penisola e sul suo suolo gli imperatori romani eressero monumenti dei quali restano tracce importanti. È stata feudo dei Malatesta, e la corte di Sigismondo Pandolfo Malatesta fu una delle più vivaci dell'epoca, ospitando artisti come Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Roberto Valturio, Matteo de' Pasti conservando rilevanti opere del Rinascimento italiano.

Estratto dall'articolo di Wikipedia Rimini (Licenza: CC BY-SA 3.0, Autori, Immagini).

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Tempio malatestiano
Tempio malatestiano

Il Tempio malatestiano, usualmente indicato dai cittadini come il Duomo e dal 1809 divenuta cattedrale col titolo di Santa Colomba, è il principale luogo di culto cattolico di Rimini. Rinnovato completamente sotto la signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesta, con il contributo di artisti come Leon Battista Alberti, Matteo de' Pasti, Agostino di Duccio e Piero della Francesca, è sebbene incompleto, l'opera chiave del Rinascimento riminese e una delle architetture più significative del Quattrocento italiano in generale. Nell'area è documentata già nel IX secolo una cappella chiamata Santa Maria in Trivio, demolita nel 1257 per consentire l'erezione di una chiesa più grande, in stile gotico a navata unica e triabsidata, che sarà poi consacrata a San Francesco e retta dall'Ordine francescano. Tra il Duecento e Trecento furono aggiunte due cappelle sul lato sud. Parte dei marmi per i lavori furono presi da rovine romane in Sant'Apollinare in Classe e da Fano. La chiesa, nonostante le dimensioni relativamente modeste, era già utilizzata nel 1312 come luogo di sepoltura della famiglia Malatesta, arricchita da altari e opere d'arte, alle quali fu chiamato a contribuire anche Giotto. Sotto la signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesta, fu deciso di sistemarvi una cappella dedicata a San Sigismondo, patrono del committente, affidando il progetto al veronese Matteo de' Pasti. Il 31 ottobre del 1447 fu benedetta la posa della prima pietra. Negli anni successivi, in seguito a una fortunata serie di vittorie e riconoscimenti, il Malatesta decise di estendere il progetto a tutto l'edificio. Probabilmente ebbe un ruolo, nella decisione di mutare il progetto, Leon Battista Alberti al quale fu poi affidato il progetto di una nuova sistemazione architettonica esterna, che comprendeva, secondo la testimonianza di una serie di note medaglie, di Matteo de' Pasti del 1450, l'aggiunta di una rotonda nella parte posteriore della chiesa, coperta da una cupola a imitazione di quella del Pantheon. I lavori relativi al progetto di Alberti iniziarono presumibilmente nel 1453. Se il progetto fosse stato completato, la navata avrebbe allora assunto un ruolo di semplice accesso al maestoso edificio circolare, e sarebbe stata molto più evidente la funzione celebrativa dell'edificio. Il tema iconografico della struttura è inconsueto per una chiesa cristiana. Nell'apparato decorativo originale i riferimenti religiosi tradizionali sono talmente ridotti e defilati da sembrare a prima vista del tutto assenti. Il Malatesta volle tale edificio unicamente come sepolcro suo, per la sua stirpe e per i dignitari a lui vicini, quale enorme monumento celebrativo di sé stesso e della sua casata, prevedendo una iconografia articolata in un complesso linguaggio proprio del paganesimo: da qui la denominazione Tempio. Ciò contribuì al peggioramento dei rapporti con papa Pio II Piccolomini, già critici prima della sua elezione nel 1458 (a causa anche delle precedenti campagne militari ostili alla sua città natale, Siena), rapporti che degenerarono fino alla scomunica nel 1460. La quantità di riferimenti pagani è tale per cui Pio II riportò nei suoi Commentari: Tuttavia sarebbe riduttivo leggere il tempio malatestiano solo come sfida personale, ma piuttosto come massima manifestazione di una raffinata cultura di tipo neoplatonico, intellettuale e idealistica, intenzionalmente lontana dalla realtà, non timorosa di esprimersi attraverso un linguaggio, tra ethos apollineo e pathos dionisiaco, estraneo alla cristianità proprio in quello che doveva essere un tempio cristiano. La lettura dell'apparato del Tempio non si presenta affatto agevole. Tra le fonti letterarie ispiratrici si possono rinvenire Macrobio, Platone, Porfirio, Giamblico e Gemisto Pletone. Roberto Valturio, membro della corte illuminata che circondava il Malatesta e che tanta parte ha avuto nella definizione del gusto e dei temi, ribadì nel De re militari che il Tempio era colmo di “simboli tratti dai più occulti penetrali della filosofia" che solo gli iniziati potevano penetrarne il significato. L'insieme decorativo si presenta, per quanto raffinato, abbastanza dispersivo, con alcuni contrasti in particolar modo tra l'interno e l'esterno dell'edificio; qualora si debba ricercare una chiave unica di lettura, questa è sicuramente da individuare nell'intento celebrativo della figura del signore e della sua corte. La struttura progettata dall'Alberti non fu completata, in seguito all'avversa fortuna in campo militare del Malatesta (e alle conseguenti difficoltà economiche) che resero impossibile la fine dei lavori. Nel 1460 erano state del tutto ultimate solo tre cappelle ed i rivestimenti