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Palazzina Mancioli

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La Palazzina Mancioli è un edificio in stile modernista sito a Roma in via Lusitania 29, nel quartiere di San Giovanni, progettato dagli architetti Mario Ridolfi e Wolfgang Frankl nel marzo del 1952 e terminato nel febbraio del 1954. Committente dell'edificio fu Tito Mancioli, da cui il nome della palazzina.

Estratto dall'articolo di Wikipedia Palazzina Mancioli (Licenza: CC BY-SA 3.0, Autori).

Palazzina Mancioli
Via Vulci, Roma Municipio Roma VII

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Porta Latina
Porta Latina

Porta Latina è una delle porte che si aprono nelle Mura Aureliane di Roma. È tra le più imponenti e meglio conservate tra le porte originali dell'intera cerchia muraria e il suo nome deriva da quello dell'omonima via che la attraversa e che, in epoca romana, era la strada per giungere fino a Capua. All'interno della città iniziava dall'antica Porta Capena delle mura serviane, e subito dopo si divideva, appunto, in via Latina e via Appia, per ricongiungersi di nuovo dopo Capua. I filologi del XIV secolo riferiscono di una leggenda (il cui elemento più evidente è l'anacronismo della stessa) secondo la quale il nome deriverebbe dal fatto che qui si sarebbe nascosto (latens, appunto) il dio Saturno, in fuga dopo essere stato detronizzato dal figlio Giove. Dal XIII secolo è attestato anche il nome di Porta Libera, di cui però non si ha più traccia dal XVIII secolo a favore della definizione “classica” di Porta Latina. La struttura della porta, che non ha subito interventi tali da alterare sensibilmente l'aspetto originario, è probabilmente sempre stata ad una sola arcata, che all'epoca della ristrutturazione della cerchia cittadina operata dall'imperatore Onorio nel 401-403 venne sensibilmente ridotta, unica tra le porte aureliane, da circa 4,20 m di larghezza per 6,55 di altezza (la traccia della dimensione originale è ancora visibile) agli attuali 3,73 per 5,65, probabilmente per motivi difensivi. Al centro dell'arco, sul lato esterno, è tuttora visibile il monogramma di Costantino, mentre sul lato opposto è incisa una croce di San Giovanni o di Malta. Questi due simboli, unitamente all'assoluta mancanza di resti di iscrizioni di epoca onoriana, inducono alcuni studiosi a propendere per l'ipotesi che il restauro possa essere di epoca successiva. L'intero edificio, merlato, è affiancato da due torri a pianta semicircolare fornite di feritoie; quella sul lato Ovest fu però interamente riedificata da Onorio e in seguito restaurata in epoca medievale. Ma anche l'altra subì un rimaneggiamento di un certo rilievo: lo dimostra la presenza delle feritoie per gli arcieri anziché i finestroni per le baliste, come nelle torri originarie di Aureliano, e in più, la base della torre ha una pianta diversa dall'alzato. All'epoca onoriana risale anche il rifacimento in travertino della facciata, nella quale vennero aperte, in corrispondenza della camera di manovra, cinque finestre ad arco, che furono però di nuovo chiuse abbastanza presto, già nel VI secolo. L'accesso alla camera di manovra era consentito attraverso una porticina, tuttora esistente e funzionante, sul lato interno della torre di destra. Come era consueto per le porte di una certa importanza, la chiusura esterna era a saracinesca, mentre quella