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Attentato all'ambasciata del Regno Unito in Italia del 1946

Attentati terroristici del 1946Conflitto arabo-ebraico nel Mandato britannico della PalestinaPagine con collegamenti non funzionantiPagine con mappeSionismo
Storia del Regno UnitoStoria della Repubblica Italiana (1946-1963)Storia di Roma nell'età contemporanea
Rome res off bomb damage 1946 fcol a
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L'attentato all'ambasciata del Regno Unito in Italia avvenne nei pressi di Porta Pia a Roma il 31 ottobre 1946 e fu rivendicato dall'organizzazione paramilitare sionista Irgun Zvai Leumi. L'esplosione di due bombe temporizzate, inserite in valigie e lasciate all'ingresso dell'ambasciata, ferì due persone e danneggiò irreparabilmente l'edificio. L'Irgun colpì l'ambasciata perché la riteneva un ostacolo all'immigrazione illegale di ebrei nella Palestina mandataria. Uno degli obiettivi previsti dall'Irgun, l'ambasciatore Noel Charles, era in licenza durante l'attacco. Fu subito stabilito che i militanti stranieri dell'Irgun erano dietro l'attacco e, sotto la pressione del Regno Unito, la Polizia di Stato, i Carabinieri e le Forze di Polizia Alleate perquisirono e radunarono numerosi membri dell'organizzazione Betar, che aveva reclutato militanti tra i profughi sfollati. A conferma dei timori per l'espansione del terrorismo ebraico oltre la Palestina mandataria, quello all'ambasciata fu il primo attacco contro personale britannico da parte dell'Irgun sul suolo europeo. I governi britannico e italiano avviarono un'indagine approfondita e conclusero che l'attacco era stato organizzato dagli agenti dell'Irgun della Palestina mandataria. L'attentato fu condannato dai leader delle agenzie ebraiche che sovrintendevano ai loro rifugiati. L'Italia promulgò successivamente una rigida riforma sull'immigrazione, mentre nel Regno Unito aumentò il sentimento antisemita. Durante i primi anni cinquanta, Israele fece pressione sui Britannici per spingere il governo italiano a non perseguire i militanti. Nel 1952 otto sospetti, tra cui il capobanda Moishe Deitel, furono processati in contumacia e ricevettero condanne lievi che andavano da 8 a 16 mesi. Il governo britannico cercò di anticipare la minaccia del terrorismo ebraico emanato al di fuori della Palestina mandataria all'indomani della seconda guerra mondiale. L'Irgun era stato fondato prima dell'Olocausto per il malcontento con la politica dell'Haganah della havlagah, od autocontrollo. Nel 1936 divenne l'ala armata del sionismo revisionista, con lo scoppio della Grande rivolta araba in Palestina contro la politica britannica sull'immigrazione ebraica. Secondo l'Irgun, il terrorismo era una tattica vincente poiché aveva consentito agli Arabi di far modificare la politica del Regno Unito sulla migrazione ebraica in Palestina. Il conseguente libro bianco del 1939 ridusse ulteriormente l'immigrazione ebraica imponendo delle quote ed innescò una breve risposta militare da parte dell'Irgun e della sua successiva derivazione Lehi, concludendo che solo le campagne di violenza politica contro il personale e le installazioni britanniche potevano smuovere i Britannici. L'Irgun sospese le proprie operazioni quando scoppiò la seconda guerra mondiale alcuni mesi dopo. Le notizie sull'Olocausto provenienti dall'Europa occupata spinsero l'organizzazione ad intraprendere un'insurrezione nel 1944 sotto la guida di Menachem Begin. L'Irgun svolse anche un ruolo chiave nell'organizzazione dell'Aliyah Bet per consentire l'immigrazione ebraica clandestina in Palestina, e si ritiene che abbia individuato l'Ambasciata britannica a Roma convinta che fosse un centro di "intrighi antiebraici" per frenare l'immigrazione ebraica illegale in Palestina. Prima di ritirarsi da direttore generale dell'MI5 in tempo di guerra nel maggio 1946, David Petrie offrì una propria valutazione della minaccia del terrorismo ebraico in Europa e diede un avvertimento: "la luce rossa è decisamente accesa". L'allerta è stata confermata dal suo successore Sir Percy Sillitoe in agosto e settembre, quando affermò che l'Irgun ed il Lehi stessero probabilmente creando piani per assassinare importanti figure britanniche al di fuori del Medio