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Piazza Sarzano

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Piazza Sarzano, Genova 03
Piazza Sarzano, Genova 03

Piazza Sarzano (in ligure in Sarzan) è una delle principali piazze del centro storico di Genova, situata al limite orientale del sestiere del Molo. Secondo varie fonti il nome deriverebbe dal latino Arx Jani ovvero Rocca di Giano, perché secondo la leggenda il mitico fondatore di Genova, sbarcato nella sottostante insenatura, oggi interrata, chiamata "seno di Giano", avrebbe poi fondato proprio su questa altura il primo nucleo della città. Piazza Sarzano è una delle piazze più grandi del centro storico di Genova e in epoca medioevale era l'unica vera piazza pubblica entro le mura cittadine. Di forma allungata, occupa una delle sommità del colle di Castello, sede del più antico insediamento cittadino. Può essere raggiunta da diverse strade: da piazza Dante, attraverso la Porta Soprana lungo via Ravecca, dal centro storico attraverso stradone Sant'Agostino, via di S. Croce o salita S. Maria di Castello, dalla circonvallazione a mare e dalle mura della Marina percorrendo salita S. Antonio o vico sotto le Murette e infine, unico accesso veicolare (ad accesso limitato), da via E. Ravasco, che attraverso il settecentesco ponte di Carignano collega piazza Sarzano alla piazza di Carignano sul prospiciente colle omonimo, dove sorge la basilica dell'Assunta. Il ponte scavalca la valletta del Rio Torbido, dove un tempo sorgeva il popolare rione di Via Madre di Dio, demolito negli anni settanta del Novecento e sostituito da edifici moderni, centri direzionali, e un tratto di verde urbano. A seguito di queste demolizioni, a pochi metri de piazza Sarzano, una colonna infame ricorda i vicini quartieri del centro storico scomparsi con i piani urbanistici del dopoguerra. Un tempo la via di accesso principale, quella seguita dai cortei ufficiali e dalle processioni delle casacce, era quella che partendo dal Palazzo Ducale si snodava lungo salita Pollaiuoli, piazza San Donato e stradone Sant'Agostino; questo percorso fu poi prolungato fino alla piazza di Carignano quando i Sauli fecero costruire, nel Settecento, il ponte di Carignano. Dal 2006 la piazza è servita dalla stazione Sarzano/Sant'Agostino della metropolitana. Sulla piazza si affacciano alcuni storici edifici: Museo di Sant'Agostino. Sul lato nord della piazza, fino all'angolo con stradone Sant'Agostino, prospetta il grande convento di Sant'Agostino, oggi trasformato in museo dedicato all'arte ligure tra il X e il XVIII secolo. Il complesso comprende due chiostri, di cui uno integrato nel percorso museale ed uno più piccolo dalla caratteristica forma triangolare, visibile all'ingresso al museo. Il convento degli agostiniani fu chiuso per le leggi di soppressione emanate alla fine del XVIII secolo e dopo decenni di degrado, a cui si erano aggiunti i gravi danni causati dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, è stato restaurato negli anni ottanta del Novecento dagli architetti Franco Albini e Franca Helg. Nel museo sono conservate numerose opere d'arte provenienti da chiese genovesi demolite per ragioni urbanistiche o distrutte da eventi bellici. Facoltà di architettura. Proseguendo, oltre l'incrocio con lo stradone si incontra il complesso della facoltà di architettura dell'università di Genova, che sorge sull'area un tempo occupata dalla residenza fortificata vescovile e poi dal convento di San Silvestro delle monache domenicane, distrutto dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Il complesso universitario, con ingresso in stradone Sant'Agostino, è entrato in funzione nel 1990 ed incorpora quanto resta del convento, costruito nel XV secolo riadattando l'antico castello vescovile. San Salvatore in Sarzano. Nel lato sud della piazza sorge la chiesa sconsacrata di San Salvatore in Sarzano, risalente al XII secolo ma ricostruita in stile barocco nel 1653 (nel 1611 secondo altre fonti). Gravemente danneggiata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale e rimasta per decenni in rovina, è stata completamente ristrutturata negli anni novanta per ospitare l'aula magna della facoltà di architettura ma è utilizzata anche per congressi e concerti. Nella chiesa venne battezzato il celebre violinista Niccolò Paganini Sul lato di levante della piazza si trova un pozzo, coperto da un chiosco colonnato a pianta esagonale eretto nel Seicento su disegno di Bartolomeo Bianco, che attingeva ad una grossa cisterna alimentata dall'antico acquedotto civico costruita nel 1583 ed ancora oggi presente sotto alla piazza Il chiosco è sormontato da un busto di Giano bifronte, alto circa un metro, qui collocato nell'Ottocento, citato anche da Dino Campana, che nei ricordi del poeta diventa però l'effigie di un "savio imperatore romano". In origine il chiosco era collocato in un altro punto della piazza, davanti alla chiesa di San Salvatore: venne restaurato nell'Ottocento da Giovanni Battista Resasco e spostato all'angolo con via E. Ravasco. In quell'occasione vi fu collocato anche il busto di Giano. Infatti la scultura (dal 2001 sostituita da una copia in resina, mentre l'originale in marmo di Carrara, molto deteriorato dalla lunga esposizione agli agenti atmosferici, è conservata all'interno del museo di Sant'Agostino) non faceva parte della struttura originaria del chiosco, ma proveniva dalla monumentale fontana di piazza Vacchero, adiacente a via del Campo. Neppure questa era tuttavia la sua destinazione originaria, riscoperta solo nel 1866 da Santo Varni, che la restaurò. La statua era stata commissionata nel 1536 dai Padri del Comune agli scultori lombardi, trapiantati a Genova, Gian Giacomo e Guglielmo Della Porta, padre e figlio, ed era parte di un barchile (fontana pubblica) da collocare nella piazza Nuova (l'attuale piazza Matteotti). Circa un secolo più tardi, nel 1628 la fontana venne trasferita nella piazza antistante la chiesa di San Domenico e da qui, dopo la demolizione della chiesa nell'Ottocento, in piazza Marsala, dove si trova tuttora. Il busto di Giano venne invece integrato nella fontana di piazza Vacchero, e vi rimase fino a quando il Resasco lo trasferì in piazza Sarzano. Non vi è certezza su quale dei due Della Porta sia l'autore del busto, il cui stato di conservazione non consente una valutazione più approfondita; il Varni, che lo vide già deteriorato ma senz'altro in migliori condizioni di quanto sia attualmente, lo attribuì a Guglielmo, ma secondo studiosi contemporanei non è da escludere anche un contributo del padre Gian Giacomo. Passato indenne dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, che colpirono duramente la piazza e gli edifici circostanti, il chiosco, che versava comunque in stato di degrado, fu restaurato nel 2001. Anche il busto fu restaurato da Axel Nielsen e quindi ricoverato nel museo di Sant'Agostino, mentre sulla cupoletta del chiosco venne collocata la copia in resina. Il campo di Sarzano, una vasta spianata alla base del castello vescovile, iniziò a prender forma di piazza intorno alla metà del XII secolo, quando un religioso della congregazione di S. Rufo ottenne dai consoli di Genova "14 tavole di terra" per costruirvi la chiesa di San Salvatore. Pochi anni dopo l'intera spianata, compresa la nuova chiesa, venne inglobata nelle le mura dette "del Barbarossa". Verso la fine del XII secolo al limite di ponente della piazza fu costruita la chiesa di Santa Croce (chiusa all'inizio dell'Ottocento e trasformata in abitazioni), con annesso un piccolo ospedale e nel 1260, su terreni adiacenti alla piazza, sul lato nord, il grande complesso conventuale degli agostiniani. La spianata, unico vero spazio pubblico entro le mura cittadine, divenne, dalla metà del XII secolo, il centro della vita pubblica: sede di mercati, tornei cavallereschi, manifestazioni pubbliche e delle processioni delle casacce. Le cronache riportano che il 1º novembre 1311 vi si riunì una grande assemblea popolare che, come proposto da Opizzino Spinola, stabilì di affidare per vent'anni la signoria della città all'imperatore Arrigo VII, pagandogli un tributo di sessantamila fiorini. L'imperatore aveva fatto il suo ingresso a Genova il 21 ottobre 1311, accolto con entusiasmo dalla popolazione poiché aveva promesso di riportare la pace tra le fazioni cittadine e ne partì il 16 febbraio 1312 lasciando come vicario Uguccione della Faggiola. Durante la sua permanenza in città, nel dicembre del 1311, morì l'imperatrice Margherita di Brabante, che fu sepolta a Genova; quanto resta del suo monumento sepolcrale, opera di Giovanni Pisano, è conservato nel museo di Sant'Agostino. La pace tuttavia non durò a lungo: morto prematuramente anche Arrigo VII nel 1313, il suo vicario abbandonò la città e le contese tra le fazioni ripresero con violenza. Guida d’Italia - Liguria, Milano, TCI, 2009. Centro storico di Genova Molo (Genova) Wikiquote contiene citazioni di o su Piazza Sarzano Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Piazza Sarzano