interna a due battenti. Il cortile fortificato interno, con la relativa controporta, non esiste più. Già dal V secolo e almeno fino al XV, è attestato come prassi normale l'istituto della concessione in appalto o della vendita a privati delle porte cittadine e della riscossione del pedaggio per il relativo transito. È del 1217 (quando i pontefici, in pieno contrasto col Comune di Roma, avevano ormai il controllo amministrativo sulle gabelle di quasi tutte le porte) una bolla di papa Onorio III con la quale veniamo informati che i proventi del pedaggio della porta erano devoluti alla chiesa di San Tommaso in Formis. In un documento del 1467 è riportato un bando che specifica le modalità di vendita all'asta delle porte cittadine per un periodo di un anno. Da un documento del 1474 apprendiamo che il prezzo d'appalto per le porte Latina e Appia insieme era pari a ”fiorini 39, sollidi 31, den. 4 per sextaria” (“rata semestrale”); si trattava di un prezzo non altissimo, e non eccessivo doveva essere quindi anche il traffico cittadino per le due porte, sufficiente comunque per poter assicurare un congruo guadagno al compratore. Guadagno che era regolamentato da precise tabelle che riguardavano la tariffa di ogni tipo di merce, ma che era abbondantemente arrotondato da abusi di vario genere, a giudicare dalla quantità di gride, editti e minacce che venivano emessi. L'importanza dell'accesso dovette però crescere sensibilmente in quell'epoca, se nel 1532 il prezzo della sola porta Latina era salito a ”centoventi fiorini, dieci salme di legna e dieci di fieno”, come stabilito in un documento in cui il papa Clemente VII la concede in appalto a tal Innocenzo Mancini. Non molto fortunata, la porta fu chiusa per interramento prima dal re Ladislao di Napoli nel 1408, insieme alla Porta Asinaria, durante l'occupazione della città (ma fu riaperta dopo solo quattro mesi), poi nel 1576 e nel 1656 in occasione, per entrambe le circostanze, di una pestilenza (grave in quasi tutta Italia la seconda). In quest'ultima circostanza trascuratezza o lungaggini burocratiche la tennero chiusa per ben 13 anni, fino all'intervento risolutore del cardinal Giulio Gabrielli che il 5 maggio 1669 la fece riaprire con una solenne cerimonia. Ma a parte le epidemie, un valido motivo del declino della porta fu la progressiva perdita d'importanza della via Latina a favore della vicina via Appia, né la vicinanza dell'importante Chiesa di San Giovanni a Porta Latina riuscì a frenarne la crisi. Restauri del XVII secolo, testimoniati dagli stemmi dei papi Pio II, Urbano VIII e Alessandro VII posti nelle immediate vicinanze, non risollevarono le sorti della porta, che rimase definitivamente chiusa per quasi tutto l'800 (dal 1808, tranne alcuni mesi nel 1827) e venne riaperta solo nel 1911, dopo essere riuscita a bloccare anche le truppe italiane che, nel settembre 1870, avevano tentato di aprire qui, prima ancora che a Porta Pia, una breccia. Filippo Coarelli, Guida archeologica di Roma, A.Mondadori Ed., Verona 1984. Mauro Quercioli, Le mura e le porte di Roma, Newton Compton Ed., Roma 1982. Laura G. Cozzi, Le porte di Roma, F.Spinosi Ed., Roma 1968. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Porta Latina Storia, Foto e Stampe antiche, su info.roma.it. Roma segreta, su romasegreta.it. URL consultato il 12 novembre 2011 (archiviato dall'url originale il 19 ottobre 2011).