esterni, realizzati incapsulando la struttura medievale. Sigismondo fu definitivamente sconfitto dalle truppe papali alleate con Federico da Montefeltro due anni dopo sul Cesano. Ne conseguì l'interruzione di tutte le fabbriche da lui avviate (a parte l'aggiunta del sarcofago del filosofo neoplatonico Giorgio Gemisto Pletone nel 1464). Su spinta dell'ordine francescano che reggeva la chiesa, i lavori ripresero negli anni successivi ma, perso l'originale committente, proseguirono in difformità dal progetto dell'Alberti, per essere completati nel 1503. Nel 1809 le soppressioni napoleoniche sciolsero il convento francescano e in seguito alla sconsacrazione e distruzione dell'antica Santa Colomba, il tempio fu consacrato a cattedrale cittadina, assumendo la dedica della santa. Durante la seconda guerra mondiale, l'edificio subì molti danni (in particolare, nel 1944), tanto da far esclamare, commosso, ad Ezra Pound, nel suo Canto LXXII (a parlare è lo spirito di Ezzelino III da Romano): La zona absidale, insieme a buona parte della copertura, fu distrutta e ricostruita in forme semplificate con l'esterno in mattoni a vista e l'interno in semplice e disadorno intonaco bianco. Solo recentemente l'altare maggiore è stato arricchito da un celebre crocifisso di Giotto, dipinto durante il suo soggiorno a Rimini tra il 1308 e il 1312. La facciata e i fianchi furono danneggiati, con dislivelli, fuoripiombo e distacchi, tanto da dover procedere con un difficile intervento, smontando e rimontando sostanzialmente l'intero paramento murario, numerando i vari conci e blocchi lapidei. L'esterno del tempio malatestiano fu progettato da Leon Battista Alberti alcuni anni dopo l'avvio dei lavori all'interno. Egli ideò un involucro marmoreo che lasciasse intatto l'edificio preesistente. L'opera, incompiuta, prevedeva nella parte bassa della facciata una tripartizione con archi inquadrati da semicolonne con capitello composito, mentre nella parte superiore era previsto una specie di frontone con arco al centro affiancato da paraste. Punto focale era il portale centrale, con timpano triangolare al centro di un fornice riccamente ornato da lastre marmoree policrome di spoglio, provenienti probabilmente da Ravenna, che richiamano, nella stessa accurata scelta cromatica delle pietre, l'opus sectile della Roma imperiale. La mancanza dell'arco superiore permette di vedere, ancora oggi, un pezzo della semplice facciata medievale a capanna di San Francesco. Sopra di essa è poi collocata una piccola croce, simbolo del cristianesimo cattolico praticato nel Duomo. Le fiancate sono composte da una sequenza di archi su pilastri il cui modello è stato rintracciato nei pilastri interni del Colosseo. Gli arconi delle fiancate si presentano con un'imposta rialzata trasformando l'arco a tutto sesto in arco 'semistaffato', dove nella maggior parte dei casi non presentano il concio in chiave Le arcate cieche erano destinate ad accogliere i sarcofagi dei più alti dignitari di corte. Vi si trovano sepolti Giusto de' Conti, Roberto Valturio, Basinio Basini, i medici Gentile e Giuliano Arnolfi. Tuttavia, il sepolcro più significativo è quello del filosofo neoplatonico Giorgio Gemisto Pletone, ritenuto all'epoca uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi, che aveva fatto rinascere le scuole filosofiche dell'antica Grecia e i cui resti furono portati da Sigismondo dalla campagna militare nel Peloponneso. Fianchi e facciata sono unificati da un alto zoccolo che isola la costruzione dallo spazio circostante. Anche all'esterno ricorre la ghirlanda circolare, qui usata come oculo. Alberti trasse spunto dall'architettura classica, ma affidandosi a spunti locali, come l'arco di Augusto, il cui modulo è triplicato nella parte bassa della facciata. Una particolarità di questo intervento è che il rivestimento non tiene conto delle precedenti aperture gotiche: infatti, il passo delle arcate laterali non è lo stesso delle finestre ogivali, che risultano posizionate in maniera sempre diversa. Del resto Alberti scrisse a Matteo de' Pasti che «queste larghezze et altezze delle Chappelle mi perturbano». La medaglia di Matteo de' Pasti del 1450 mostra l'aspetto originario che il tempio avrebbe dovuto avere, con una grande rotonda coperta da cupola semisferica simile a quella del Pantheon. Se completato, la navata avrebbe allora assunto un ruolo di semplice accesso al maestoso edificio circolare, e sarebbe stata molto più evidente la funzione celebrativa dell'edificio, anche in rapporto allo skyline cittadino. La parte posteriore è nuda: qui si eleva il campanile eretto tra XV e XVI secolo. La distruzione su questo lato del convento francescano, operata nel 1921 per allargare via IV Novembre, ha alterato i rapporti del monumento col contesto urbanistico. L'interno, durante i lavori rinascimentali, venne mantenuto ad aula unica aggiungendo alcune profonde cappelle laterali, incorniciate da arcate a sesto acuto, rialzate di un gradino e chiuse da balaustre marmoree dalla ricca ornamentazione. Vennero usati elementi classicheggianti, ma svincolati da rapporti di proporzione, con una preminenza della decorazione plastica, la quale arriva a mettere in secondo piano la struttura architettonica. Sulle prime tre cappelle di ciascun