Oriente. L'MI5 considerava la Palestina mandataria una priorità all'interno dell'Impero britannico ed aveva i Defence Security Officers (DSO) di stanza all'interno del mandato, che lavoravano con i Criminal Investigation Departments locali (CID), ed il Secret Intelligence Service (SIS), per raccogliere informazioni sulle minacce terroristiche ebraiche alla Gran Bretagna. Le loro fonti avvertirono che l'Irgun ed il Lehi stavano prendendo di mira il personale britannico al di fuori della Palestina mandataria. L'MI5 fu costretto a prendere sul serio queste minacce: il 22 luglio 1946, l'Irgun compì l'attentato al King David Hotel di Gerusalemme dove vi erano gli uffici del governo britannico, uccidendo 91 persone. In Palestina era in corso una guerriglia a bassa intensità, con sabotaggi delle linee di comunicazione ed attacchi a soldati britannici e poliziotti che provocarono 99 morti tra il 1º ottobre ed il 18 novembre 1946. Mentre l'Haganah decise di sospendere il suo ruolo nelle operazioni di sabotaggio, l'Irgun ed il Lehi estesero le loro operazioni in Europa per colpire i rappresentanti diplomatici britannici. Solo nel novembre 1945 si calcolava che circa 15 000 profughi ebrei fossero riusciti ad entrare in Italia nei sei mesi precedenti alla fine delle ostilità: la posizione geografica del Paese era favorevole al traffico di profughi verso la Palestina. Nel settembre 1945, già impegnato da diversi anni in una rivolta contro le autorità mandatarie britanniche e l'esercito in Palestina, l'alto comando dell'Irgun inviò una missione in Europa il cui scopo era quello di organizzare il flusso di sfollati ebrei sopravvissuti all'Olocausto verso la Palestina, reclutare soldati, impegnarsi in sabotaggi contro il Regno Unito e coordinare le attività tra le organizzazioni sioniste solidali con la causa. Eli Tavin, soprannominato Pesach, fu nominato capo delle operazioni nella diaspora ed allestì la prima base logistica del gruppo in Italia. Tavin trovò un forte sostegno tra i gruppi italiani della resistenza antifascista e, reclutando molti membri dell'organizzazione Betar tra i rifugiati molti dei quali residenti nei campi gestiti dall'UNRRA ed ansiosi di partecipare, istituirono cellule in tutto il Paese, mentre venivano create due scuole per addestrare i commando per le operazioni a Tricase (LE) e Ladispoli (RM). Già nel marzo 1946, diversi rifugiati, tra cui Dov Gurwitz (romeno), Aba Churman (polacco), Natan Rzepkowicz (polacco), Tiburzio Deitel (italiano), Chono Steingarten (polacco) e Girsh Guta (polacco), avevano stabilito un ufficio di corrispondenza ebraica in via Sicilia 135, vicino agli uffici dei servizi segreti alleati, e questo fu scelto per diventare l'ufficio centrale per le operazioni dell'Irgun in Italia. L'ambasciata britannica in Italia era considerata dall'Irgun un centro di operazioni che ostacolavano la migrazione ebraica in Palestina, e quindi fu scelta come obiettivo. La pianificazione dell'operazione fu completata all'inizio di ottobre. Prima della guerra, il movimento Betar di Vladimir Žabotinskij aveva ottenuto da Benito Mussolini il permesso di addestrare militanti presso un Collegio navale stabilito a Civitavecchia (RM) sotto gli auspici delle autorità fasciste italiane. Secondo lo storico del fascismo Giuseppe Parlato, nel dopoguerra l'Irgun aveva acquistato dai Fasci di Azione Rivoluzionaria (FAR) gli esplosivi utilizzati per l'attentato tramite gli uffici del suo co-fondatore Pino Romualdi, un fascista che aveva allestito un deposito segreto di munizioni dell'esercito ed esplosivi dopo la fine della guerra. Furio Biagini afferma che il materiale è stato prelevato da depositi situati in un centro amministrato dall'UNRRA. La notte del 31 ottobre 1946, gli agenti dell'Irgun si divisero in due squadre: una imbrattò una grande svastica sulla parete anteriore dell'ambasciata e l'altra piazzò due esplosivi temporizzati, per un totale di 40 kg di TNT, sui gradini dell'ingresso principale dell'ambasciata in via XX Settembre. Un autista che lavorava per l'ambasciata notò le valigie ed entrò nel retro dell'edificio per denunciare la loro presenza. Pochi istanti dopo, alle 02:43, le bombe furono fatte esplodere. Il boato dell'esplosione echeggiò in tutta la città e