Chiesa di San Giovanni in Oleo
Chiesa di San Giovanni in Oleo

San Giovanni in Oleo è una chiesa di Roma, sita a Porta Latina. Il tempietto - piuttosto un oratorio che una vera e propria chiesa - è dedicato a san Giovanni Evangelista, nel luogo tradizionalmente indicato come quello del suo tentato martirio. Secondo la tradizione, nel 92 san Giovanni sopravvisse al tentato martirio per immersione in una vasca di olio bollente, per ordine dell'imperatore romano Domiziano, come riportato nella Legenda Aurea: L'anziano apostolo avrebbe resistito così a lungo senza essere bruciato, che gli astanti, convinti di avere di fronte un potente mago, lo avrebbero liberato, per poi inviarlo in esilio a Patmo, dove avrebbe scritto l'Apocalisse di Giovanni. Sul luogo in cui secondo un'antica tradizione avvenne tale episodio furono erette in epoca paleocristiana, intorno al V secolo, la basilica di San Giovanni a Porta Latina ed un martyrion di forma circolare conosciuto con il nome di San Giovanni in Oleo cioè "nell'olio" con riferimento al supplizio del santo. La costruzione giunse fino al XVI secolo, evidentemente in cattive condizioni, quando ne venne decisa la ricostruzione. La struttura attuale è una cappella rinascimentale realizzata all'inizio del XVI secolo, intorno al 1509 su commissione del prelato francese Benoît Adam, ricordato in un'iscrizione sul portale occidentale. Il progetto è genericamente attribuito a Donato Bramante o ad Antonio da Sangallo il Giovane senza elementi documentali. La piccola costruzione ha una pianta ottagonale con lesene doriche piegate sugli angoli che sorreggono una trabeazione molto semplice. San Giovanni in Oleo fu poi restaurata da Francesco Borromini, intorno al 1657, su commissione del cardinale Francesco Paolucci che intendeva trasformarla in cappella di famiglia. Borromini riedificò o modificò la copertura, costituita da una cupola a padiglione con costoloni, sovrapponendovi un tamburo con un alto fregio a stucco, una copertura conica ed un fastigio terminale in stucco con foglie di palma e gigli, globo di rose (emblema del committente) e croce e aggiungendo alla trabeazione esistente un'alta fascia decorata con festoni di rose e palme. La natura e la cronologia dell'intervento di Borromini è controverso. Secondo alcuni dopo aver realizzato una copertura a costoloni, intervenne anni dopo innalzando il tamburo e nascondendola. È stato ipotizzato anche che la modifica sia stato un intervento settecentesco di completamento su disegni di Borromini stesso. Contemporaneamente al restauro di Borromini, le pareti del piccolo sacello furono adornate da stucchi e affrescate da Lazzaro Baldi con la raffigurazione di storie dell'evangelista tra cui la Visione di San Giovanni ed il tentato martirio. Chiesa di San Giovanni a Porta Latina Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla chiesa di San Giovanni in Oleo Storia, Foto e Stampe antiche

Catacomba dei Santi Gordiano ed Epimaco
Catacomba dei Santi Gordiano ed Epimaco

La catacomba dei Santi Gordiano e Epimaco è una catacomba di Roma, sull'antica via Latina, oggi nei pressi di piazza Galeria, nel quartiere Appio-Latino. La catacomba, intitolata ai due martiri ivi sepolti, al momento della sua scoperta fu chiamata "catacomba dell'Acqua Mariana", finché l'archeologo Enrico Josi, nel corso di una campagna di scavi organizzata durante l'ultima guerra mondiale (1940-1941), non la identificò con la catacomba di Gordiano ed Epimaco. Una scoperta casuale fu fatta nel 1955: durante gli scavi per un edificio in superficie fu ritrovato, e in parte abbattuto, un cubicolo affrescato, che fu salvato dalla distruzione totale per l'intervento di padre Antonio Ferrua, all'epoca direttore della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Solo alcune delle gallerie di questo cimitero ipogeo sono state scoperte e in parte scavate; gli archeologi ritengono che si tratti di una necropoli molto vasta, disposta su più livelli, ancora utilizzata, come dimostrano alcune iscrizioni datate trovate sul luogo, durante l'impero di Flavio Claudio Giuliano (361-363). Le fonti antiche ricordano la sepoltura nel cimitero ipogeo sulla via Latina nei pressi delle mura Aureliane di questi martiri: Gordiano, Epimaco, Quarto, Quinto. Questi santi sono tutti menzionati nel martirologio geronimiano alla data del 10 maggio. Secondo la tradizione cristiana, Gordiano subì il martirio durante la persecuzione dell'imperatore Giuliano, mentre Epimaco morì un secolo prima, durante la persecuzione dell'imperatore Decio (249-251). Dei martiri Quarto e Quinto non si ha nessuna notizia. La sepoltura di questi martiri nella catacomba è poi confermata dall'itinerario per pellegrini del VII secolo, la Notitia ecclesiarum urbis Romae, la quale aggiunge la presenza di un altro santo, Trofimo. Altri itinerari, oltre ai cinque già nominati, ricordano altri martiri sepolti: Sofia, Sulpicio e Serviliano. Le notizie su questi ultimi quattro martiri sono confuse e frammentarie. Gli itinerari altomedievali menzionano la presenza, nel sopraterra, di una basilica, dedicata ai santi Gordiano ed Epimaco, e di un mausoleo dedicato a Trofimo. Non esistono tracce archeologiche di questi monumenti. Il monumento più interessante di questa catacomba è quello scoperto nel 1955 e battezzato col nome di "cubicolo D". Esso è a forma quadrata con tre arcosoli. Gli affreschi delle pareti sono databili alla seconda metà del IV secolo. Quello più importante raffigura Cristo seduto nelle vesti di "maestro", con due figure ai lati, identificabili con i martiri Gordiano ed Epimaco, che hanno tra le mani una corona, simbolo del martirio. Altri affreschi raffigurano Mosè che riceve le tavole della legge, la risurrezione di Lazzaro, il peccato originale e l'episodio veterotestamentario della "casta Susanna" (rappresentata nuda in una vasca da bagno). De Santis L. - Biamonte G., Le catacombe di Roma, Newton & Compton Editori, Roma 1997, 271-274 Ferrua A., Un nuovo cubicolo dipinto della via Latina, in Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia 45 (1972-73) 171-187 Josi E., Di un nuovo cimitero sulla via Latina, in Rivista di Archeologia Cristiana 16 (1939) 197-2003, 17 (1940) 31-39 e 20 (1943) 9-45