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Piazza Sarzano, Genova 03
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Oratorio di Sant'Antonio Abate (Genova)
Oratorio di Sant'Antonio Abate (Genova)

L'oratorio di Sant'Antonio Abate, detto anche Sant'Antonio Abate alla Marina è un edificio religioso del centro storico di Genova, situato in vico sotto le Murette, nel quartiere del Molo. Attualmente l'oratorio, caso unico a Genova, è sede della parrocchia del SS. Salvatore e S. Croce, la cui chiesa, nella vicina piazza Sarzano, venne semidistrutta dai bombardamenti dell'ultimo conflitto e non fu più riaperta al culto. Posto sulle mura della Marina, sul fronte a mare del colle di Sarzano, a fianco della ex chiesa di San Salvatore, l'oratorio di Sant'Antonio Abate risale al primo decennio del Seicento; fu edificato come sede della omonima "casaccia" (confraternita), costituita nel XV secolo presso la scomparsa chiesa di S. Domenico. Si arricchì, soprattutto nel Seicento, di un'importante quadreria oggi in gran parte dispersa. Nel 1684 venne gravemente danneggiato dal bombardamento navale francese e fu restaurato a partire dal 1706. Nel 1777 ben venti "Compagnie" risultavano aggregate alla casaccia che faceva capo all'oratorio. Soppresso come tutti gli oratori nel 1811, durante il periodo napoleonico, fu riaperto al culto il 22 settembre 1816; nel 1828 subì un profondo restauro, su progetto di Carlo Barabino, con la collaborazione dello scultore Ignazio Peschiera, finanziati da un certo Carlo Moresco, bottaio, che non avendo eredi volle destinare le sue sostanze all'oratorio. Al termine del restauro, il 17 aprile 1836, privilegio insolito per un oratorio, fu consacrato dall'arcivescovo Placido Maria Tadini. Nell'ultimo dopoguerra, pur continuando ad ospitare la confraternita di Sant'Antonio abate, divenne sede della parrocchia del SS. Salvatore e S. Croce, che aveva perso per i bombardamenti il suo principale luogo di culto; restaurata dopo anni di abbandono, la ex chiesa di San Salvatore non appartiene più al patrimonio ecclesiastico ma ospita l'aula magna della facoltà di architettura dell'Università di Genova. L'esterno si presenta architettonicamente molto semplice, con il tetto a capanna e la facciata priva di ornamenti, tranne la statua seicentesca del santo titolare sopra al portale d'ingresso e quella della Madonna posta in una nicchia sul lato destro, al di sopra dell'iscrizione "Posuerunt me custodem", proveniente dalla scomparsa porta della Lanterna, demolita nel 1877. Un finestrone semicircolare si trova nella parte superiore della facciata ed altri sei, tre per parte, sono aperti nelle pareti laterali. L'interno ha un'unica navata con volta a botte. Pur senza poter più vantare il corredo artistico di un tempo, in gran parte disperso con la chiusura del 1811, conserva ancora alcuni pezzi notevoli: una tavola con Sant'Antonio che ritrova le spoglie di S. Paolo eremita opera di Luca Cambiaso, la cassa processionale settecentesca con San Giacomo che sconfigge i Mori, commissionata a Pasquale Navone e da lui realizzata in collaborazione con i suoi allievi (al Navone è attribuita con certezza la figura di San Giacomo a cavallo), il Cristo Bianco (1710), ritenuta dall'Alizeri una delle migliori opere del Maragliano, che risultava anche registrato tra i confratelli della casaccia (… tra' suoi belli bellissimo. Non vidi tra i molti da lui condotti per casacce ed oratorii … figura più commovente, più nobile di questa) e il Cristo Moro, crocifisso processionale di Domenico Bissone (1639), assai popolare un tempo tra i Genovesi per la preziosità dei materiali di cui è composto (legni pregiati per la scultura del Cristo, rivestimento di tartaruga con decorazioni in oro e argento per la croce). Il Cristo Moro e la cassa del Navone non facevano parte del patrimonio storico di Sant'Antonio Abate, ma provengono dall'oratorio di San Giacomo delle Fucine, demolito nel 1872 per il tracciamento di via Roma. Con le innovazioni urbanistiche di fine Ottocento varie confraternite, che avevano visto distrutti i loro oratori, vennero infatti accolte nell'oratorio di Sant'Antonio, portando anche parte del loro patrimonio artistico, compreso un ricco apparato processionale. Sull'altare di destra sono collocate tre statue ottocentesche in marmo bianco, di Ignazio Peschiera (San Paolo, Santa Barbara e Immacolata Concezione). Sono presenti inoltre due dipinti ottocenteschi, opera di Giuseppe Passano, che raffigurano Sant'Antonio e San Paolo che spartiscono il pane miracoloso e la Sepoltura di Sant'Antonio. Allo stesso Passano si deve il ciclo di affreschi nella volta con episodi della vita del santo, e la decorazione delle pareti con raffigurazioni in chiaroscuro di celebri eremiti, inframmezzate da lesene. L'altare maggiore, neoclassico, fu realizzato nel 1832 su disegno del Barabino, al quale si deve anche il disegno del pulpito in marmo collocato sulla parete sinistra, realizzato nel 1822 dallo scultore Sebastiano Mantero, figlio del più noto Bernardo. Tra le opere scomparse, vi erano le pale che ornavano gli altari laterali, di Andrea Ansaldo, Biagio Assereto, Giulio Benso e Bernardo Castello, oltre ad altre tele del Cambiaso ed una cassa processionale raffigurante Sant'Antonio tentato dai demoni, opera di Pietro Galleano, andata distrutta. Nadia Pazzini Paglieri, Rinangelo Paglieri, Chiese in Liguria, Genova, Sagep Editrice, 1990, ISBN 88-7058-361-9. Guida d’Italia - Liguria, Milano, TCI, 2009. Genova Arcidiocesi di Genova Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sull'oratorio di Sant'Antonio Abate Storia dell'Oratorio di Sant'Antonio Abate, su irolli.it. Storia dell’oratorio e della confraternita di Sant'Antonio Abate sul sito del Priorato delle Confraternite di Genova, su prioratoconfraternitegenova.it. Oratorio di Sant'Antonio Abate, su Fonti per la storia della critica d'arte, Università di Genova.

Sarzano/Sant'Agostino (metropolitana di Genova)
Sarzano/Sant'Agostino (metropolitana di Genova)

Sarzano/Sant'Agostino è una stazione sotterranea della metropolitana di Genova. È posta nella parte orientale del centro storico, sotto piazza Sarzano e nei pressi della chiesa di Sant'Agostino, oggi sconsacrata e trasformata in museo. Nei dintorni della stazione si trovano anche la facoltà di Architettura, edificata sui resti del convento di San Silvestro (distrutto durante i bombardamenti alleati della seconda guerra mondiale), la sconsacrata chiesa di San Salvatore e la basilica di Santa Maria Assunta. Inizialmente era denominata solo "Sarzano"; il nome fu poi cambiato in seguito ad una protesta degli abitanti del quartiere. Prima dell'inaugurazione della stazione, la zona di piazza Sarzano non era servita da nessun altro mezzo pubblico. Sul percorso della rete metropolitana, la stazione è intermedia tra le fermate di San Giorgio e De Ferrari , entrambe già operative all'epoca della sua inaugurazione (San Giorgio fu aperta nel 2003, De Ferrari nel 2005). L'inizio della sua costruzione risale al 2001: i lavori procedettero a rilento, anche per via dei ritocchi progettuali in corso d'opera. L'apertura è avvenuta il 3 aprile 2006. Nell'ambito del progetto "La tua metropolitana", nel febbraio 2021 la stazione è stata riqualificata e brandizzata da Terna-Rete Elettrica Nazionale. La stazione è costituita da due banchine laterali, della lunghezza di 80 metri, le quali presentano una marcata curvatura, sono leggermente in dislivello tra loro e con una struttura ad arcate che separa nettamente i due binari di scorrimento, in quanto in questo tratto la metropolitana è stata costruita riutilizzando i vecchi tunnel ferroviari delle Grazie, dei quali segue il percorso. In origine progettata dall'architetto genovese Renzo Piano, la stazione ha poi subito delle migliorie in fase di realizzazione: pannelli di vetro agli ingressi e gli interni rifiniti con piastrelle mosaico color acquamarina in luogo delle classiche mattonelle rosa (tipiche delle stazioni da Brin a San Giorgio) conferiscono alla struttura un aspetto più moderno e luminoso. Sarzano è dotata di due ingressi ben distinti: uno, dotato di ascensore, si affaccia su piazza Sarzano, l'altro è costituito da un lungo tunnel che si apre sulle Mura della Marina. Inizialmente era stato previsto un terzo accesso nella zona di Campopisano, poi non realizzato per mancanza di finanziamenti. La stazione è una delle più profonde della linea, essendo situata circa 27,5 metri sotto l'ingresso di piazza Sarzano e circa 7 metri sotto all'ingresso delle Mura della Marina. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su stazione di Sarzano/Sant'Agostino Sito ufficiale AMT Genova, su amt.genova.it. Scheda della stazione su Metrogenova - Sito indipendente su metropolitana e trasporto pubblico genovese, su metrogenova.com. URL consultato il 16 ottobre 2012 (archiviato dall'url originale il 20 gennaio 2012).