fu sufficientemente potente da frantumare tutte le finestre delle case e degli appartamenti nel raggio di un chilometro. La sezione residenziale dell'ambasciata è stata distrutta dall'esplosione che creò un buco nell'ingresso. Noel Charles, l'ambasciatore britannico e principale obiettivo dell'attacco, era via in licenza anche se i suoi alloggi furono gravemente danneggiati. Nessun membro del personale britannico è stato ferito ma due italiani, un soldato di passaggio ed un portiere dell'ambasciata, subirono gravi ferite e rimasero in condizioni critiche. L'attentato fu il primo attacco dell'Irgun in Europa contro il personale britannico, provocando sia una battuta d'arresto per l'immigrazione ebraica illegale in Palestina sia un grave danno per le pubbliche relazioni del sionismo. Il capo della polizia italiana dichiarò il giorno seguente che nessun cittadino italiano era stato coinvolto, che l'incidente portava i segni distintivi di operazioni simili contro i Britannici in Palestina e che i responsabili erano Ebrei dalla Palestina, respingendo le voci secondo cui i fascisti italiani sarebbero stati i responsabili. La Polizia di Stato avviò un'indagine con l'assistenza britannica e statunitense. Il 4 novembre 1946 l'Irgun imbrattò le strade di molte città italiane con avvisi che rivendicavano l'attentato e rilasciò ad un giornalista americano una rivendicazione ufficiale che venne riportata su The Times il 6 novembre. L'Irgun minacciò anche attacchi più coordinati contro il Regno Unito. e giustificò le proprie azioni accusando la Gran Bretagna di essere impegnata in una "guerra di sterminio" contro gli Ebrei in tutto il mondo. Ben presto tre rifugiati furono rapidamente arrestati perché sospettati ed altri due furono detenuti il 4 novembre. In seguito fu scoperta la scuola di sabotaggio dell'Irgun Zvai Leumi a Roma, dove furono trovate pistole, munizioni, bombe a mano e materiale per l'addestramento. Altri quattro sospettati furono arrestati a Genova ed Eli Tavin venne arrestato a dicembre. Tra gli arrestati vi erano Dow Gurwitz, Tiburzio Deitel, Michael Braun e David Viten. Molti di loro erano membri del Betar. Le autorità inglesi chiesero che gli arrestati fossero consegnati a loro per il trasferimento nei campi di prigionia britannici in Eritrea. Uno degli arrestati, Israel Zeev Epstein, un amico d'infanzia del leader dell'Irgun Menachem Begin, tentò di fuggire dalla sua prigionia il 27 dicembre 1946. Aveva ricevuto assistenza dalla sionista Lega americana per una Palestina libera, che fornì coperte, cibo e denaro ma negò di avergli inviato la corda con cui era scappato. Fu colpito allo stomaco dopo che un ufficiale italiano sul posto sparò un colpo di avvertimento e gli intimò di fermarsi. Morì per le ferite in quello stesso giorno. Alla fine, dopo le pressioni del Comando Alleato, i sospetti furono rilasciati. L'avvocato penalista e politico italiano Giovanni Persico, amico di Žabotinskij, assunse la difesa dei sospetti. A novembre, i media britannici iniziarono a diffondere l'idea che il terrorismo ebraico fosse una minaccia per la stessa Gran Bretagna, creando resoconti spesso infondati di altri presunti complotti ed attività terroristiche. Tuttavia, sia la Lega americana per la Palestina libera per conto dell'Irgun e sia lo stesso Irgun fecero concrete minacce. Di conseguenza, i sentimenti antisemiti aumentarono nel Regno Unito. Sebbene la leadership ebraica dei campi dei rifugiati abbia condannato i bombardamenti, l'attacco ebbe un effetto negativo sui rifugiati in Italia. Su pressioni del Regno Unito, il governo italiano promulgò diversi atti legislativi per riformare la politica sull'immigrazione: Il governo fissò una scadenza per il registro per il 31 marzo 1947 ed impose severi requisiti per il rilascio del visto d'ingresso. Le basi operative dell'Irgun in Italia furono chiuse e spostate in altre capitali europee dove i militanti continuarono a colpire obiettivi britannici. Il Lehi intraprese operazioni simili contro il Colonial Office di Londra, portando il Metropolitan Police Service a collegarlo con l'attentato all'ambasciata, e rinunciò solo ad un piano per liberare un ceppo batteri del colera nel sistema di approvvigionamento idrico sotterraneo di Londra alla