Sepolcro degli Scipioni
Sepolcro degli Scipioni

Il sepolcro degli Scipioni è un monumento funerario di età romana che si trova a Roma, lungo la via Appia antica, poco distante dalla Porta San Sebastiano. Su alcuni sarcofagi ivi contenuti sono stati rinvenuti i cosiddetti Scipionum elogia. La fondazione del sepolcro si può far risalire con certezza all'inizio del III secolo a.C. ad opera di Lucio Cornelio Scipione Barbato, console nel 298 a.C., il cui sarcofago, l'unico rimasto intatto, occupava il posto d'onore ed è ora ai Musei Vaticani unitamente agli originali delle iscrizioni. Grazie a numerose testimonianze antiche, in particolare di Cicerone, sappiamo che fu in uso fino all'inizio del I secolo a.C. e il corpo principale era praticamente completo entro la prima metà del II secolo a.C. Si sa anche che custodiva i resti di un estraneo alla famiglia: il poeta Quinto Ennio, di cui Cicerone ci dice esistesse anche una statua di marmo. Per quanto riguarda l'esponente più noto della famiglia, Scipione l'Africano, già gli antichi erano in dubbio se fosse stato sepolto qui oppure nella villa di Liternum, dal momento che in entrambe si trovava un suo monumento funebre con statua. Le iscrizioni sui sarcofagi (solo su sette esemplari) permettono di datare l'uso dell'ipogeo fino al 150 a.C. circa, quando la struttura era completa e venne affiancata da un'altra stanza, di forma sempre quadrangolare ma non in asse con la prima, dove furono sepolti pochi altri membri della famiglia, non oltre comunque il II secolo a.C. Risale a quell'epoca la creazione di una solenne facciata "rupestre". La decorazione viene attribuita all'iniziativa di Scipione l'Emiliano, ed è un fondamentale esempio di ellenizzazione della cultura romana nel corso del II secolo a.C. A quell'epoca il sepolcro divenne una sorta di museo familiare, che perpetuava e diffondeva le imprese dei suoi componenti. L'ultimo utilizzo conosciuto del sepolcro si ebbe in epoca claudio-neroniana, quando vi furono inumati la figlia e il nipote di Cornelio Lentulo Getulico, determinata dai motivi ideologici legati alla discendenza dagli Scipioni. Inglobato in parte in una abitazione del III secolo d. C., in epoca moderna - benché l'ubicazione approssimativa fosse comunque nota grazie alle fonti - fu riscoperto a due riprese, nel 1616 e di nuovo dai proprietari del fondo nel maggio del 1780, durante lavori per la costruzione di una cantina. Danneggiato da scavi condotti coi metodi distruttivi di quei tempi, in cui lo scopo principale era spesso solo quello di trovare tesori, il sepolcro fu restaurato integralmente nel 1926 a cura della X Ripartizione del Comune di Roma. In quell'occasione vennero asportate le murature apposte dagli scopritori per sostenere le volte crollanti e furono eseguiti precisi studi per ricollocare (in copia) le iscrizioni antiche e i sepolcri. Da dicembre 2012, il sepolcro degli Scipioni è visitabile grazie ai Volontari per il Patrimonio Culturale del progetto Aperti per voi del Touring Club Italiano. Il monumento è diviso in due corpi distinti: il principale, scavato in un banco di tufo a pianta grosso modo quadrata, e una galleria comunicante di epoca posteriore, costruita in mattoni, con ingresso indipendente. La regolarità dell'impianto fa ritenere che lo scavo sia avvenuto appositamente per la tomba, non sembra plausibile il riciclo di un'antica cava di tufo. Il corpo centrale è diviso da quattro grandi pilastri risparmiati nell'opera di escavazione per assicurare la solidità all'ipogeo; sono presenti quattro gallerie lungo i lati e due centrali che si incrociano perpendicolarmente, dando all'insieme un aspetto vagamente "a griglia". Della facciata, rivolta verso nord-est, ci resta solo una piccola parte sulla destra, con scarsi resti di pitture. Era composta da un alto podio con severe cornici a cuscino, nel quale si aprivano tre archi in conci di tufo dell'Aniene: uno conduceva all'ingresso dell'ipogeo (centrale), uno alla nuova stanza (destra), mentre il terzo (sinistra) era cieco ed aveva una funzione puramente ornamentale (a meno che non si pensasse in futuro di scavare un'ulteriore camera su questo lato). Questo basamento doveva essere interamente ricoperto di affreschi, di cui rimangono solo piccole parti nelle quali sono stati individuati tre strati: i due più antichi (dalla metà del II secolo a.C. circa) presentano scene storiche (si riconoscono le figure di alcuni soldati), mentre l'ultimo, più recente, ha una semplice decorazione in rosso a onde stilizzate (I secolo d.C.). Più spettacolare era la parte superiore della facciata, dove esisteva un alto prospetto tripartito, con sei semicolonne e tre nicchie, entro le quali, secondo la testimonianza di Livio, erano state collocate le statue dell'Africano, di suo fratello Scipione l'Asiatico e del poeta Ennio. L'attribuzione all'epoca dell'Emiliano confermerebbe questa struttura come uno dei primissimi esempi di architettura ellenistica a Roma. A sinistra, una grossa cavità circolare ha distrutto un angolo della tomba, probabilmente per via dell'uso come calcara in epoca medievale. I sarcofagi erano circa trenta, collocati lungo le pareti, un numero che approssimativamente corrisponde abbastanza bene al numero di Scipioni vissuti tra l'inizio del III e la metà del II secolo a.C. Sono di due tipi: monolitici, cioè scavati in un unico blocco di tufo, e costruiti, cioè composti da lastre accostate. Quello di Barbato era in fondo al corridoio centrale, in asse con l'ingresso principale. Gli altri sarcofagi dovettero essere aggiunti via via in seguito, talvolta addossati, talvolta in nicchie scavate nelle pareti. Nella seconda camera le tombe sono più grandi e arrivano a sembrare piccole tombe "a camera". I sarcofagi più importanti sono quello di Scipione Barbato, ai Musei Vaticani, e quello del cosiddetto Ennio, di vaste dimensioni. Essi non hanno riscontri con la coeva scultura etrusca, ma dimostrano altresì l'originalità della cultura latina e in particolare romana, confrontabili con altre tombe romane (come nella necropoli dell'Esquilino) di altre città come Tuscolo. Il sarcofago di Scipione Barbato (lunghezza 242 cm), qui presente con una copia (l'originale è ai Musei Vaticani), era in peperino, databile con relativa esattezza al 280 a.C. Era l'unico ad avere un'elaborata decorazione d'ispirazione architettonica. È infatti concepito a forma di altare, con una cassa sensibilmente rastremata, con modanature in basso e, nella parte superiore, con un fregio dorico con dentelli, triglifi e metope decorate da rosette una diversa dall'altra. Il coperchio termina con due cuscini ai lati ("pulvini") che assomigliano di lato alle volute dell'ordine ionico. Inoltre sul fianco superiore si trova scolpito un oggetto cilindrico, terminante alle due estremità con foglie di acanto. La grande raffinatezza artistica del pezzo, con il gusto di mescolare gli stili (dorico, ionico e corinzio) deriva da modelli della Magna Grecia o della Sicilia ed è una straordinaria testimonianza della precoce apertura all'ellenismo nel circolo degli Scipioni. Sul coperchio è presente un'iscrizione col patronimico del defunto (dipinta), accanto a una più lunga e più tarda (scolpita), in versi saturni. Per aggiungere quest'ultima venne cancellata una riga e mezzo più antica e questo intervento potrebbe risalire all'epoca di Scipione l'Africano, all'inizio del II secolo a.C. Si tratta di un estratto della laudatio funebris. La menzione della forma del defunto, virtutei parisuma, ricorda la motivazione che portò i Romani a erigere nel comitium, durante le guerre sannitiche, le statue di Pitagora e di Alcibiade su indicazione dell'oracolo di Delfi, confermando i collegamenti tra l'ambiente romano e il mondo della Magna Grecia e della Sicilia greca. Il sarcofago del figlio di