Museo di Sant'Agostino
Museo di Sant'Agostino

Il Museo di Sant'Agostino è situato a Genova, in piazza Sarzano, nel complesso dell'ex convento dei frati Eremitani di Sant'Agostino, risalente al tredicesimo secolo, una delle parti più antiche del centro storico del capoluogo ligure. Denominato anche “Museo di Architettura e Scultura Ligure” custodisce opere, prevalentemente scultoree, provenienti da numerosi edifici genovesi, in gran parte religiosi, scomparsi nel corso dei secoli. Sede del museo una serie di strutture facenti parte di un antico complesso conventuale che risale al secolo XIII. Comprende la chiesa di sant'Agostino che risale al 1260, oggi sconsacrata e utilizzata come auditorium. Il complesso va dalla piazza Sarzano, da cui si ha accesso al museo, allo stradone di sant'Agostino e piazza Renato Negri e vico dei Tre Re Magi. L'area del museo è intorno a due chiostri. Il primo ha pianta triangolare e risale al tardo medioevo. Il secondo a pianta quadrangolare risale al seicento. A seguito della sconsacrazione avvenuta all'epoca del dominio napoleonico di fine settecento, il complesso ebbe numerose destinazioni, magazzino militare, officina, laboratorio di falegnameria, teatro dei burattini, finché all'inizio del novecento ne fu decisa la destinazione a museo. Inaugurato nel 1939, fu oggetto di restauro iniziato prima negli anni '20 e '30 affidato a Orlando Grosso e poi proseguito nel dopoguerra negli anni tra il 1977 e il 1992 condotti dallo studio Albini-Helg-Piva, a seguito dei bombardamenti della seconda guerra mondiale che distrussero un'ampia parte del complesso. La chiesa è stata anche utilizzata come auditorium. All'interno di essa si sono svolti molti spettacoli della cooperativa del Teatro della Tosse. È il museo più importante della scultura in Liguria. Un viaggio nella scultura genovese da quella più antica e tardo medievale sino ai periodi più recenti con reperti dal X al XVIII secolo. Nel museo sono presenti anche alcuni riferimenti ad altri ambiti territoriali. Il percorso museale è anche un viaggio attraverso i resti di antichi edifici religiosi e civili e nella storia dell'architettura del genovesato. Edifici ormai scomparsi come i complessi dei conventi di San Domenico e San Francesco di Castelletto. Particolare interesse hanno le collezioni di affreschi e dipinti e di opere su tavola del periodo dal 1200 al 1500, la collezione di opere in ceramica che è una testimonianza dell'epoca del commercio nel bacino del Mediterraneo. Fra le opere più antiche conservate vi sono i capitelli provenienti dallo scomparso convento di San Tommaso in capite Arenae, posto alla periferia occidentale della città e demolito alla fine dell’Ottocento, in stile bizantino, databili attorno all'anno Mille, ed il pregevole Capitello con leoni attergati proveniente dallo stesso convento, opera di maestranze antelamiche del dodicesimo secolo. Della stessa epoca sono i leoni stilofori dell'originario protiro della basilica di San Siro. Di epoca gotica sono importanti affreschi strappati, provenienti dalle distrutte chiese di Sant’Andrea della Porta (presso Porta Soprana) e di San Michele a Fassolo, attribuiti a Manfredino da Pistoia. Alla stessa epoca appartiene il Monumento sepolcrale di Simone Boccanegra (1363), proveniente dalla chiesa di San Francesco di Castelletto, opera di un anonimo scultore in memoria di Simone Boccanegra, primo doge di Genova, di cui ci tramanda il ritratto grazie alla resa naturalistica del volto del defunto. Dalla cattedrale di Genova proviene il Grifone, o Grifo, opera di un maestro campionese quale simbolo civico, allusivo alla volontà di Genova di alludere contemporaneamente al Papato (simboleggiato dal leone) e all’Impero (l’aquila), con un animale fantastico come il grifo, dalla natura doppia di leone e di aquila. Sempre all'epoca gotica appartiene una delle opere più celebri del museo, i frammenti del Monumento funebre a Margherita di Brabante, moglie dell'imperatore Enrico VII, morta a Genova il 13 dicembre 1311, opera estrema di Giovanni Pisano (1248 - 1315), massimo scultore del Trecento italiano. Del Periodo rinascimentale, il museo ospita una collezione di sovrapporte con San Giorgio e il drago (Seconda metà secolo XV), che ornavano soprattutto i portali delle famiglie più potenti della città, a partire dai Doria. In particolare, l'esemplare più pregevole può attribuirsi ad un autore della famiglia lombarda dei Gagini. Dello scultore Guglielmo Della Porta (1515 - 1577) è presente ll giovane David, che regge la testa decapitata di Golia. Particolarmente ricca è la collezione del periodo barocco, nella quale spiccano numerosi capolavori del maggiore scultore francese dell'epoca, Pierre Puget, attivo a Genova nella seconda metà del Seicento. Fra questi la Madonna col Bambino (detta Madonna Carrega in quanto proveniente dal Palazzo Carrega in Strada Nuova) del 1681, di ascendenza michelangiolesca, il Ratto di Elena, movimentata composizione barocca proveniente dal palazzo di Pantaleo Spinola in Strada Nuova, che rappresenta l'eroina troiana mentre sta per essere caricata sulla nave da Paride, e una serie di busti di imperatori romani. Il Barocco genovese è rappresentato da capolavori dei suoi massimi esponenti quali Filippo Parodi, Francesco Maria Schiaffino, Giacomo Antonio Ponsonelli. All'interno del museo vengono ospitate anche altre mostre periodiche. 2007: Azulejos Laggioni. Ceramica per l'architettura in Liguria dal XIV al XVI secolo. 2008-2009: Shozo Shimamoto Samurai, acrobata dello sguardo 1950-2008. 2010: Ceramiche tra Oriente e Occidente I reperti di epoca medievale e rinascimentale delle Raccolte Civiche. 2011: Bestiario: mitologia del contemporaneo. 2012: Raum Form Licht – Spazio Forma Luce. Mostra sul pittore austriaco Peter Nussbaum. 2013-2014: Le incredibili macchine di Leonardo. Mostra delle macchine funzionanti tratte dai codici di Leonardo da Vinci 2016: Genova nel Medioevo. Una capitale del Mediterraneo al tempo degli Embriaci Dal museo, vi è anche un percorso guidato che col camminamento che porta alle mura del Barbarossa giunge alla Porta Soprana con le due torri di San'Andrea e termina con la visita alla casa di Cristoforo Colombo. Prina V., Sant'Agostino a Genova. Storie di edifici e di luoghi, Genova, Sagep Editrice, 1992, ISBN 978-8870584387 Cerchiari Necchi E., Rosati C., Genova Mia. La città come non è mai stata raccontata. Taddei A. - Il Museo di Sant'Agostino, Faenza, Polaris, 2017, ISBN 978-8860592033 Taddei A., Genova. Museo di Sant'Agostino. Guida alla visita, Silvana Editoriale, 2017, ISBN 978-8836638253 Musei della Liguria Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sul Museo di Sant'Agostino Museo Sant'Agostino, su museidigenova.it. Museo Sant'Agostino, su coopculture.it. Museo Sant'Agostino (virtuale), su pinterest.it.

Chiesa di San Salvatore (Genova)
Chiesa di San Salvatore (Genova)