notizia che il governo britannico aveva annunciato l'intenzione di lasciare la Palestina. Cinque anni dopo l'attentato all'ambasciata, lo Stato di Israele esortò il Regno Unito a fare pressioni sull'Italia per non perseguire gli otto sospettati autori dei bombardamenti che risiedevano in Israele. Cinque di loro erano stati arrestati a Roma ma riuscirono a scappare, mentre altri tre non furono mai arrestati. Il 17 aprile 1952, il governo italiano fece processare Moshe Deitel in contumacia per il suo ruolo guida nei bombardamenti ed il tribunale lo giudicò colpevole, condannandolo a 16 mesi di reclusione. Anche gli altri sette sospettati furono condannati a 8 mesi per aver preso parte all'attentato. Le condanne, però, furono immediatamente annullate dalle amnistie. Furio Biagini, L'Irgun e la resistenza ebraica in Palestina. L'attentato all'ambasciata britannica di Roma (ottobre 1946), in Nuova Storia Contemporanea, vol. 8, n. 5, 2004, pp. 75-92. Roberto Gremmo, L'ebraismo armato. 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Ambasciata del Regno Unito in Italia Irgun Zvai Leumi Lohamei Herut Israel Sionismo Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Attentato all'ambasciata del Regno Unito in Italia del 1946 (EN) La settimana Incom, Inquieto dopoguerra: dopo l'attentato all'ambasciata inglese, su YouTube, 11 agosto 1946. URL consultato il 30 aprile 2021. Ospitato su Istituto Luce. (EN) British Pathé, Rome British Embassy Bombed (1946), su YouTube.

Estratto dall'articolo di Wikipedia Attentato all'ambasciata del Regno Unito in Italia del 1946 (Licenza: CC BY-SA 3.0, Autori, Immagini).

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Villa Patrizi (Roma)
Villa Patrizi (Roma)

Villa Patrizi è un complesso di edifici nel quartiere Nomentano, a Roma, che ospita le sedi della società Ferrovie dello Stato Italiane e del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Originariamente era una villa fuori porta, costruita su progetto dell'architetto Sebastiano Cipriani in stile rococò, e apparteneva alla nobile famiglia dei Patrizi Naro Montoro; fu distrutta nel corso dei combattimenti del 1849 e il corpo centrale fu ricostruito nel decennio successivo; nel 1907 il marchese Filippo cedette l'immobile all'Amministrazione delle Ferrovie dello Stato. L'immobile ha subito nel corso degli anni numerose trasformazioni e della costruzione originale non rimane nulla. Alcune immagini dell'interno dei cortili sono rimaste immortalate nel film del 1955 Destinazione Piovarolo. La sequenza che vede Villa Patrizi al centro dell'azione è quella del giorno della pubblicazione dei risultati del concorso per capostazione dove Totò, il protagonista, si aggiudica l'ultimo posto, con assegnazione alla sperduta (e immaginaria) località di Piovarolo. Villa Patrizi è facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici ATAC, ma anche a piedi da via del Castro Pretorio, da porta Pia e dalla stazione di Roma Termini. L'edificio non è visitabile al pubblico. Al suo interno ospita gli uffici della Fondazione FS Italiane dove sono presenti una biblioteca e una fototeca che testimoniano la storia e lo sviluppo delle ferrovie in Italia. Infine sotto l'aspetto botanico è da registrare la presenza di un grande albero della canfora, tutt'altro che frequente a queste latitudini; vi sono inoltre delle magnifiche palme e chicas centenarie. Linee autobus Armando Bussi, Villa Patrizi e dintorni - Storia e storie, Roma, Palombi editori, 2015, ISBN 9788860607102. Stampe e Foto antiche su Info.roma.it

Chiesa del Sacro Cuore di Gesù (Roma)
Chiesa del Sacro Cuore di Gesù (Roma)