Barbato, Lucio Cornelio Scipione, console nel 259 a.C., si trova nel corridoio centrale a sinistra della tomba paterna ed è la seconda in ordine di antichità. Il sarcofago è originale, mentre l'iscrizione è in copia. Anche in questo caso le epitaffi sono doppie: una dipinta sul coperchio che riporta il nome e le cariche principali del defunto; una scolpita sulla cassa, come nel caso di Scipione Barbato, che riporta, in versi saturni, una parte dell'orazione funebre. Questa seconda iscrizione risale probabilmente a subito dopo la morte dell'interessato (circa 230 a.C.) ed è verosimilmente più antica della seconda iscrizione del Barbato. L'iscrizione riporta come il console conquistò la Corsica e la città di Aleria e come fondò un tempio alle Tempeste. L'iscrizione a Publio Cornelio Scipione, figlio di Publio e Flamine Diale è la terza più antica, collocata nell'ultimo tratto del corridoio di sinistra. Si è ipotizzato che fosse il figlio di Scipione l'Africano, che morì giovane, come riporta Cicerone, ma l'attribuzione non è unanimemente accettata, per le poche testimonianze a disposizione. L'iscrizione (in copia), riporta come il defunto avesse ricoperto la carica di Flamine Diale e come la sua vita fu breve. I resti del sarcofago di Lucio Cornelio Scipione, figlio dell'Asiatico, composto da lastre di tufo, si trova a sinistra dell'ingresso principale. L'iscrizione ricorda il defunto, che fu questore nel 167 a.C. e tribuno militare; ricorda anche come suo padre vinse il re Antioco. I resti di un sarcofago in lastre di tufo, incassato in una rientranza della parete a sinistra del sarcofago di Scipione Barbato, è stato identificato, grazie all'iscrizione, con quello di Cornelio Scipione Asiageno Comato, figlio del precedente Lucio. Sempre secondo l'iscrizione morì a 16 anni, verosimilmente attorno al 150 a.C. Il soprannome di Asiageno conferma la genealogia di discendenza dall'Asiatico. La posizione del sepolcro, in una cavità scavata piuttosto in profondità a partire da un piccolo spazio residuo, dimostra come verso la metà del II secolo il luogo di sepoltura fosse già quasi al completo, rendendo necessari i primi ampliamenti. Paulla Cornelia fu la moglie di Gneo Cornelio Scipione Ispallo, console nel 176 a.C., figlio di Gneo Cornelio Scipione Calvo e quindi fratello di Publio Cornelio Scipione Nasica. I resti del suo sepolcro si trovano dietro al sarcofago di Scipione Barbato, collocato allargandone la nicchia. Nonostante la posizione possa dare adito a qualche dubbio, il sarcofago di Paulla è sicuramente più recente di quello del Barbato, essendo la cornice superiore di questo sepolcro, dove si trova l'iscrizione, poggiante sul sarcofago di Barbato: la facciata posteriore del sarcofago di Barbato chiudeva direttamente anche questo sepolcro, nella parte inferiore. Ciò è indice di come alla metà del II secolo a.C. il sepolcreto fosse ormai quasi al completo. È composto in travertino e tufo dell'Aniene. L'iscrizione riporta solo il nome della defunta e del suo sposo. Il successivo sarcofago, per antichità, è quello del primo dei figli dell'Ispallo, Lucio Cornelio Scipione, situato davanti al sarcofago del Flamina Diale. È composto in pietra gabina. L'iscrizione (in copia) è particolarmente lunga e riporta alcune qualità del defunto, oltre alla notazione della breve età: specifica infatti che visse venti anni e che non fece in tempo ad avere cariche. Gneo Cornelio Scipione Ispano era il secondo figlio dell'Ispallo e, verosimilmente, di Paulla Cornelia. Il suo sarcofago, posto nell'ala nuova, è in tufo dell'Aniene. L'iscrizione (in copia) è l'unica pervenutaci completa e riporta le cariche del defunto (pretore, edile curule, questore e tribuno militare per due volte, decemviro per i giudizi sulle controversie e decemviro per l'effettuazione delle cose sacre); inoltre vi viene celebrata la stirpe degli Scipioni. L'iscrizione è in distici