lato, risalenti all'epoca di Sigismondo, viene ripetuta l'iscrizione latina della facciata. Generalmente gli storici escludono un intervento diretto di Alberti nel disegno complessivo dell'interno, assegnato a Matteo de' Pasti e Agostino di Duccio, tuttavia alcuni non escludono che Alberti possa aver dato indicazioni generali sull'intervento. La copertura è a semplici capriate lignee, con travi e tavelle visibili, realizzata dai francescani a loro spese in seguito all'interruzione delle fabbriche di Malatesta. In particolare vennero riccamente decorati i due pilastri di accesso di ciascuna cappella, divisi in settori con rilievi allegorici o narrativi. Protagonista di questa decorazione fu Agostino di Duccio, che sviluppò un proprio stile fluido a partire dallo stiacciato donatelliano, di una grazia un po' fredda, "neoattica". I temi sono soprattutto profani e intrecciano complesse allegorie decise probabilmente dallo stesso Sigismondo. Oltre ad Agostino di Duccio, contribuirono all'opera anche Roberto Valturio, Basinio da Parma. A guisa di tempio pagano le sei cappelle laterali sono intitolate alle Arti Liberali, allo Zodiaco, ai Giochi dei Bambini, alle Sibille e Profeti e decorate in tema. Due ulteriori cappelle sono dedicate ai sepolcri di Sigismondo (cappella delle Virtù) e Isotta (cappella degli Angeli). Complessi rimandi, tematici ed estetici, si incrociano tra le cappelle opposte. Ovunque, quasi ossessivamente, sono ripetute in bassorilievo la S e la I incrociate, in passato ritenuta conferma che l'intero edificio fosse stato concepito da Sigismondo per celebrare il suo amore con Isotta degli Atti; più realisticamente si può interpretare come prosaica abbreviazione di Sigismondo; si segnala infatti il quasi contemporaneo monogramma di Federico da Montefeltro, visibile nel vicino Palazzo Ducale di Urbino, che appunto riporta due lettere, F e E. Altri simboli sovente ripetuti sono la rosa canina (più 500 volte), le tre teste e l'elefante, legati al casato dei Malatesta, nonché ghirlande di foglie e frutta. Una grande quantità di statuette di putti adornava l'interno, una parte dei quali sono oggi asportati e dispersi in collezioni private. Sulla controfacciata, a sinistra dell'entrata, si trova la pietra tombale del cardinale Ludovico Bonito (m. 1413), già nella vecchia chiesa. A destra invece il sepolcro di Sigismondo Malatesta, attribuito ai fiorentini Bernardo Ciuffagni e Francesco di Simone Ferrucci, con in alto due formelle col profilo del condottiero. La prima cappella a destra è quella delle Virtù, o di San Sigismondo, avviata nel 1447 nell'architettura e il 14 ottobre 1450 per le decorazioni scultoree: in tale data venne collocata la prima coppia di elefanti reggipilastro, in marmo bardiglio. I pilastri, nelle facciate verso la navata, hanno teste e figure intere di Virtù ad altorilievo con giovanetti portascudo, riferibili al primo periodo di Agostino di Duccio. Allo stesso artista è riferita la statua di San Sigismondo e la sua ricchissima edicola sull'altare. Il bassorilievo sottostante (San Sigismondo in viaggio con la famiglia verso il monastero di Agauno) è una copia in stucco dell'originale oggi al Museo d'arte antica di Milano. Sulle pareti laterali, dello stesso scultore, due straordinari bassorilievi di grandi dimensioni in stiacciato, con Angeli reggicortina, dalle sinuose linee. Segue sullo stesso lato la cella delle Reliquie, già sagrestia della cappella delle Virtù, a cui si accede da un portale scolpito con bassorilievi di apostoli, evangelisti e simboli malatestiani. Sia le ante lignee che i chiavistelli sono originari del Quattrocento. Qui sono conservati alcuni reliquiari settecenteschi, una pala di Camillo Sagrestani, un piccolo sarcofago del VII secolo, e alcuni oggetti rinvenuti nel sopralluogo del 1920 dentro la tomba di Sigismondo (frammenti di vesti in broccato d'oro, spada, stocco, speroni e sei medaglie, oggi in parte trasferiti al Museo della città di Rimini). Anche l'affresco staccato di Piero della Francesca si trovava un tempo qui, mentre oggi è nell'ultima cappella a destra. Sulla parete si trovano tracce delle decorazione in cotto della fabbrica trecentesca. La seconda cappella di destra è quella degli Angeli, o di Isotta o di San Michele. La statua dell'arcangelo, sull'edicola sull'altare, è di Agostino di Duccio, autore anche degli angeli alati che giocano e suonano nei riquadri dei pilastri dell'arcone di ingresso. Sulla parete sinistra il sarcofago di Isotta degli Atti, sorretto da due elefanti portastemma e scolpito probabilmente da Matteo de' Pasti. Sopra il sarcofago si trova un padiglione marmoreo sormontato dal cimiero malatestiano tra teste d'elefante alate recanti cartigli. Un tempo era conservato qui il Crocifisso di Rimini di Giotto, oggi dietro l'altare maggiore. Si prosegue con la cappella dello Zodiaco, o dei Pianeti, o di San Girolamo, la più sorprendente del complesso. È ricca di rappresentazioni non convenzionali attribuite ad Agostino di Duccio, come nel Saturno e nei carri trionfali di Marte, di Venere e della Luna. Qui si può notare come nei bassorilievi dei segni con quadrupedi (Ariete, Toro, Leone, Capricorno e Sagittario) sono stati eliminati gli arti posteriori, dei quali resta solo il contorno. Sempre nella