La chiesa del Santissimo Salvatore, popolarmente detta di San Salvatore è un ex edificio religioso del centro storico di Genova, situato in piazza Sarzano, nel quartiere del Molo. Adiacente all'ex complesso conventuale di Sant'Agostino, la chiesa, sconsacrata dopo i gravi danni causati dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, è stata completamente ristrutturata per ospitare l'aula magna della facoltà di architettura dell'Università di Genova, che ha sede poco distante, nell'area dell'ex monastero di San Silvestro. Per la sua capienza (può accogliere fino a 340 spettatori) è talvolta utilizzata anche come sede per concerti. L'atto di fondazione della chiesa risale al gennaio dell'anno 1141, quando i consoli di Genova Guglielmo Malocello ed Oberto Della Torre concedettero ad un certo prete Ansaldo, dei Canonici Regolari della Congregazione di San Rufo che avevano sede presso la chiesa di San Nicolò di Capodimonte di Camogli, "14 tavole di terra" per la costruzione di una chiesa nel campo di Sarzano, che all'epoca era l'unica vera piazza entro le mura cittadine, sede di mercati, tornei cavallereschi, manifestazioni pubbliche e delle processioni delle casacce; nell'atto era stabilito che la nuova chiesa fosse tributaria in perpetuo alla cattedrale, fissando un canone simbolico di un denaro ed una candela da versare annualmente il giorno di Natale. A seguito di quanto stabilito fu costruita la chiesa, in stile romanico a tre navate; il fondatore ottenne l'investitura a rettore ma alla sua morte nacque una lunga controversia tra i religiosi della congregazione di San Rufo, a cui egli apparteneva, e il capitolo metropolitano: in un primo tempo l'arcivescovo Ugone della Volta, incaricato dal papa Alessandro III, assegnò la chiesa ai canonici di San Rufo ma nel 1182 la stessa fu invece affidata al capitolo della cattedrale, decisione confermata da papa Urbano III quattro anni dopo, il 22 dicembre 1186. La chiesa è citata per la prima volta come parrocchiale in documenti del 1191. Nel 1653 la chiesa fu completamente ricostruita in stile barocco grazie ad un finanziamento dei fratelli Andrea e Bartolomeo Costa. Questa data, tradizionalmente accettata dagli storici, sarebbe contraddetta da un documento d'archivio scritto da un rettore del tempo, che anticiperebbe la ricostruzione al 1611, sulla base di progetti di ampliamento presentati fin dal 1578. Con questa ricostruzione le tre navate furono allungate ed unite in un'unica grande aula; il campanile, eretto nello stesso periodo, venne in seguito restaurato e le sue campane aumentate a cinque. Il bombardamento navale francese del 1684 provocò il crollo del soffitto. Nel 1692 ebbe l'organo, poi riformato e arricchito nel 1844. Tra il 1771 e il 1773 subì un radicale restauro e venne consacrata il 19 dicembre 1773 dall'arcivescovo Giovanni Lercari, che la elevò al titolo di prepositura. Nel 1809 incorporò la vicina parrocchia di Santa Croce, soppressa dall'arcivescovo Giuseppe Maria Spina, della quale incamerò anche i beni: da allora la parrocchia ha assunto la denominazione di "San Salvatore e Santa Croce". Nella chiesa vennero battezzati il celebre violinista Niccolò Paganini e il pittore Gioacchino Assereto. Durante la seconda guerra mondiale, nel 1942, la chiesa fu incendiata e parzialmente distrutta da un bombardamento aereo, e rimase per decenni in rovina, finché, nell'ambito dei lavori per la costruzione della sede della facoltà di Architettura dell'Università di Genova sull'area del distrutto convento di San Silvestro in stradone Sant'Agostino, anche la ormai ex chiesa di San Salvatore, acquistata dall'università, è stata completamente ristrutturata, su progetto di Luciano Grossi Bianchi, per ospitare l'aula magna del complesso universitario. Oltre alle attività della facoltà, ospita anche iniziative congressuali culturali legate alle attività dell'Osservatorio Urbano Permanente del comune di Genova, creato per promuovere iniziative di risanamento e valorizzazione del centro storico. La prima fase di restauro è stata completata nel 1992, riportando l'edificio allo stato precedente il bombardamento, per arrestarne il degrado, contribuendo indirettamente al risanamento architettonico della piazza. I restauri hanno anche riportato alla luce alcuni resti del paramento dell'originaria chiesa romanica. Dopo la distruzione e la conseguente sconsacrazione della chiesa, le attività della parrocchia, che ha conservato il titolo di "San Salvatore e Santa Croce", proseguono tuttora nell'adiacente oratorio di Sant'Antonio Abate. Dal punto di vista architettonico, pur essendo stata la parrocchia più popolosa del centro storico, la chiesa ha sempre avuto un aspetto modesto e non ha mai posseduto un ricco corredo di opere d'arte. Nella lunetta sopra al portale d'ingresso si trovava un affresco di Giuseppe Paganelli, realizzato in occasione della consacrazione della chiesa nel 1773 ed una lapide commemorativa dell'evento. L'affresco, come tutta la decorazione della facciata, fu distrutto dell'incendio del 1942 e rifatto durante i restauri del 1992. In alto si apre un grande finestrone settecentesco. Il resto della facciata venne dipinta nell'Ottocento con motivi architettonici affrescati. Questa decorazione non piacque ad alcuni contemporanei, che espressero anche giudizi sferzanti, come quello, attribuito allo Spotorno, fatto proprio dal Casalis nel suo "Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli stati di S. M. il Re di Sardegna" (… fu dipinta al di fuori come l'interno d'una bottega da parrucchiere); la facciata all'inizio del Novecento era in cattive condizioni e fu ridipinta nel 1926, ma queste nuove decorazioni scomparvero a causa dell'incendio seguito al bombardamento, in cui andarono perdute anche le opere d'arte della chiesa. Nel corso dei restauri del 1992 è stata ripristinata l'intera decorazione esterna. L'interno, ad una sola navata, con quattro cappelle su ogni lato, fu affrescato nella volta del presbiterio e del coro da Ventura Salimbeni, ma degradatisi nel tempo questi affreschi vennero ritoccati, non troppo felicemente, secondo autori dell'epoca, da modesti pittori ottocenteschi. Un altro affresco del Salimbeni si trovava nella sagrestia. Alle pareti della navata si trovavano sei medaglioni affrescati di Carlo Alberto Baratta (1799) e uno grande nella volta centrale, opera di Federico Peschiera (1848) ma oggi la maggior parte della decorazione, danneggiata dagli eventi bellici, non è più leggibile. Nella chiesa erano conservati anche alcuni dipinti, andati perduti: Nostra Signora di Montallegro di Giuseppe Palmieri, Adorazione dei Magi di G.B. Perolli, stretto collaboratore di G.B. Castello, Daniele nella fossa dei leoni di Giuseppe Isola e San Camillo di Domenico Piola. Nadia Pazzini Paglieri, Rinangelo Paglieri, Chiese in Liguria, Genova, Sagep Editrice, 1990, ISBN 88-7058-361-9. Autori vari, Descrizione di Genova e del Genovesato, Genova, Tipografia Ferrando, 1846. Federico Alizeri, Guida artistica per la città di Genova, Genova, 1846. Guida d'Italia - Liguria, Milano, TCI, 2009. Luciano Grossi Bianchi, La fondazione della chiesa genovese di San Salvatore in piazza Sarzano, in Quaderni storici, anno 2002, volume: 37, fasc. 2, pag. 307. Arcidiocesi di Genova Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa di San Salvatore Chiesa di San Salvatore, su catalogo.beniculturali.it, Ministero della cultura. Ex chiesa di San Salvatore, Aula Magna Facoltà di Architettura, su Fonti per la storia della critica d'arte, Università di Genova. Chiesa di S. Salvatore, su Fonti per la storia della critica d'arte, Università di Genova.

Campopisano
Campopisano

Campopisano (o Campo Pisano, secondo il nome tradizionale) è una zona del centro storico di Genova, situata al limite orientale del sestiere del Molo. La zona, citata inizialmente come "Campus Sarzanni" poiché situata in prossimità della piazza di Sarzano, sarebbe stata ribattezzata con l'appellativo di Campo Pisano dopo la vittoria riportata dalla flotta genovese sui pisani nella battaglia della Meloria (1284). Infatti, secondo la tradizione in questo luogo, all'epoca appena fuori dalle mura, sarebbero stati confinati migliaia di prigionieri pisani, la maggior parte dei quali, morti di fame e di stenti, sarebbero stati sepolti in quello stesso luogo. Si accede a Campopisano attraverso una mattonata che inizia da piazza Sarzano, nei pressi della stazione Sarzano/Sant'Agostino della metropolitana. Sulla piccola piazza (circa 200 m²), di forma irregolare, si affacciano alte case a schiera con le facciate dipinte a tinte pastello; il selciato, rifatto nel 1992, è realizzato con ciottoli di mare bianchi e grigi, tipica pavimentazione ligure in uso fin dal Medioevo, detta rissêu. Al di là della tradizione legata alla presenza dei prigionieri pisani, sembrerebbe confermato che la zona di Campopisano, situata appena fuori della cinta muraria detta del Barbarossa, fosse utilizzata come luogo di sepoltura per i forestieri, e quindi probabilmente anche per i pisani morti durante la prigionia. Un decreto del 1403, emanato dal maresciallo Boucicault, governatore di Genova per conto del re Carlo VI di Francia, stabiliva l'inalienabilità e l'inedificabilità dell'area, divieti confermati varie volte nel corso del XV secolo, ma in parte venuti meno negli ultimi anni di quel secolo e decaduti definitivamente nel 1523, quando un decreto dei Padri del Comune consentì a chiunque di acquistare terreni e costruire edifici nella zona, che pochi anni dopo veniva inglobata nella nuova cerchia muraria cittadina. Il Giustiniani, nei suoi Annali ricorda come nello spazio sopra la fonte pubblica di Sarzano in breve tempo siano sorte ben 47 case. In vico di Campopisano, nelle immediate vicinanze della piazzetta, fino alla fine dell'Ottocento esisteva un popolare teatrino della marionette; quello stesso locale ospita oggi un ristorante. In occasione delle celebrazioni colombiane del 1992 un gruppo di volontari ha ripristinato la pavimentazione a risseu della piazza, con al centro l'immagine di una galea con bandiera della Repubblica di Genova, a rievocare i fasti dell'antica repubblica marinara. Il 5 agosto 2021, a 737 anni dalla battaglia della Meloria i pisani prigionieri sono stati commemorati in Campopisano alla presenza del vicesindaco di Genova, Massimo Nicolò, dell'assessore alle politiche culturali, Barbara Grosso e di una delegazione di circa 30 pisani, guidati dal sindaco di Pisa, Michele Conti. Nella base cartografica comunale o storica sono riportati i seguenti odonimi: Piazza Campo Pisano (o Campopisano) Vico di Campo Pisano (o Campopisano) Vico superiore di Campo Pisano (o Campopisano) Vico inferiore di Campo Pisano (oggi non più esistente) Piazzetta Campopisano inferiore Guida d’Italia - Liguria, Milano, TCI, 2009. Centro storico di Genova Molo (Genova) Sarzano Wikiquote contiene citazioni di o su Campopisano Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Campopisano