elegiaci, un metro introdotto a Roma dalla Grecia nel II secolo a.C. dal poeta Ennio. L'Ispano morì verso il 139 a.C. e l'ampliamento del sepolcro è quindi databile tra il 150 e il 135 a.C., quando venne probabilmente rifatta anche la facciata monumentale creando un arco monumentale anche per l'accesso a questa seconda ala. L'ultima iscrizione ritrovata si trova nell'ala "nuova" ed è incompleta; vi si legge quasi solo il nome Scipionem. Il sarcofago è in tufo dell'Aniene. Dalla tomba degli Scipioni provengono anche due teste in tufo dell'Aniene delle quali una scoperta nel settecento ed ospitata ai Musei Vaticani, e una scoperta nel 1934 e subito trafugata. La prima testa (alta 24 cm) venne detta di Ennio, cioè del poeta Quinto Ennio che aveva una propria statua sulla facciata dell'ipogeo, ma è un'attribuzione non corretta, stando almeno alle fonti che testimoniano come la statua di Ennio fosse in marmo, non in tufo. Non è chiaro quindi quale fosse la collocazione di questa statua, probabilmente il ritratto di qualcuno inumato nel sepolcro. La posizione leggermente inclinata del collo fa pensare che si tratti di una parte di una statua, forse una figura sdraiata sul coperchio in posa di banchettante, nella foggia tipica dell'Etruria meridionale fin dagli inizi del III secolo a.C. La testa ha un modellato essenziale ma efficace, con il viso tondeggiante, le labbra tumide, il naso largo e le palpebre sottili. I capelli sono accennati molto vagamente e sulla testa porta la corona d'alloro con foglie piccole e rade. La datazione proposta dagli studiosi è la fine del II secolo a.C., quando cioè la koiné etrusco-laziale mostrava i primi influssi dalla Grecia. Alcune tombe a incinerazione vennero aggiunte in epoca più tarda, in pieno periodo imperiale, e riguardano la gens dei Corneli Lentuli, che probabilmente aveva ereditato il sepolcro dopo l'estinzione degli Scipioni all'inizio dell'epoca imperiale. C'è un notevole scarto temporale con le sepolture repubblicane, per cui la volontà di farsi seppellire accanto ai più celebri Scipioni dovette avere un connotato snobistico e velleitario, legato alla discendenza, anche politica, dalla grande famiglia. La casa romana che sorse sul sepolcro degli Scipioni risale al III secolo d.C., sul lato più vicino alla via Appia. La sua costruzione danneggiò una parte del monumento sottostante e dimostra come all'epoca si fosse persa la cognizione e forse lo stesso ricordo di un luogo di sepoltura così importante nella storia romana. Durante gli scavi del 1927 vennero scavate nelle vicinanze altri sepolcri di varie epoche, tra i quali spicca un grande colombario sotterraneo a pianta rettangolare. L'ambiente era sostenuto da due grandi pilastri a base circolare, dei quali solo uno è perfettamente conservato. Sia sui pilastri che sulle pareti erano disposte cinque file sovrapposte di nicchie semicircolari, destinati a raccogliere i resti dei defunti dopo l'incinerazione in una o due olle di terrecotte per nicchia, per un totale di circa 470 defunti. Le pareti erano coperte da intonaci e i profili delle nicchie erano decorati da cornici di stucco spesso tuttora ben conservate. Al di sotto di ogni nicchia sono ancora presenti pannelli dipinti a colori vivaci (azzurro, giallo o rosso), dove dovevano trovarsi dipinti i nomi dei defunti. A fianco della casa romana sopra il sepolcro esiste una piccola catacomba, con file di sepolcri sovrapposti. Rodolfo Lanciani, Rovine e scavi di Roma antica ed. Quasar, Roma 1985 Filippo Coarelli, Guida archeologica di Roma, Arnoldo Mondadori Editore, Verona 1984. Ranuccio Bianchi Bandinelli e Mario Torelli, L'arte dell'antichità classica, Etruria-Roma, Utet, Torino 1976. Parco degli Scipioni Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sul sepolcro degli Scipioni Sepolcro degli Scipioni, su Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. URL consultato l'11 dicembre 2019.