La chiesa del Sacro Cuore di Gesù è un luogo di culto cattolico di Roma, situato nel rione Sallustiano, in via Piave. La chiesa è di recente costruzione, edificata nel 1914-1916 su progetto di Aristide Leonori; il prospetto dà su via Piave, ma nel progetto originario essa doveva affacciarsi su via XX Settembre. È separata dalla strada da una cancellata in ferro battuto. La facciata è preceduta da un avancorpo centrale, alla base del quale vi è l'accesso principale all'edificio costituito da un loggiato a cinque arcate al quale si accede tramite due rampe laterali. L'interno si presenta a tre navate divise da colonne che sostengono a loro volta un matroneo. La volta è a ogiva. Sopra il matroneo si aprono delle finestre decorate con vetri provenienti da Monaco di Baviera raffiguranti diversi santi, i cui nomi corrispondono al nome dei familiari dell'architetto Leonori. Le vetrate del breve transetto rappresentano invece, a destra l'Istituzione dell'Eucaristia e il Sacrificio di Melchisedec; a sinistra, l'Adorazione dell'Eucaristia da parte di tutte le razze. Sulla cantoria in controfacciata, l'organo a canne. Le due navate laterali terminano con absidi, che contengono due tele, un Sant'Ignazio di Loyola, ed una copia della Madonna della strada, il cui originale è conservato nella Chiesa del Gesù. Nell'abside centrale, impreziosito da marmi e mosaici, è raffigurato un Cristo fra santi. Una cancellata in legno che separava il presbiterio dalle navate è oggi sostituita da una in ferro battuto. Tutta la chiesa è impreziosita da opere del Gabrini. La chiesa appartiene alle Ancelle del Sacro Cuore di Gesù, il cui convento è annesso alla chiesa. C. Rendina, Le Chiese di Roma, Newton & Compton Editori, Roma 2000, pp. 87–88 ISBN 978-88-541-1833-1 C. Cerchiai, Rione XVII Sallustiano, in AA.VV, I rioni di Roma, Newton & Compton Editori, Roma 2000, Vol. III, pp. 1038–1063 Carlo Ceschi, Le chiese di Roma: dagli inizi del neoclassico al 1961, Bologna, Cappelli, 1963, ISBN non esistente. Wikibooks contiene testi o manuali sulla disposizione fonica dell'organo a canne Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla chiesa del Sacro Cuore di Gesù Chiesa del Sacro Cuore di Gesù, su acjitalia.org. URL consultato il 16 gennaio 2016.

Porta Collina
Porta Collina

La Porta Collina era una porta nelle Mura serviane di Roma, distrutta a fine XIX secolo, da cui uscivano le vie Nomentana e Salaria. Si trovava all'incirca all'incrocio tra le attuali via Goito e via XX Settembre, sotto l'angolo del Palazzo delle Finanze, per la cui costruzione i resti della porta furono demoliti nel 1872. Significativo è il commento che ha lasciato, in proposito, il Lanciani, testimone dei pesanti interventi urbanistici attuati per il piano regolatore della nuova Capitale: “Per quanto importanti possano essere questi lavori non potranno mai compensare la distruzione seguita contemporaneamente delle mura di Servio: rovina venerabile la quale dopo sfidata per 25 secoli l'azione devastatrice del tempo e degli uomini, costringe ora i demolitori a ricorrere alla forza della polvere da sparo”. In effetti, la porta Collina era stata testimone, nei secoli, di moltissimi degli eventi che hanno segnato la storia militare e politica di Roma. Teatro di battaglie di antiche guerre contro Galli, Sabini ed Etruschi, l'avvenimento più noto fu quando nel 211 a.C., nel pieno della seconda guerra punica, Annibale, posto l'accampamento a 3 miglia di distanza, sull'Aniene, si avvicinò con 2.000 cavalieri numidi alla porta e arrivato fino al “punto più vicino che poteva raggiungere, contemplava a cavallo le mura e il sito della città”. Ma da qui erano anche passati, nel 390 a.C., quei Galli che, saccheggiata Roma, si erano spinti fin sul Campidoglio. E ancora prima, nel 508, durante le guerre etrusche dell'ultimo periodo monarchico, Porsenna, re di Chiusi, aveva posto in questa zona l'assedio alla città, e vi si combatté prima che l'eroico atto più o meno leggendario di Muzio Scevola convincesse il nemico a chiudere le ostilità. Qui erano arrivati i Sabini nel 284, i Fidenati e i Veienti nel 319 e i Prenestini nel 376. Qui, nell'82 a.C., si combatté la battaglia di Porta Collina, in cui Silla annientò l'ultima resistenza dei partigiani di Mario. Sempre dalla porta Collina nel 449 entrò l'esercito plebeo in rivolta che, attraversata tutta l'Urbe, arrivò fino all'Aventino dove già si era radunato l'altro esercito plebeo: era la “seconda secessione plebea” e si lottava per la difesa dei diritti del popolo, contro i decemviri e per vendetta contro le offese di Appio Claudio; i due eserciti riuniti, accompagnati da metà della popolazione, uscirono poi di nuovo dalla porta Collina per asserragliarsi sul Monte Sacro (sul quale si erano già rifugiati nel 494 durante la prima secessione), dove aspettarono che il Senato ristabilisse finalmente l'istituto del tribunato