Chiesa di Santa Maria delle Grazie la Nuova
Chiesa di Santa Maria delle Grazie la Nuova

La chiesa di Santa Maria delle Grazie "la Nuova" costituiva, con l'annesso convento delle monache agostiniane, un complesso religioso situato in piazza S. Maria in Passione, nel quartiere genovese del Molo; chiuso all'inizio dell'Ottocento, dopo i restauri terminati nel 2004 ospita il centro studi "Casa Paganini". Il complesso, costruito nel XV secolo, è così denominato per distinguerlo dal vicino santuario di Nostra Signora delle Grazie al Molo. Sulla stessa piazzetta di S. Maria in Passione si trovano i resti della chiesa omonima, quasi completamente distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. La collina di Castello, che vide il primo insediamento urbano intorno alla metà del I millennio a.C. ospitava in epoca medioevale la residenza vescovile e la corte fortificata della potente famiglia feudale degli Embriaci. Tra il XIV e il XV secolo con la decadenza di questa famiglia sul colle si insediarono attività artigianali e commerciali e comunità monastiche. Fu proprio tra la fine del XIV secolo e la prima metà del XV che le canonichesse lateranensi, religiose che seguivano la regola di Sant'Agostino, in gran parte provenienti da famiglie della nobiltà cittadina, acquisirono alcune proprietà su quello che era stato l'insediamento degli Embriaci allo scopo di costruire una chiesa e un convento dedicati alla Madonna delle Grazie. Il complesso, che inglobava i resti di due delle torri degli Embriaci e quelli delle mura preromane, fu costruito nella seconda metà del XV secolo. Nei secoli successivi l'edificio subì numerose modifiche. Particolarmente importante la ristrutturazione iniziata nel 1623, quando le monache, la cui comunità era cresciuta fino a raggiungere il numero di cento religiose, avanzarono una richiesta di fondi al papa Gregorio XV per poter adeguare i locali del convento, segnalando la necessità di ampliare il refettorio, gli spazi di lavoro e la cappella interna ed aumentare il numero delle celle. Altri restauri si resero necessari a seguito dei danni causati dal bombardamento navale francese del 1684. In occasione dell'ampliamento del complesso, nel 1623, le monache fecero costruire, adiacente ad esso, un grande edificio, destinato a scuola per le giovani delle famiglie nobili, che si estende tra salita Mascherona, via Mascherona, vico Alabardieri e vico Vegetti, collegato al convento da un passaggio sopraelevato su via Mascherona; oggi l'edificio, rimaneggiato e sopraelevato, si presenta come un normale caseggiato suddiviso in appartamenti. Il monastero, risparmiato in un primo tempo dalle leggi di soppressione del 1797, venne espropriato nel 1810, quando la ex Repubblica Ligure era stata annessa all'impero napoleonico. Le monache si trasferirono nel vicino complesso di S. Maria in Passione, insieme a quelle provenienti dai monasteri di San Bartolomeo dell'Olivella e Sant'Andrea della Porta, anch'essi soppressi. Gli spazi del convento e l'Educandato furono trasformati in abitazioni, mentre la chiesa, inizialmente utilizzata come caserma, divenne un deposito di legname; trasformata in teatro alla fine dell'Ottocento, fu in seguito tipografia, sala da ballo e palestra, prima di un lungo periodo di abbandono. Il complesso, in grave stato di degrado, fu acquistato nel 1987 dall'Università di Genova, e grazie ad un accordo siglato nel 2001 tra la stessa università, la regione Liguria, il comune di Genova e il Ministero per i beni e le attività culturali, fu completamente restaurato tra il 2003 e il 2004. Al termine dei restauri il monastero è stato in parte destinato all'edilizia universitaria, mentre la zona monumentale, comprendente l'ex chiesa, il coro delle monache e gli spazi adiacenti è sede del centro di ricerca Casa Paganini - InfoMus dell'Università di Genova, su scienza e tecnologia per le arti performative (musica, danza), per la cultura (fruizione attiva di contenuti museali), sistemi interattivi multimediali per terapia e riabilitazione. Nel corso dell'intervento di recupero sono state portate alla luce importanti testimonianze degli insediamenti urbani sulla collina di Castello a partire dal V secolo a.C. fino al Medioevo ed approfondite le conoscenze sulla storia e le tecniche costruttive del complesso, dalla costruzione quattrocentesca, che ha inglobato preesistenti strutture medioevali, alla ristrutturazione seicentesca, fino ai restauri successivi al bombardamento del 1684. I restauri hanno anche recuperato gli affreschi di scuola genovese del XVII secolo, opera di Giovanni Carlone, Bernardo Castello e Giacomo Antonio Boni. Le indagini archeologiche condotte dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria hanno confermato l'importanza del sito, già attestata dai primi interventi condotti da Nino Lamboglia nel 1952 e proseguiti negli anni sessanta, che avevano messo in luce i resti dell'oppidum preromano. Sotto alla chiesa di Santa Maria delle Grazie è stato rilevato, inglobato nelle fondamenta, un poderoso tratto di muro, dello spessore di 1,80 m, che faceva parte della cortina muraria che cingeva il primitivo abitato, databile tra la fine del VI e la prima metà del V secolo a.C. Questi reperti, situati ad un livello inferiore rispetto alla chiesa, sono visibili in una sala sotterranea, appositamente creata sotto al pavimento dell'attuale auditorium. Di notevole interesse anche i resti riconducibili al periodo medioevale, quando la collina, dopo secoli di abbandono, era divenuta sede del castello fortificato vescovile che le ha dato il nome. Sull'area dove sarebbe poi sorto il monastero, nel XII secolo aveva la sua roccaforte la potente famiglia feudale degli Embriaci, con la sua curia in corrispondenza della piazza di S. Maria in Passione. Nel complesso di S. Maria delle Grazie è inglobata una delle torri che svettavano sull'insediamento degli Embriaci, simile per struttura e tecnica costruttiva a quella ancora esistente, situata poco distante, accanto alla chiesa di Santa Maria di Castello. La torre, datata alla prima metà del XII secolo, ha pianta quadrangolare ed è costruita a conci di pietra squadrati con muri dello spessore di circa 2 metri. Le fondazioni di un'altra torre, di cui sono visibili alcuni conci a bugnato, sono