Parco degli Scipioni
Parco degli Scipioni

Il parco degli Scipioni si trova tra via di Porta Latina e Via di Porta San Sebastiano nel centro storico di Roma, nel rione Celio, entro le mura aureliane. L'area fu interessata da vigne già dal XVII secolo. Nel 1614 risale la scoperta di un sepolcro del III secolo a.C. appartenente alla famiglia degli Scipioni. Successivamente, nel 1780 si avviarono degli scavi di perlustrazione, mentre negli anni 1831 e nel 1840 nella zona vennero scoperti dei colombari, tra cui quello di Pomponio Hylas. Nel 1870 il comune di Roma acquista la zona del parco. Il primo restauro che ci è stato documentato risale al 1926 ed è stato promulgato dalla X Ripartizione Antichità e Belle Arti. Successivamente, tra il 1928 ed il 1931 si costituì il parco su progetto di Raffaele De Vico. Dal 1995 il parco ospita la manifestazione culturale "Roma in tasca". Flora: Nel parco si trovano delle piante caratteristiche del clima mediterraneo, tra cui si possono citare: alloro, mirto, oleandro, cipresso, pino. Servizi: campi di bocce, campi polivalenti, area giochi per bambini. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sul parco degli Scipioni Parco degli Scipioni, su Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. URL consultato l'11 dicembre 2019. Storia del Parco degli Scipioni su www.romamarittima.it, su romamarittima.it. URL consultato il 15 maggio 2012 (archiviato dall'url originale il 20 maggio 2013). Storia del Parco degli Scipioni su www.060608.it, su 060608.it. URL consultato il 15 maggio 2012.

Oratorio dei Sette Dormienti

L'oratorio dei Sette Dormienti è una chiesa sconsacrata di Roma, nel rione Celio, in via di porta San Sebastiano. L'oratorio, menzionato dal codice di Torino come oratorio di san Gabriele arcangelo, fu scoperto da Mariano Armellini nel 1875 all'interno di un casale della vigna Pallavicini, ed utilizzato, all'epoca, come deposito di formaggi. L'oratorio fu edificato nel XII secolo all'interno di strutture d'epoca romana, resti di una casa romana a più piani. Data la lontananza dal centro della città, esso fu più volte abbandonato; dapprima nel XIV secolo, poi, dopo il restauro effettuato da papa Clemente XI nel 1710, di nuovo abbandonato e trasformato in deposito di un casale che, nel frattempo, vi era stato costruito sopra. È in queste condizioni che lo trovò l'Armellini nella seconda metà dell'Ottocento. Nel secolo scorso infine l'oratorio fu isolato dal resto delle strutture e restaurato nel 1962. Benché dedicato all'arcangelo Gabriele, l'oratorio è conosciuto come quello dei Sette Dormienti, martiri di Efeso del III secolo che, dopo essere stati murati vivi in una grotta, furono ritrovati due secoli dopo ancora vivi e dormienti. L'oratorio e gli ambienti annessi sono ancora di proprietà della famiglia Pallavicini, a cui si devono gli ultimi restauri. All'epoca della scoperta, così l'Armellini ne descrisse gli interni: Le indagini archeologiche hanno permesso di scoprire che l'oratorio fu installato al primo piano di una casa romana del II secolo; nel piano superiore sono stati scoperti resti di mosaici pavimentali ancora in situ. Al primo piano inoltre sono stati identificati resti di una tomba monumentale del I secolo a.C. M. Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Roma 1891, p. 597 C. Villa, Rione XIX Celio, in I Rioni di Roma, Newton & Compton Editori 2000, p. 1143 L'oratorio dal sito di Roma Medievale, su medioevo.roma.it.