cappella dello zodiaco vi sono due bassorilievi che si riallacciano alla figura di Sigismondo. Il primo è quello del segno del Cancro (danneggiato da una granata nell'ultima guerra), lo stesso di Sigismondo, che domina come un sole la rappresentazione della città, la più antica conosciuta. Il secondo è il bassorilievo del Naufragio di Sigismondo in vista dell'isola Fortunata, su ispirazione di un poemetto laudatorio di Basinio Basini: un uomo nudo rema in una barca, in un mare disseminato da piccole isole, abitate da diversi animali (leone, un elefante uccello rapace) e nel mare vi sono delfini e mostri marini. Ogni pilastro poggia su un canestro marmoreo (attribuzione incerta), colmo di fiori, frutta e animali, e ornato da festoni retti da quattro putti. La balaustra è in marmo rosso di Verona tra lesene in marmo bianco, con ricche decorazioni in stiacciato. Sul lato opposto, dopo un'altra uscita laterale, in senso antiorario, si incontra la cappella delle Arti Liberali, dedicata alle Scienze del Trivio e del Quadrivio ed altre figure. Secondo un programma celebrativo assai singolare per una chiesa, qui si trovano liberamente mischiate la Filosofia e la Botanica, la Concordia e la Musica, la Retorica e la Grammatica. Si tratta delle opere più tarde di Agostino di Duccio (1456). Segue la cappella dei Giochi infantili, o dell'Angelo custode, dove trovano posto i sepolcri delle prime due mogli di Sigismondo, Ginevra d'Este e Polissena Sforza, circondate da sessantuno figure di angioletti, in diciotto riquadri, danzanti o in gioco fra loro, che cavalcano bastoni e delfini, improvvisano un concerto o fingono di navigare, si tirano per i capelli e giocano a girotondo attorno ad una fontana, tutti scolpiti da Agostino di Duccio (1455). All'altare si trova un crocifisso ligneo cinquecentesco. La sagrestia adiacente, oggi cappella dei Caduti, ha un portale quattrocentesco con figurazioni di eroi biblici. L'ultima cappella (prima sinistra) è detta degli Antenati, o della Pietà o della Madonna dell'Acqua da un piccolo gruppo marmoreo di scuola franco-tedesca del XV secolo sull'altare, che il popolo era solito invocare per chiedere la pioggia. Iniziata nel 1454 seguendo un programma iconografico descritto da Roberto Valturio e di Poggio Bracciolini, fu decorata da dodici figure di Profeti e Sibille (due dei primi, dieci delle seconde), di Agostino di Duccio e aiuti. Alla base dei pilastri, sopra gli elefanti malatestiani, dadi con grandi medaglioni del profilo di Sigismondo Malatesta entro ghirlande d'alloro. Alla parete sinistra, sotto un padiglione in marmo, spicca l'arca degli Antenati e dei Discendenti, importante lavoro di Agostino di Duccio destinato ad accogliere, appunto, i personaggi della dinastia malatestiana prima e dopo Sigismondo. Sul fronte la dedica è incisa tra due bassorilievi (Minerva tra una schiera di eroi e il Trionfo di Scipione l'Africano) che simboleggiano i due attributi fondamentali dell'immortalità: la Saggezza e la Gloria. Essendo originariamente destinata alla facciata del tempio, ha sia i fianchi che il coperchio scolpiti, anche nei lati non visibili. All'interno del coperchio ad esempio si trova un bel profilo di Sigismondo incorniciato da un festone e da un distico attribuito a Basinio da Parma: "Haec Sigismundi vera est victoris imago qui dedit heac Patribus digna sepulcra suis" (questa è la vera effigie di Sigismondo vittorioso che diede ai suoi antenati questo degno sepolcro). Un calco è visibile nel Museo della città di Rimini. La cappella si differenzia dalle altre per il suo stile gotico e veneto. L'aspetto attuale della cappella è stato alterato da un pesante intervento Luigi Poletti nel 1862-1868, rimaneggiando il rivestimento marmoreo del fondo e aggiungendo la nicchia sull'altare, le decorazioni in oro e azzurro, come ricorda un'iscrizione sulla parete destra (1868). L'ultima cappella di destra e di sinistra sono successive all'epoca malatestiana: dopo il vano dell'accesso laterale, la cappella della Concezione presenta il monumento neoclassico al conte Paolo Garattoni (m. 1827). Qui è stato collocato l'affresco di Piero della Francesca di Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a san Sigismondo (datato 1451), dove la glorificazione del committente ha il culmine. Il tema religioso si intreccia con aspetti politici e dinastici, come nelle fattezze di san Sigismondo che celano quelle dell'imperatore Sigismondo del Lussemburgo, che nel 1433 investì il Malatesta come cavaliere e ne legittimò la successione dinastica, ratificandone la presa di potere. Il presbiterio fu ricostruito dopo le distruzioni belliche. L'attuale altare principale, in metallo e travertino, opera di Giuliano Vangi, sostituisce il precedente dono di Napoleone attribuito a Luigi Poletti. La sua collocazione nel 2001 fu oggetto di aspre polemiche da parte del critico Vittorio Sgarbi. Dietro l'altare si trova il notevole Crocifisso di Rimini attribuito a Giotto, la cui presenza a Rimini è documentata alla fine del Trecento. Il crocifisso sarebbe l'unica opere superstite della sua attività per la chiesa francescana che forse aveva compreso anche la realizzazione di affreschi. Il Poletti è autore anche dell'altare nell'attigua, ultima cappella di sinistra, dove si trovano