inglobate nell'angolo sud ovest della chiesa, alla base dell'archivolto che dà accesso alla piazza S. Maria in Passione. Dagli scavi sono emersi anche resti di stoviglie di notevole raffinatezza per l'epoca, databili tra l'XI e il XIII secolo, che appartenevano alla dotazione della cucina e della mensa dell'insediamento degli Embriaci. La parte monumentale del complesso ospita dal 2005 il centro di ricerca Casa Paganini - InfoMus dell'Università di Genova ed è aperta a visite da parte del pubblico in giorni specificati nello stesso sito. Si tratta di un esempio suggestivo e culturalmente interessante di riutilizzo di siti monumentali. La chiesa è completamente integrata nel complesso monastico, con l'ingresso su piazza di S. Maria in Passione. Oggi l'ingresso è attraverso un locale posto alla sinistra di quello della chiesa; questo locale, che probabilmente ospitava la tomba della venerabile Battistina Vernazza, era in origine la prima cappella di sinistra della chiesa, ed è decorato con raffinati stucchi settecenteschi. Nella volta un affresco di Giacomo Antonio Boni, ritenuto raffigurare S. Antonio da Padova che ha la visione del Bambino Gesù, anche se l'abito da gesuita del santo fa oggi propendere gli studiosi per S. Luigi Gonzaga o S. Stanislao Kostka. La decorazione si completa con due ovali a stucco con figure femminili, probabilmente Caterina Fieschi e Battistina Vernazza. Da questa cappella un arcone vetrato sulla destra dà accesso alla prima campata della chiesa. La chiesa, sala principale per esperimenti scientifici condotti dal centro di ricerca Casa Paganini - InfoMus, è anche utilizzata per eventi pubblici in sintonia con la missione del centro. Essa conserva, nonostante i vari interventi succedutisi nel tempo, la struttura dell'originario edificio quattrocentesco, a navata unica con il coro delle monache sovrapposto alla prima campata, caratteristiche tipiche delle chiese degli ordini monastici femminili. Con il restauro del 2004 sono stati recuperati gli affreschi sulla volta e sulle pareti della chiesa, degradati dal tempo e dall'incuria da parte dei diversi utilizzatori dei locali. Il restauro è stato eseguito senza operare integrazioni ma lasciando in evidenza le lacune dei dipinti, colorate con intonaco a colori tenui monocromatici. Nella volta sottostante al coro delle monache è un affresco di Giovanni Andrea Carlone raffigurante il Trionfo di S. Agostino sull’Eresia. Dello stesso G.A. Carlone sono quelli nella volta della campata centrale (Incoronazione della Vergine) e alle pareti (Morte della Vergine).. Una ricca decorazione a stucco, attribuita a Taddeo Carlone, orna l'arcone di accesso, la volta e le pareti del presbiterio. La decorazione di queste ultime è formata da una serie di bassorilievi con episodi del Vangelo, solo in parte ancora leggibili. La volta e le pareti del presbiterio sono decorate con un ciclo di affreschi di Bernardo Castello raffiguranti episodi della vita della Vergine, volti a celebrare il ruolo di Maria come corredentrice, come sottolineato dal Concilio di Trento. Sulla parete di fondo, piccoli affreschi di Valerio Castello raffiguranti Angeli con cartigli e simboli vescovili. Nulla rimane invece dei dipinti attestati dalle fonti storiche prima della chiusura del complesso. La tela che si trovava sullo scomparso altare maggiore, raffigurante l'Annunciazione, opera di Giovanni Battista Paggi, è oggi conservata in una collezione privata, mentre il Cristo crocifisso e la Maddalena di Luciano Borzone, che era su uno degli altari laterali, e il dipinto raffigurante L'Angelo custode che indica l'immagine della Vergine dipinta da san Luca, di Giovanni Andrea Ansaldo, che era nella cappella da cui si accede alla chiesa, si trovano nella chiesa di San Rocco sopra Principe; una pala d'altare raffigurante l'Immacolata, opera giovanile di Bernardo Castello, è conservata nella chiesa di S. Maria della Vittoria di via S. Bartolomeo del Fossato, nel quartiere di San Teodoro. Accanto alla chiesa vera e propria si trova la chiesa interna, destinata all'uso esclusivo delle monache, realizzata con la ristrutturazione seicentesca, oggi adibita a foyer dell'auditorium. Al piano superiore si trovano altri ambienti, come la grande sala con soffitto ligneo, che aveva in origine un intonaco a bande bianche e nere, a cui nella ristrutturazione seicentesca è stata sovrapposta una decorazione con finte lesene alternate da raffigurazioni di vedute marine, paesaggi di campagna e composizioni floreali. Queste decorazioni profane, che si ritrovano in ambienti non strettamente collegati al culto, sono coerenti con il gusto artistico del tempo e riflettono il solido legame che univa le religiose alle famiglie aristocratiche di provenienza. Dal piano superiore si accede al coro delle monache, affacciato sull'interno della chiesa, che ospita le tecnologie di Casa Paganini - InfoMus per gli esperimenti scientifici condotti nella chiesa. Un'iscrizione sulla controfacciata riporta che fu realizzato nel 1584 e rifatto nel 1686 poiché gravemente danneggiato dal bombardamento francese del 1684. Gli affreschi alle pareti e sulla volta, raffiguranti Angeli con simboli lauretani e Immacolata Concezione, un tempo ritenuti anch'essi opera di G.A. Carlone, sono stati recentemente attribuiti da G. Bozzo a Giovanni Battista Resoaggi (1662-1732). Battistina Vernazza (1497-1587), monaca agostiniana, figlia di Ettore Vernazza, fondatore dell'Ospedale degli Incurabili; trascorse tutta la vita nel monastero di S. Maria delle Grazie in cui entrò giovanissima. Fu maestra delle novizie e per due volte badessa, dal 1547 al 1553 e dal 1577 al 1581; è nota anche per i suoi scritti letterari e spirituali. La sua causa di beatificazione iniziò nel 1639, ma non venne mai portata a compimento. Le sue spoglie con la chiusura del convento vennero trasferite in S. Maria in Passione ed infine dal 1970 nella chiesa della Santissima Annunziata di Portoria, accanto a quelle di S. Caterina Fieschi. Guida d’Italia - Liguria, Milano, TCI, 2009. Genova Molo (Genova) Chiesa di Santa Maria in Passione Casa di Niccolò Paganini Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su ex chiesa di Santa Maria delle Grazie la Nuova Il centro di ricerca Casa Paganini - InfoMus, su casapaganini.org.