della plebe ed abolisse l'odiato strapotere dei decemviri. La porta Collina, come anche la Viminale, l'Esquilina e la Querquetulana, risalgono quindi a un periodo molto antico, circa un paio di secoli precedente a quello della costruzione delle mura serviane. Sembra infatti che le quattro porte originarie si possano far risalire all'ampliamento della città operato dal re Servio Tullio, che comprese nel territorio dell'Urbe, oltre alle alture già inserite tra gli iniziali sette colli, anche il Quirinale (Collis Quirinalis), il Viminale, l'Esquilino e il Celio (Querquetulanus, cioè coperto di boschi di querce). Della stessa epoca è ovviamente anche il primo baluardo difensivo che le collegava tra di loro. Del resto tutta la parte nord dell'antica Roma, essendo completamente pianeggiante, era la più esposta e di conseguenza si era dovuto provvedere, fin dai tempi della monarchia, a proteggerla con la massima cura, con la costruzione dell’agger lungo tutto il tratto dei circa 1.300 m dalla Porta Collina all'Esquilina. Un indizio dell'antichità di queste porte è fornito, secondo gli studiosi, anche dal loro nome, che deriva direttamente da quello dell'altura cui davano accesso, anziché essere l'aggettivazione di qualche monumentalizzazione (templi, altari, ecc.) lì presente, che non può che essere successiva all'inglobamento dell'area nel perimetro urbano. La struttura della porta, almeno nella forma più antica, era molto semplice, costruita in blocchi di tufo. La sua delicata posizione strategica suggerì di difenderla con un alto muraglione e una torre massiccia. Dalla Porta Collina uscivano le vie Salaria e Nomentana, in prosecuzione del vicus Portae Collinae che scendeva direttamente dal colle Quirinale. Tutta l'area intorno alla porta era tristemente nota come il “campus sceleratus”, dove venivano sepolti i condannati a morte e le Vestali ree di non aver osservato il voto di verginità. La prima di cui si abbia notizia fu la Vestale Minucia, nel 336 a.C.: la pena per loro era di essere sepolte vive, come raccontano Plutarco, Fedro e Pomponio Leto. Nel 1996 sono stati effettuati nuovi scavi archeologici nell'area posta all'incrocio tra via Goito e via XX Settembre, dove si trovano le tracce di ciò che rimane della porta Collina. La ristrettezza del saggio di scavo non ha potuto mettere in luce le fondazioni della porta e del tratto di mura a essa connesso; inoltre, la parte inferiore delle mura è risultata coperta da uno strato composto da limo, ghiaia, frammenti ceramici sporadici e frammenti di tufo, che ricopriva anche la trincea di fondazione. Questo strato poteva avere una funzione di piccolo contrafforte interno alle mura stesse, una sorta di ridotto aggere di contenimento. Sono anche state messe in luce due strutture quadrangolari, interpretate dagli archeologi come bastioni a ulteriore difesa della porta, al centro dei quali passava il Vicus Portae Collinae. Al momento si tratta comunque solo di interpretazioni, in quanto la situazione è tuttora dibattuta. Strabone, Geografia, V. Mauro Quercioli: Le mura e le porte di Roma. Newton Compton Ed., Roma, 1982 Laura G.Cozzi: Le porte di Roma. F.Spinosi Ed., Roma, 1968 Battaglia di Porta Collina Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Porta Collina

Acquedotto alessandrino
Acquedotto alessandrino

L'acquedotto Alessandrino (Aqua Alexandrina), l'undicesimo acquedotto dell'antica Roma, venne edificato nel 226 d.C. dall'imperatore Alessandro Severo (11 marzo 222 – 19 marzo 235). Fu l'ultimo a essere realizzato dei grandi acquedotti dell'antica Roma. La sua realizzazione era finalizzata all'approvvigionamento idrico delle terme di Nerone che, situate in Campo Marzio presso il Pantheon (circa nella zona occupata oggi da Palazzo Madama), erano state radicalmente ristrutturate dallo stesso imperatore, e che pertanto da allora assunsero anche la denominazione di "terme Alessandrine" (Thermae Alexandrinae). Le sue acque venivano captate da falde acquifere in località “Pantano Borghese”, nei pressi del XIV miglio dell'antica via Prenestina, 3 km a nord dell'abitato di Colonna. Il percorso si sviluppava, date anche le notevoli capacità tecniche dell'epoca, in buona parte su arcuazioni, mentre i tratti sotterranei erano limitati