anche i dipinti dei Santi Antonio e Francesco di Simone Cantarini e il San Francesco che riceve le stigmate di Giorgio Vasari (1548). Domenico Paulucci, Il tempio malatestiano di Rimini, Mirabilia urbis, Rimini, Luise, 1993, ISBN 88-85050-71-9. Pierluigi De Vecchi e Elda Cerchiari, I tempi dell'arte, vol. 2, Milano, Bompiani, 1999, ISBN 88-451-7212-0. Stefano Zuffi, Il Quattrocento, Milano, Electa, 2004, ISBN 88-370-2315-4. Ethos apollineo e pathos dionisiaco nel cosmo Malatestiano, in Engramma, da appunti di Aby Warburg e collaboratori del 1929, n. 35, agosto–settembre 2004 (archiviato dall'url originale l'11 novembre 2013). Marco Musmeci (a cura di), Templum Mirabile", Atti del Convegno 2001, Rimini, Fondazione Cassa di risparmio di Rimini, 2003, SBN IT\ICCU\RAV\1204248. F. Canali, C. Muscolino, Il Tempio della Meraviglia, Firenze, 2007. Architettura rinascimentale Rinascimento riminese Giotto, Crocifisso di Rimini Piero della Francesca, Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a san Sigismondo Wikiquote contiene citazioni sul Tempio Malatestiano Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sul Tempio Malatestiano Engramma n. 61, gennaio 2008, su engramma.it. Info sul sito della diocesi di Rimini, su diocesi.rimini.it (archiviato dall'url originale il 13 marzo 2007). Descrizione dettagliata del Tempio e delle sue cappelle, su hotel-rimini.com. URL consultato il 12 agosto 2014 (archiviato dall'url originale il 12 agosto 2014). (EN) Orsini Luigi, The Malatesta temple (1915), su archive.org. Disponibile per il download su Internet Archive Fossati, Carlo Giuseppe, Le temple de Malateste de Rimini architecture de Leon Baptiste Alberti de Florence, A Fuligno: chez Jean Tomassini, 1794. Chiesa di Santa Colomba (Rimini) su BeWeB - Beni ecclesiastici in web

Chiesa di Santa Croce nuova
Chiesa di Santa Croce nuova

La chiesa di Santa Croce nuova è una chiesa cattolica di Rimini, risalente al XVII secolo. L'edificio ha subito ingenti danni nel terremoto del 1916 e nei successivi bombardamenti del 1943-44. Viene chiamata nuova per differenziarla dalla chiesa di Santa Croce vecchia. La chiesa di Santa Croce nuova fu costruita nel 1625 dalla Confraternita della Santissima Croce. Nel XVIII secolo la chiesa fu ampliata, su disegno di Giovan Francesco Buonamici, con la costruzione di tre cappelle e ornata con stucchi e pitture. Dal 1796 al 1809 la chiesa fu intitolata ai Santi Simone e Giuda. La maggior parte dell'apparato decorativo settecentesco fu distrutto nel terremoto del 1916. La chiesa subì ulteriori danni dai bombardamenti che colpirono la città di Rimini nel 1943 e 1944. Nell'abside vi è un crocifisso ligneo di anonimo quattrocentesco, inserito in una pala d'altare scultorea del XVIII secolo. La pala d'altare presenta un Dio Padre e angeli in gesso opera di Carlo Sarti e datati circa 1755. Opera del Sarti sono anche le statue in gesso della navata, rappresentanti Sansone, Giosuè, Mosè e Davide. Nelle due cappelle laterali, dedicate a San Pietro Martire e a Sant'Antantonio abate, vi sono due pale d'altare, un San Vincenzo Ferrari e un San'Antonio abate, entrambe opera di Giovan Battista Costa e datate circa 1757, risentono degli influssi di Corrado Giaquinto. Le decorazioni di queste due cappelle, comprendenti le lunette con le storie dei santi e i pennacchi, sono opera di Giuseppe Milani e datate circa 1754. In una terza cappella, situata a destra vicino all'altare e costruita nel 1863, è conservato un Cristo morto in gesso e stucco, sicuramente posteriore all'edificazione della cappella. La Madonna col Bambino, datata 1840 e opera di don Stefano Montanari, era in precedenza conservata nella chiesa di San Tommaso Apostolo, demolita a inizio Novecento. Marco Sassi e Ilaria Balena, Rimini - Arte, storia e monumenti, Bookstones, 2013, ISBN 9788898275021. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa di Santa Croce nuova

Chiesa di Sant'Agostino (Rimini)
Chiesa di Sant'Agostino (Rimini)

La chiesa di Sant'Agostino è una chiesa di Rimini. Fu cattedrale della diocesi di Rimini dal 1798 al 1809. La chiesa, dedicata a san Giovanni evangelista, è nota come "di Sant'Agostino" in quanto gestita dai padri agostiniani dal XIII secolo fino alle soppressioni napoleoniche. Originariamente si ergeva, in parte dove è sita la sagrestia, una chiesa intitolata a san Giovanni Evangelista, che compare citata per la prima volta in un atto del 1069. Nel 1256 fu concessa ai padri agostiniani (aggiungendo all'intitolazione "e di Sant'Agostino"), originari di un piccolo monastero di eremiti brettinesi a nord di Fano, già presenti in città almeno dal 1247, come testimoniato da una bolla di papa Innocenzo IV. L'atto di concessione nel 1256, del vescovo Giacomo, menziona che la allora parrocchia di San Giovanni Evangelista possedeva pascoli, terreni, vigne, a cui il vescovo aggiunse una casa e una torre attigue, oltre ad esentare i padri agostiniani e gli abitanti della parrocchia "ad omni lege diocesiana, et iurisdictione, et istitutione". Grazie anche ad alcuni lasciti, i padri agostiniani acquistarono ulteriori proprietà contigue in aggiunta a quelle concesse, con l'intenzione di "edificare un monistero" in breve tempo, proposizione supportata anche da papa Alessandro IV con una bolla