Chiesa di Santa Maria in Passione
Chiesa di Santa Maria in Passione

La chiesa di Santa Maria in Passione è stato un edificio religioso del centro storico di Genova, situata nell'omonima piazza sulla collina di Castello, nel quartiere del Molo. Chiuso nell'Ottocento per le leggi di soppressione degli ordini religiosi emanate dal governo sabaudo, il complesso comprendente la chiesa fu dapprima trasformato in caserma e infine divenne sede dell'O.N.M.I., prima di venire quasi completamente distrutto durante la seconda guerra mondiale. Dal 5 ottobre 2014 è aperta al pubblico La Libera Collina di Castello, un nuovo Parco culturale urbano nel sito archeologico di Santa Maria in Passione. Uno spazio culturale, luogo d'incontro e autoformazione: dove studenti, abitanti e persone operanti nel mondo dell'artigianato, della cultura e dell'arte possono sviluppare il proprio lavoro e condividerlo con la città. Tante storie diverse che si raccontano, un percorso di cura attiva del bene nella forma dell'autogoverno e dell'autonomia. Sarebbe attestata al 1323 l'esistenza di una prima comunità religiosa delle monache agostiniane della Madonna della Pietà, poi di Santa Maria di Misericordia detta in Passione, che probabilmente fino al 1407 aveva sede in un altro edificio conventuale della zona. Nella prima metà del Quattrocento è attestato lo spostamento dell'ordine monastico presso la chiesa di San Silvestro, costruita nel XII secolo e andata completamente distrutta dai bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale, che faceva parte della residenza medioevale dell'arcivescovo genovese e che dal 1449 ospitava un monastero delle Domenicane di Pisa. Da allora le monache della Madonna della Pietà vennero chiamate anche "Povere di San Silvestro". E proprio per esigenze di spazi, dovute alla presenza nello stesso monastero di due diverse comunità di suore, le monache di Santa Maria in Passione avviarono la costruzione di una nuova sede conventuale con una propria chiesa (una capella con campana et altare) accanto a quella di San Silvestro; il nuovo complesso, realizzato su una già esistente casa degli Embriaci risalente al XIII secolo, fu iniziato nel 1457 e completato nel 1462. L'anno seguente papa Pio II, su richiesta delle stesse monache, proclamò formalmente la loro appartenenza alla regola agostiniana. Intorno alla metà del XVI secolo, con il crescere della comunità delle monache di Santa Maria in Passione, che negli anni precedenti avevano accolto altre congregazioni minori, si rese necessario un ampliamento del complesso. La chiesa, completamente ricostruita, venne consacrata, in un anno non precisato tra il 1553 e il 1559, dal vescovo Egidio Falcetta. Nel 1582 è accertata la visita da parte del visitatore apostolico Francesco Bossi. Verso la metà del XVII secolo gli interni della chiesa subirono un "aggiornamento architettonico" in stile barocco e con nuove modifiche strutturali: le crociere vennero trasformate in volte a vela, furono eliminati i costoloni e arrotondati gli angoli e gli archi acuti. Anche le decorazioni pittoriche conobbero una nuova fase con la realizzazione di affreschi e dipinti da parte dei più importanti esponenti della pittura barocca genovese, tra i quali Valerio Castello, Domenico Piola (chiamato a collaborare dallo stesso Valerio Castello, al quale era stato commissionato l'intero ciclo degli affreschi) e Lazzaro Tavarone. Della chiesa originaria rimase inalterato solo il campanile. Con la fine della Repubblica di Genova e l'avvento della Repubblica Ligure napoleonica (1797) l'ordine religioso fu soppresso e la chiesa chiusa al culto; le monache vennero trasferite nel monastero di San Sebastiano. Solamente con la caduta del Primo Impero francese e il passaggio della Liguria nel Regno di Sardegna mentre dal 1818 gli antichi spazi conventuali accolsero le Canonichesse lateranensi dei soppressi monasteri di Santa Maria delle Grazie "la nuova", San Bartolomeo dell'Olivella e Sant'Andrea della Porta. Nel 1889, appellandosi a quanto stabilito da una nuova legge sulla soppressione degli ordini religiosi emanata dal Regno d'Italia nel 1866, il sindaco di Genova stabilì un nuovo abbandono del sito conventuale per far posto alla caserma delle Guardie di città. In seguito fu sede della Guardia di Finanza e infine dell'O.N.M.I. L'ex complesso monastico, come quello vicino di San Silvestro, fu quasi completamente distrutto dai bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale. Un primo bombardamento il 22 ottobre 1942 provocò l'incendio del tetto, ma il più distruttivo fu un secondo attacco il 4 settembre 1944 che rase quasi al suolo la sommità della collina di Castello; i bombardamenti distrussero quasi completamente gli affreschi e provocarono gravi danni alle murature esterne che in parte dovettero essere demolite. Rimase invece quasi integro il campanile che fu consolidato e in seguito restaurato. Insieme con la chiesa venne completamente distrutto il vicino oratorio di Santa Maria, San Bernardo e dei Santissimi Re Magi, appartenente alla confraternita dei Tre Re Magi, del quale nulla rimane, salvo una lapide commemorativa. Fondato nel XIV secolo, aveva la volta affrescata da Lazzaro Tavarone. Il complesso rimase in rovina per decenni, finché a partire dagli anni settanta un progetto elaborato dal Comune di Genova e seguito dall'architetto Ignazio Gardella ha dato spazio a interventi di recupero di questa area del centro storico con la costruzione della nuova sede della Facoltà di Architettura dell'Università di Genova sul sito dell'ex convento di San Silvestro, della Fondazione Niccolò Paganini e della sede dell'Osservatorio Urbano Permanente, creato per promuovere iniziative di risanamento e valorizzazione del centro storico; a partire dagli anni novanta un altro progetto ("Progetto Civis Sistema") prevede, inoltre, altri interventi di conservazione e recupero. Il complesso con i vari ampliamenti succedutisi nei secoli si presentava come una serie di volumi articolati su più piani che dalla chiesa (separata dal convento dalla via S. Maria in Passione) scendeva fino alla sottostante via Mascherona. Della chiesa, oltre al campanile, sono rimaste la parte inferiore della facciata, parte dei muri perimetrali e la parte absidale, oltre ad alcuni resti del convento nella zona compresa tra la chiesa e la nuova sede della Facoltà di Architettura. Nel rispetto degli antichi disegni sono state ripristinate la piazza e la salita di S. Maria in Passione e il giardino del convento e consolidati il campanile e le superstiti strutture della chiesa, realizzando una copertura sulla zona absidale per proteggere dagli agenti atmosferici i decori ancora visibili ed un'altra sulle rovine del convento. Sono stati anche realizzati alcuni locali nell'area dell'ex convento da destinare a sede dell'Osservatorio. In quello che rimane della facciata sono visibili i gli archi del portico del palazzo medioevale degli Embriaci sulle cui strutture era stata edificata la chiesa, della quale è ancora leggibile la planimetria, a navata unica, con il presbiterio allo stesso livello e il coro sopraelevato. Le pareti erano decorate da affreschi raffiguranti la storia della Passione ed episodi del Vangelo, andati quasi completamente distrutti, salvo alcuni frammenti, oggi conservati nel museo di Sant'Agostino. Il bombardamento del 1944 oltre ad aver provocato ingentissimi danni alla struttura ha causato la perdita totale delle decorazioni pittoriche originali (sia medioevali che barocche) e buona parte delle opere artistiche quali tele, quadri e statue ivi conservate. Grazie a diverse testimonianze fotografiche del 1943-1958 conservate nell'Archivio del Comune di Genova (servizio Beni Culturali) e nell'Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici della Liguria si è potuto stilare un elenco, parziale, degli elementi decorativi e delle opere custodite all'interno della chiesa prima del bombardamento o comunque trasferite durante o dopo la guerra. Tra i quadri: La Pietà tra quattro angeli e i santi Giovanni Evangelista, Maria Maddalena, Silvestro e Agostino, opera del pisano Aurelio Lomi datata al 1603 e conservata presso la Soprintendenza; Madonna col Bambino, angeli e i santi Giacinto, Alberto e Gerolamo, di Domenico Fiasella e realizzata intorno al 1640, custodita all'Istituto Arecco di Genova. Tra gli affreschi perduti: Storie della Vergine (la Natività della Vergine, la Presentazione al Tempio, l'Annunciazione, la Visitazione e la Vergine assunta al cielo) e riquadri con allegorie dell'Obbedienza, della Magnanimità, e della Costanza di Lazzaro Tavarone nella volta dell'unica cappella presente nella chiesa, a sinistra dell'altare maggiore; Caduta di Cristo sotto la Croce e l'Ecce Homo di Valerio Castello, nelle pareti della navata; Gloria dello Spirito Santo, nella volta centrale, con opere di Valerio Castello, Domenico Piola e Paolo Brozzi; Orazione dei Getsemani e la Flagellazione di Cristo, nel presbiterio, di Domenico Piola; Putti con i Simboli della Passione, i Quattro Evangelisti e figure allegoriche, opere di Domenico Piola e Paolo Brozzi nella volta del presbiterio; Vergine Addolorata, gli ovati con la Cena in Emmaus (affresco strappato e conservato nel museo di Sant'Agostino), l'Apparizione di Cristo alla Madre, le Pie Donne al Sepolcro e l'Ascensione di Domenico Piola nella volta sotto il coro sopraelevato; Pietà e Santi e figure degli Evangelisti nella volta sopra il coro, di Giovanni Andrea Carlone. P. Melli, Santa Maria in Passione: per la storia di un edificio dimenticato. Quaderni della Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, Genova, Edizioni Tormena, 1982. Guida d'Italia - Liguria, Milano, TCI, 2009. Autori vari, Descrizione di Genova e del Genovesato, Genova, Tipografia Ferrando, 1846. Federico Alizeri, Guida artistica per la città di Genova, Genova, 1846. Centro storico di Genova Wikiquote contiene citazioni sulla chiesa di Santa Maria in Passione Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla chiesa di Santa Maria in Passione La chiesa di Santa Maria in Passione sul sito www.stoarte.unige.it, su stoarte.unige.it. Libera Collina di Castello - La riqualificazione del bene Comune, un percorso di cura attiva del bene nella forma dell'autogoverno e dell'autonomia, su liberacollinadicastello.org. URL consultato il 5 luglio 2019 (archiviato dall'url originale il 19 aprile 2018).

Bombardamento navale di Genova (1941)
Bombardamento navale di Genova (1941)