a cunicoli (di 0,72 m di larghezza per 1,80 di altezza) per oltrepassare le alture. Le arcate dell'acquedotto Alessandrino, in speco sotterraneo fino alla tenuta di Torre Angela, sono tuttora quasi per intero visibili nei tratti successivi sui vari fossi (nella zona di Centocelle le arcate raggiungono la massima quota, tra i 20 e i 25 m) fino alla zona della “Marranella”, dopo la quale raggiunge, in percorso sotterraneo sconosciuto, la zona di Torpignattara. Da qui lo speco procedeva nuovamente interrato fino ad entrare in Roma nella zona cosiddetta ad spem veterem, nei pressi dell'attuale Porta Maggiore. Rodolfo Lanciani, al riguardo, afferma che«...[l'acquedotto] penetrava in città a un livello di 3,18 m inferiore all'attuale soglia di Porta Maggiore»che era poi il livello di campagna dell'epoca. Nelle vicinanze doveva trovarsi la piscina limaria, il bacino di decantazione per la purificazione delle acque. Nessun altro avanzo del percorso è visibile all'interno della cinta delle Mura Aureliane. L'acquedotto Alessandrino giungeva alle terme di Nerone dopo un percorso di circa 22,7 km. Si è calcolato che la portata giornaliera di acqua fosse pari a 21.632 m3, circa 250 litri al secondo. Oggi le stesse sorgenti sono utilizzate dall'acquedotto dell'Acqua Felice, realizzato nel 1585 per volontà di papa Sisto V. I principali interventi di restauro risalgono all'epoca di Diocleziano, a cavallo tra il III e il IV secolo, poi tra il V e il VI secolo, e ancora verso la fine dell'VIII, ad opera di papa Adriano I. Acquedotti di Roma Acquedotto Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Acquedotto alessandrino

Palazzo delle Finanze
Palazzo delle Finanze

Il Palazzo delle Finanze è un palazzo storico di Roma, sede del Ministero dell'economia e delle finanze. Voluto da Quintino Sella, che pensò di ospitare qui i 2.200 dipendenti del Ministero delle finanze del Regno d'Italia (compreso il personale della Corte dei conti e delle direzioni generali del Tesoro, del Demanio, del Debito pubblico e della Cassa depositi e prestiti), fu realizzato in cinque anni. Oggi ospita 7.295 unità di personale. Il progetto è dell'ingegner Raffaele Canevari, in collaborazione con altri importanti architetti dell'epoca. Di Francesco Pieroni è il portico rinascimentale interno, di Ercole Rosa l'ingresso di via XX Settembre e di Pietro Costa l'ingresso di via Cernaia. La costruzione dell'edificio fu appaltata alla Società Veneta Costruzioni Pubbliche, di cui Vincenzo Stefano Breda era socio fondatore e presidente. L'avvio della costruzione del palazzo, insieme ai lavori di ammodernamento della Stazione Termini (già Pio Centrale), segnò l'avvio dell'irresistibile ondata di espansione urbana che portò alla nascita, secondo il piano regolatore di Luigi Pianciani del 1873, dei "nuovi" rioni di Roma - il quartiere Macao o dell'Indipendenza (rione Castro Pretorio, di cui il Palazzo delle Finanze è parte), il Sallustiano, il Ludovisi, l'Esquilino - dopo lo spostamento a Roma della capitale del Regno d'Italia. Per i lavori di costruzione del Ministero furono demoliti i resti di Porta Collina, una delle porte superstiti delle antiche mura serviane, e furono coperti anche parte dei resti delle Terme di Diocleziano. L'edificio è lungo 300 metri e largo 120; si estende su di una superficie coperta pari a 137.711 m2. Il Palazzo delle Finanze, quale primo grande edificio pubblico della nuova capitale del Regno d'Italia, ospitò per un certo periodo anche il Consiglio dei Ministri, nella cosiddetta Sala della Maggioranza. La volta della sala, decorata da Cesare Mariani, rappresenta al centro l'allegoria dell'Italia e ai quattro lati, affacciati a delle balaustre, i quattro gruppi che idealmente hanno determinato l'unità e l'indipendenza della nazione: casa Savoia, i condottieri militari, i politici-legislatori e i poeti-filosofi. Il lampadario centrale, originale, in ferro battuto e decorazioni dorate è di Francesco Pieroni. Di notevole valore è anche la Sala del Parlamentino, storicamente sede delle udienze pubbliche della Corte dei conti: a coronamento del volume a doppia altezza, secondo il progetto di Domenico Bruschi e Cecrope Barilli, il pregiato soffitto a cassettoni a motivi floreali. Di particolare pregio la