del 1257, concedendo a loro "di poter ricevere delle usure, rapine & altre cose male acquistate [..] fino al numero di 300 lire a Ravenna", a cui seguì l'anno successivo la bolla papale di conferma della concessione della parrocchia. La benevolenza vescovile e papale verso gli ordini mendicanti era a quel tempo favorita dall'intenzione di combattere i movimenti eretici dei Catari, Patarini e Manichei, nonché come contrapposizione al dilagante malcostume del clero secolare. Il nuovo impianto architettonico, conglobante in parte il precedente, era già in stadio avanzato di costruzione nel 1278 e in via di completamento attorno al 1287. Tra queste due date si possono notare due ripensamenti: il primo fu quello di rendere la struttura simmetrica, per cui sul fianco est si può notare un allungamento grazie ad una lesena angolare simmetrica alla cappella del campanile; il secondo fu l'innalzamento della facciata. Infatti la presenza di tre grossi occhi cechi, mai aperti e privi di ghiere, fanno pensare ad una ipotesi originaria diversa, un edificio di stile romanico, sottolineato dal colore rosso dei mattoni e dall'assenza di intonacatura. La struttura realizzata divenne la più importante del periodo gotico riminese, nonché l'edificio più grande mai costruito da un ordine mendicante nella città. Seguirono diversi interventi a causa del terremoto del 1308, la cui intensità viene calcolata attorno all'ottavo grado della scala Mercalli. A tali interventi contribuì il favore della famiglia Malatesta, intenzionata a intrattenere una politica di buoni rapporti con gli ordini mendicanti per inserirsi gradualmente nelle istituzioni cittadine. Ad esempio, nel suo testamento del 1311, Malatesta il Mastin Vecchio stabilì che le spese necessarie per la celebrazione del capitolo generale dei frati eremitani a Rimini fossero sostenuti dai suoi eredi. Nel 1346 il governo cittadino, obbligato da Malatesta il Guastafamiglia, concesse agli agostiniani la via Nova per poter ingrandire il loro monastero, nel quale già operava a un collegio per novizi, una grande biblioteca e uno studio che diverranno, dopo quello bolognese, i più importanti della regione. Si formarono proprio qui due illustri esponenti dell'ordine agostiniano: il beato Tommaso e il teologo Gregorio da Rimini. L'impianto gotico subì diversi lavori di rifacimento tra il 1580 e il 1585, soprattutto per quanto riguarda il tetto e gli affreschi, su spinta di un decreto vescovile che intimava al rettore della parrocchia di imbiancare "l'immagini de sancti depinti nelle mura e guasti nel tempo". Nel Settecento seguirono numerosi ritocchi che ne hanno alterato in parte le originarie fattezze e decorazioni, imprimendole, soprattutto all'interno, uno stile barocco. Frati agostiniani gestirono la chiesa e il monastero fino alle soppressioni napoleoniche. Le spoglie mortali del beato Alberto Marvelli vennero traslate nella chiesa di Sant'Agostino, dal cimitero cittadino, nel 1974. Sita in via Cairoli, attigua a piazza Cavour, è nel pieno centro storico di Rimini. La chiesa di Sant'Agostino è fra le più imponenti della città (soprattutto per il suo svettante campanile) e tuttora conserva parte del pregiatissimo ciclo pittorico della scuola riminese che la adornava prima dei lavori di rinnovo del XVII secolo e che ne testimoniava l'importanza religiosa e culturale. Sulla spinta del menzionato lascito di Malatesta il Mastin Vecchio, il capitolo generale tra il 1315 e il 1318 commissionò alla bottega di Giovanni da Rimini la decorazione del coro e del timpano sopra l'arco trionfale, nella quale parteciparono anche i fratelli di Giovanni, ossia Giuliano e Zangolo. Da un lascito del 1303 che si proponeva di dotare l'altare maggiore di una maestà di Cristo e di una Madonna, si potrebbe dedurre che già tale bottega operava in sito e fosse la realizzatrice delle due commissioni. L'abside e la cappella del campanile, le parti maggiormente conservate, presentano una serie di affreschi dedicati alla Vergine Maria, alla vita di san Giovanni evangelista e a Sant'Agostino. Alla loro base vi sono alcuni affreschi tardo-trecenteschi, in stato di conservazione precario, tra cui una Madonna e angeli di gusto tardogotico, ed ulteriori frammenti primo-quattrocenteschi. Ricche di interesse sono inoltre le numerose cappelle laterali, nelle quali sono conservate pale settecentesche e statue in stucco di Carlo Sarti. Pregiati anche gli stucchi di Ferdinando Bibiena, che ornano il soffitto, e i vari affreschi di Vittorio Maria Bigari. Angelo Turchini, Claudio Lugato e Alessandro Marchi, Il Trecento Riminiese a Stant'Agostino a Rimini, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1995. Vittorio Bassetti, Regesto agostiniano riminese sino all'anno 1300, in Analecta Augustiniana, LXII, Roma, Institutum historicum ordinis S. Augustini Romae, 1998, pp. 245-271. Vittorio Bassetti, Un ritrovato "Libro di entrate/uscite della Provincia Agostiniana di Romagna (1437-1538), in Analecta Augustiniana, LXIII, Roma, Institutum historicum ordinis S. Augustini Romae, 2000, pp. 60-96. Rimini Diocesi di Rimini Parrocchie della diocesi di Rimini Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa di Sant'Agostino Home page della parrocchia di Sant'Agostino, su santagostinorimini.it.

Domus del chirurgo
Domus del chirurgo

La domus del chirurgo è un'abitazione romana della seconda metà del II secolo, scoperta nel 1989 a Rimini in piazza Luigi Ferrari, e aperta al pubblico il 7 dicembre 2007; qui sono stati rinvenuti mosaici, affreschi e reperti, tra cui una delle serie più complete di strumenti chirurgici di età romana, conservate al Museo della città di Rimini. Il sito archeologico della domus del chirurgo mette in luce anche successive stratigrafie archeologiche, comprendendo delle mura di età imperiale, un'abitazione palaziale e parte di una casa bizantina altomedievale. Il sito archeologico rappresenta una sintesi storica delle vicende edilizie della città a partire dal I secolo a.C. fino all'età moderna: gli elementi di maggiore interesse sono identificabili in quattro settori: il comparto della domus del chirurgo, le mura di età imperiale, l'abitazione palaziale risalente in un periodo compreso tra la tarda romanità e l'età gota, e infine la parte di una casa bizantina altomedievale. A seguito del restauro, il complesso archeologico è stato musealizzato in sito per le parti non trasferibili e all'interno del Museo di Rimini per i reperti archeologici rinvenuti. Nella primavera del 1989, durante lo sradicamento di un albero nell'ambito della sistemazione dei giardini di piazza Ferrari, si scoprirono dei frammenti di affresco intrappolati nelle radici dell'albero, uno dei mosaici e ruderi di età romana. Al ritrovamento seguì l'intervento della Soprintendenza Archeologica e del Museo della città di Rimini; dopo i primi accertamenti fu eseguito un sondaggio che mise alla luce delle strutture murarie, una porzione di mosaico e dei manufatti in bronzo, il che diede inizio all'indagine sistematica dell'area. Le campagne di scavo hanno esplorato un'area di 700 m², il cui sottosuolo ha rivelato i primi mosaici a circa 2,5 m di profondità dal piano di campagna, oltre che stratificazioni e varie strutture databili a partire dall'età tardorepubblicana. L'attuale struttura museale in sito fu aperta nel dicembre del 2007 e consente al pubblico di vedere i ritrovamenti camminando su piattaforme sospese trasparenti. Il nome con cui è noto il sito archeologico "domus del chirurgo", si deve al corredo chirurgico rinvenuto: da una mensola originariamente posta sulla parete era caduta una scatola di bronzo, da cui si era rovesciato un gruppo di strumenti in ferro e bronzo utilizzati dal medico per i suoi interventi, pinze, bisturi, scalpelli, sonde e altri attrezzi, nonché bilance e misurini di bronzo; e ancora vasetti in terracotta, e un gruppo di vetri ormai irriconoscibili, pertinenti a fiale e ad altri contenitori di uso farmaceutico. La domus era collocata nei pressi del bacino portuale della foce del fiume Marecchia, prima che il suo percorso fosse deviato verso nord e prima che la linea di costa si spostasse di 1,5 km verso il mare. La domus nel suo complesso aveva un perimetro trapezoidale, che misurava circa 30 m in larghezza con un massimo di 21 m in profondità, con una superficie di 450 m², metà dei quali scoperti; in realtà l'edificio comprendeva anche il corpo residenziale anteriore, che era il componente primario, arrivando così a ricoprire un'area superiore a 1000 m². Della domus sono visibili in planimetria le varie stanze: il vestibolo, cioè l'ingresso, che si affacciava su un cardine romano minore (l'attuale Corso Giovanni XXIII); la prima stanza usata come prolungamento dell'ingresso, che attraverso una porta faceva accedere al cortile e probabilmente al piano superiore; il cortile-giardino, in cui sono stati ritrovati il piede della statua di Ermarco e un bacile marmoreo; il corridoio, che metteva in collegamento la prima stanza con le restanti e dava sul cortile; il triclinio, ambiente dedicato ai pasti, caratterizzato dalla presenza di tre letti disposti intorno a una mensa centrale; la taberna medica composta da: il cubicolo, posizionato successivamente al triclinio, ambiente provvisto di un letto dedicato al ricovero dei pazienti, dotato di una finestra che si affacciava sul corridoio e di una porta che collegava alla stanza di Orfeo; la stanza di Orfeo, in cui è stata rinvenuta la collezione di strumenti medici, tra cui anche quelli chirurgici; una sala di ricevimento; i locali di servizio, tra cui una latrina con caditoia di scarico, un sudatorium o laconicum con riscaldamento pavimentale a ipocausto, su suspensure e un sistema di riscaldamento parietale a tubuli. Sezioni della domus del chirurgo Il piano superiore, ora non più esistente in quanto crollato con l'incendio, conteneva altre stanze residenziali affrescate e mosaicate, probabilmente una dispensa sopra al triclinio e una mensa con cucina. La domus fu ristrutturata nella seconda metà del II