Sala azzurra, una sala riunioni del Direttore generale del Tesoro con vetrate di pregio dell'antica Vetreria De Matteis di Firenze. Dal 1961 al 2014 è stato collocato nel Palazzo delle Finanze il Museo numismatico della Zecca Italiana gestito dall'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, che custodisce oltre ventimila opere numismatiche, tra monete, medaglie, bozzetti ed altri oggetti di conio. Larga parte della collezione, di alto pregio, fu incorporata dal Gabinetto Numismatico della Zecca Vaticana a seguito della presa di Roma nel 1870. Il museo è dal 2016 nella nuova sede di via Salaria 712. Tra il 2003 e il 2006 sono stati realizzati quattro rilevanti interventi di riqualificazione degli spazi del palazzo, che hanno inserito elementi moderni e tecnologici nell'architettura dell'edificio: l'ingresso in cristallo e acciaio denominato Porta dell'Europa, il Pool informatico DT-RGS, la nuova biblioteca del Dipartimento del Tesoro e il Polo multifunzionale RGS. Questi quattro interventi sono descritti nella bibliografia recente sul Palazzo; gli ultimi tre sono stati progettati dall'architetto Daniele Durante. Ermanno Polla, Il Palazzo delle Finanze di Roma capitale, 1979, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, ISBN 88-24-01407-0 AA.VV., Il Palazzo del Tesoro e delle Finanze, 1989, Editalia, ISBN 978-88-70-60190-9 Ministero dell'economia e delle finanze (a cura di), Il Palazzo delle Finanze in Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2007, edizione limitata Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Palazzo delle Finanze Il Palazzo nel sito del Ministero, su mef.gov.it.

Palazzo dei Marescialli
Palazzo dei Marescialli

Palazzo dei Marescialli è un palazzo di Roma sito in piazza dell'Indipendenza, nel rione Castro Pretorio. Dal 1962 è sede del Consiglio superiore della magistratura. Nell'ambito della realizzazione di piazza dell'Indipendenza nel 1877 fu ottenuta una licenza edilizia per la costruzione di un villino tra la piazza e via San Martino della Battaglia su progetto dell'ingegnere Luigi Bedeschi. Tale progetto non fu mai realizzato ma due anni dopo il direttore della Banca Tiberina presentò al sindaco reggente di Roma Emanuele Ruspoli un altro progetto per la realizzazione di un palazzo alto 19 metri per quattro piani di proprietà del senatore Giacomo Astengo. Il progetto fu approvato nel giugno 1879 e i lavori, iniziati nello stesso anno, si conclusero presumibilmente nel 1881, anno a cui risalgono le licenze di abitabilità dei vari piani del palazzo. Alla morte di Astengo nel 1884 il palazzo fu ereditato dalla figlia Elisa sposata con Enrico Baldini mentre dalla voltura del 6 agosto 1919 risulta proprietario il conte Silvio Brunori. Quest'ultimo commissionò un progetto di ampliamento dell'immobile, realizzato dagli ingegneri Guido Romanelli ed E. Ambrosini, che però non fu mai attuato poiché il 26 agosto 1920 la proprietà fu acquistata da Rosa Sestieri in Castelnuovo ed Enrico Castelnuovo. Quest'ultimo ottenne la licenza per l'ampliamento dell'edificio, accorpando il vicino villino Castelnuovo, ed affidò il progetto all'ingegnere Enrico Paniconi. I lavori iniziarono nello stesso anno e si conclusero nel 1923. Sotto il governatorato di Roma nel 1935 il palazzo fu selezionato come sede dei Marescialli d'Italia e furono portati avanti, soprattutto negli ambienti interni, dei lavori di ristrutturazione sotto la direzione dell'architetto Costantino Costantini e dell'ingegnere Michele Oddini. I Castelnuovo risultano proprietari dell'immobile fino al decreto di esproprio del prefetto di Roma del 1939. Nel secondo dopoguerra il palazzo diventò residenza del Ministro delle finanze mentre nel 1960 fu individuato dal neoistituito Consiglio superiore della magistratura come propria possibile sede. Tra il 1960 e il 1961 il ministero ha formalizzato il passaggio dell'immobile al CSM, con un valore stimato di 530 milioni di lire, mentre la cerimonia di inaugurazione si è tenuta il 15 febbraio 1962. L'edificio è intitolato, dal 12 Febbraio 2024, a Vittorio Bachelet, il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura assassinato nel 1980 dalle Brigate Rosse. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Palazzo dei Marescialli