secolo, come è testimoniato dalla zona del peristilio, al fine di ricavare nuove aree abitative; successivamente fu abbandonata a causa di un repentino incendio che la distrusse completamente, testimoniato dal fatto che non siano stati messi in salvo una cassetta lignea contenente 89 monete romane e gli strumenti chirurgici ritrovati tra le macerie, oltre al fatto che questi ultimi mostrino segni di fusione dovuta al calore. La datazione dell'incendio è stata fatta sulla base delle monete ritrovate, le più tarde risalenti agli anni 257 e 258. Si suppone che il nome del medico fosse Eutyches sulla base del graffito, tracciato con uno stile di scrittura del III secolo, presente sull'intonaco decorativo del muro del cubicolo nel posto dove era appoggiato il letto, probabilmente inciso da un paziente per ringraziarlo delle cure: Dai ritrovamenti, dai mosaici, dalle decorazioni e dalle numerose scritte in greco ritrovate sul vasellame, si ipotizza che Eutyches fosse proveniente dal mondo greco-orientale, dove probabilmente ha anche studiato, essendo presenti le più grandi scuole di medicina del tempo. A supportare l'origine ellenica di Eutyches ci sono alcuni oggetti che teneva in casa tra cui: un pinax, un quadretto policromo in pasta di vetro con rappresentati tre creature marine, difficilmente reperibile sul mercato occidentale, di cui si ha un esemplare simile a Corinto; due vasetti che contenevano erbe medicinali, i cui nomi sono incisi in greco sugli stessi; un piede della statua di Ermarco, filosofo successore di Epicuro, ritrovata nel giardino della domus; una mano votiva in bronzo associata al culto di Giove Dolicheno, divinità di origine siriana settentrionale venerata dai soldati romani dal II secolo. Inoltre, lo strumentario chirurgico ritrovato suggerisce la specializzazione militare del medico, essendo principalmente rivolto alla cura di traumi e ferite, come il ciatisco di Diocle (un cucchiaio per l'estrazione di punte di freccia), e esclusivamente degli uomini, non delle donne, in quanto mancano strumenti da ostetricia. All'interno della domus sono stati ritrovati centinaia di reperti, ora conservati nella sezione archeologica del Museo della città di Rimini: ferri chirurgici, vasellame da cucina, monete, una consistente serie di decorazioni e mosaici. Gli strumenti chirurgici ritrovati a Rimini rappresentano a oggi la più ricca collezione chirurgica antica del mondo, per varietà e numero degli oggetti: circa 150 pezzi utilizzati per intervenire su ferite e traumi ossei, più una serie di vasetti utilizzati per la preparazione e la conservazione dei medicinali. Nel corredo chirurgico spiccano vari bisturi, sonde, pinzette, tenaglie odontoiatriche, leve ortopediche, un trapano a bracci mobili e diversi ferri utilizzati per esportare calcoli urinari. La tipologia dei ferri chirurgici indica che il chirurgo riminese era un medico militare. Uno dei ritrovamenti più importanti è il cucchiaio di Diocle, pezzo unico al mondo, che serviva per estrarre le punte di freccia conficcate nel corpo: un manico di ferro termina con una lamina a forma di cucchiaio, forata al centro, in modo da bloccare ed estrarre la freccia. Era utilizzato dai medici che operavano sul campo di battaglia. Nel triclinio è stato invece ritrovato il pannello di pasta di vetro con raffigurati i tre animali marini. In mezzo alle macerie del crollo del secondo piano, sopra lo studio medico, sono state trovate 89 monete romane in una cassetta lignea, quasi tutte d'argento. Gli scavi archeologici hanno riportato alla luce molti mosaici ancora intatti e affreschi policromi. Tra i mosaici spicca Orfeo tra gli animali, ritrovato nella taberna medica, che vede al centro Orfeo circondato da animali in ascolto. I mosaici furono realizzati prevalentemente con la tecnica dell'opus tessellatum e dell'opus reticulatum. Mosaici della domus del chirurgo Ilaria Balena e Marco Sassi, La domus del chirurgo e il complesso archeologico di piazza Ferrari, 2. ed, La Pieve, 2009, ISBN 978-88-904644-0-9, OCLC 1075912945. Stefano De Carolis, Ars medica : i ferri del mestiere : la domus del Chirurgo di Rimini e la chirurgia nell'antica Roma, Guaraldi, 2009, ISBN 978-88-8049-351-8, OCLC 876597506. Cristina Giovagnetti, La Domus del Chirurgo - Arredi e suppellettili, in Ariminum, n. 6, Novembre - Dicembre 2017, p. 21. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Domus del chirurgo Domus Rimini, su domusrimini.com. Alberto Angela, La domus del chirurgo in "Creature fantastiche" - Passaggio a Nord Ovest, Rai, 9 gennaio 2021, a 14 min 28 s. Gli scavi di Piazza Ferrari e la domus "del Chirurgo": duemila anni di storia riminese, su archeobologna.beniculturali.it. URL consultato il 24 luglio 2008 (archiviato dall'url originale il 4 aprile 2011).