Il bombardamento navale di Genova (nome in codice operazione Grog, in inglese operation Grog, conosciuto in Italia anche come beffa di Genova) ebbe luogo la mattina del 9 febbraio 1941 ad opera della Royal Navy. Fu il secondo e ultimo attacco via mare che subì Genova dopo il bombardamento navale del 1940, avvenuto il 14 giugno di quell'anno. Anche se l'obiettivo principale era Genova, l'operazione militare britannica fu però più ampia e riguardò anche un leggero bombardamento aereo dei porti di Pisa, Livorno e La Spezia per mano degli aerosiluranti Fairey Swordfish imbarcati sulla portaerei HMS Ark Royal. Da quel giorno, fino alla fine del conflitto in Italia, la città subì altri pesanti attacchi, ma esclusivamente aerei. Dopo la dichiarazione di guerra a Francia e Gran Bretagna, la penisola italiana subì una lunga serie di attacchi alleati, rivolti contro le sue città industrialmente più importanti, per tutta la durata della seconda guerra mondiale; nel corso del conflitto la città industriale di Genova fu pesantemente bombardata, soprattutto per la presenza di importanti cantieri navali e industrie metallurgiche. Un primo attacco via mare avvenne appena quattro giorni dopo la dichiarazione di guerra, da parte di una flotta francese alla guida dell'ammiraglio Émile Duplat, che bombardò via mare i poli industriali di Genova e Savona, causando però pochi danni. Seguirono poi una serie di attacchi aerei nei mesi estivi del 1940, ma dopo la resa della Francia (24 giugno 1940) il compito di colpire i centri liguri e quelli di tutto il resto della penisola toccò alle forze aereo-navali britanniche. Nella logica di queste azioni di bombardamento, i comandi inglesi decisero un'azione di forza contro le coste della città di Genova. Dopo la "notte di Taranto" dell'11-12 novembre 1940, in cui la flotta italiana era stata pesantemente danneggiata da un attacco di aerosiluranti britannici, la flotta rimanente venne spostata a Napoli, che il successivo 8 gennaio venne a sua volta bombardata. La corazzata Giulio Cesare venne lievemente danneggiata e fu trasferita il giorno dopo a Genova per le riparazioni e quindi, alla fine di gennaio del 1941, a La Spezia. Poiché gran parte della flotta italiana era stata trasferita nelle basi del mar Tirreno, gli inglesi pensarono di bombardare una di tali basi per dare un segnale alla Regia Marina che neppure nell'alto mar Tirreno le navi italiane sarebbero state al sicuro. Venne scelto come obiettivo il porto di Genova, perché si riteneva che vi fossero in riparazione tre navi da battaglia: la già citata Giulio Cesare, la Duilio e la Littorio. In realtà vi era soltanto la seconda, pesantemente danneggiata nella "notte di Taranto", ma, anche dopo essere venuti a conoscenza di questo particolare, gli inglesi decisero di procedere con l'operazione. Intanto il servizio segreto britannico era venuto a conoscenza che il 12 febbraio ci sarebbe stato, a Bordighera, un incontro fra Benito Mussolini e Francisco Franco, in cui il Duce avrebbe tentato di convincere Franco a entrare in guerra a fianco dell'Asse. Se la Spagna fosse entrata in guerra, Gibilterra sarebbe caduta e tutto il Mediterraneo sarebbe stato sotto il dominio dell'Asse. Per impedire a tutti i costi che il governo spagnolo facesse un tale passo, occorreva dimostrare la debolezza dell'Italia, incapace persino di proteggere le proprie coste. Quindi, su ordine diretto dello stesso Churchill, nel pomeriggio del 6 febbraio da Gibilterra fu fatta salpare la Forza H verso le coste liguri. Il bombardamento di Genova, progettato come operazione militare, divenne perciò una questione politica e per questo motivo doveva avvenire prima del 12 febbraio. Inoltre, voci raccolte dal servizio segreto inglese prospettavano un'ipotesi (rivelatasi poi falsa) di uno sbarco italiano nelle isole Baleari, che avrebbe comunque messo Gibilterra alla portata dei bombardieri a medio raggio dell'Asse. Il 2 febbraio 1941 Supermarina (l'alto comando navale italiano con sede a Roma) aveva posto in allarme la squadra che si trovava a La Spezia in conseguenza dei violenti bombardamenti cui era stato sottoposto il porto di Napoli. Intanto il 31 gennaio la Forza H, al comando dell'ammiraglio James Fownes Somerville, salpò da Gibilterra e lo stesso 2 febbraio, avvicinandosi alle coste occidentali sarde, alcuni aerei, partiti dalla portaerei HMS Ark Royal, attaccarono con siluri la diga del Tirso in Sardegna. La Ark Royal era equipaggiata all'epoca con 30 Fairey Swordfish, 12 Blackburn Skua, 12 Fairey Fulmar, appartenenti agli Squadrons 800, 807, 810 ed 820 della Fleet Air Arm, con l'807 dotato di bombardieri Blackburn Skua, l'810 e l'820 di bombardieri / siluranti Swordfish e l'807 di caccia / ricognitori Fairey Fulmar. L'intenzione degli inglesi era di dirigersi, la notte successiva, verso Genova, dove sarebbero dovuti arrivare il mattino dopo, ma il continuo peggioramento delle condizioni meteorologiche fino alla burrasca causò però notevoli ritardi alla navigazione. Resosi conto che, a causa del maltempo, le navi sarebbero giunte nei pressi di Genova solo nel pomeriggio (rischiando quindi di essere avvistate dalle pattuglie di ricognizione italiane,) l'ammiraglio Somerville fu costretto ad annullare l'operazione ed a rientrare a Gibilterra (non è comunque improbabile che si fosse trattato di una finta, in vista dell'imminente azione contro il capoluogo ligure). Una conseguenza delle avverse condizioni meteo fu una quantità rilevante di danni subiti dai cacciatorpediniere di scorta, che li costrinse a frettolose riparazioni a Gibilterra, necessarie per partecipare al nuovo attacco fissato per il 20 febbraio, data scelta per conseguire l'obiettivo politico della missione legato alla data dell'incontro tra Franco e Mussolini. Somerville non aveva molta scelta, essendo stato già accusato di scarsa intraprendenza contro la flotta italiana nella precedente battaglia di capo Teulada e sottoposto al giudizio di una commissione disciplinare; l'inchiesta lo scagionò, ma senza un limpido successo la sua carriera sarebbe stata compromessa. La forza H salpò di nuovo da Gibilterra il 6 febbraio, dirigendosi verso ponente come se dovesse uscire dal Mediterraneo; invertì poi la rotta di notte, al fine di confondere gli agenti italiani in osservazione ad Algeciras. Tuttavia Supermarina intuì la manovra e il 7 fece salpare da Messina la III divisione incrociatori (Trieste, Trento e Bolzano), diretta verso La Spezia, e il giorno 8 chiese che venissero intensificate le azioni di ricognizione per localizzare la squadra britannica. Avute notizie che navi britanniche della Forza H provenienti da Gibilterra erano in avvicinamento verso le coste italiane, una forza navale comandata dall'ammiraglio Angelo Iachino e formata dalla Giulio Cesare, dall'Andrea Doria e dalla Vittorio Veneto, con la scorta della X e XIII Squadriglia, uscì in mare alla ricerca del nemico. La flotta doveva incontrarsi il mattino seguente, presso l'Asinara a 50 miglia a ponente di capo Testa, con gli incrociatori provenienti da Messina (con la scorta dei cacciatorpediniere della XI Squadriglia). Si era convinti che l'obiettivo degli inglesi fosse la Sardegna, dato il fallimento dell'azione nemica di pochi giorni prima; si pensava, infatti, ad una ripetizione dell'attacco contro la diga del Tirso. Un'altra ipotesi era quella di un lancio di aerei verso Malta, e anch'essa presupponeva la presenza della flotta britannica a sud della Sardegna, come emerso in una conversazione telefonica tra Iachino e Inigo Campioni (sotto-capo di stato maggiore della Marina) alle 17 del giorno 7; il compito della squadra italiana rimaneva quello di "attaccare il nemico, ma solo se in condizioni favorevoli" e rientrare in porto in mancanza di contatto per la mattina del 9. Secondo i ricordi di Iachino, anche l'ipotesi di Genova come bersaglio venne formulata, ma lasciata cadere "data la notte lunare e la posizione della flotta inglese a sud delle Baleari". Gli avvistamenti aerei italiani del giorno 8 furono poco significativi, anche perché la ricognizione non venne predisposta a nord delle Baleari; pertanto, anche se venne segnalata la presenza di aerei da caccia in volo a sud delle Baleari e se ne dedusse la presenza della portaerei, non venne ipotizzata come possibile rotta della squadra da battaglia britannica l'alto Tirreno. Questa notizia fu quindi comunicata alla squadra italiana in navigazione, confermando la possibile presenza della Forza H a sud-ovest della Sardegna per il 9 mattina. Durante la notte fra l'8 e il 9 fu intercettato un forte traffico radiotelegrafico inglese, ma non fu possibile radiogoniometrarlo. Verso le 3 del mattino le due formazioni passarono a nord-ovest di Calvi (Corsica), a meno di 30 miglia di distanza senza avvistarsi, mentre la squadra inglese puntava indisturbata verso Genova. Stando invece al diario di guerra dell'Oberkommando der Marine (OKM – alto comando della marina) tedesco, sebbene i ricognitori italiani nella giornata dell'8 non fossero riusciti ad avvistare le navi britanniche, la flotta dell'ammiraglio Iachino fu inviata da Supermarina ad incrociare ad ovest della Sardegna nord-occidentale, con l'ordine di dirigere dapprima verso occidente e poi, tornando a nord, di portarsi nel canale tra la Corsica e la costa francese, a 100 miglia ad ovest di Capo Corso, nella posizione delimitata dalle coordinate 42°40′N 7°40′E42°40′N, 7°40′E. Tali coordinate sarebbero state comunicate da Supermarina al rappresentante della marina tedesca a Roma, ammiraglio Eberhard Weichold, e da questi trasmesse all'OKM, che le riportò nel diario di guerra. Dati presi da: e. Nel primo mattino del 9 febbraio sui cieli della città vennero avvistati alcuni aerei ricognitori; fino a quel momento Genova aveva subito tre incursioni aeree e una navale ed era stata posta in stato di allerta quarantasei volte e una ventina di volte in stato di pre-allarme. Quindi la presenza di aerei britannici atti ad azioni di ricognizione non era una novità per la popolazione, ma questa volta gli aerei non avrebbero scattato fotografie, bensì indirizzato il tiro delle artiglierie navali. Alle 5 del mattino del 9 la Ark Royal, scortata dai cacciatorpediniere Duncan, Encounter e Isis, deviò verso levante, posizionandosi a 70 miglia dalla costa spezzina, per consentire a venti bombardieri Swordfish di raggiungere Livorno, Pisa e La Spezia; alle 07:19 il Gruppo 1 fu in vista di Portofino e alle 07:33 venne avvistato da un motoveliero che faceva parte della catena di avvistamento antiaereo, che riferisce di "quattro torpediniere italiane con rotta nord-ovest" al suo comando di Genova, il quale doveva essere a conoscenza della presenza di eventuali unità navali amiche in quelle acque, ma non riferì niente a Supermarina; nello stesso momento gli aerei della Ark Royal iniziarono il bombardamento di Livorno e La Spezia. Il comando marina di La Spezia riferì invece a Supermarina della presenza degli aerei imbarcati, che però "non sganciano bombe", e in effetti quelle lanciate erano mine magnetiche a deterrente dell'uscita della squadra da battaglia, che però era già in mare; la conseguente ipotesi logica fatta dal comando marina spezzino era la presenza di una portaerei. Nessun allarme venne dato alla squadra da battaglia. Il resto della squadra - le corazzate Renown e Malaya, l'incrociatore Sheffield e i cacciatorpediniere Firedrake, Jupiter, Jersey, Fury, Foresight, Foxhound e Fearless - alle 7:50 ripiegò a ponente e prese a defilare a una ventina di chilometri dalla costa. Alle 08:01 la formazione britannica venne avvistata a 12 miglia dalla costa dal semaforo di Portofino, che trasmise l'informazione al comando marina di Genova, il quale solo alle 08:25 ne informò Supermarina, mentre per informare del bombardamento ci vollero le 08:37. Alle 07:35 Genova venne posta in allarme, mentre tre aerei della Ark Royal si portavano sulla città per guidare il tiro dei grossi calibri. Alle ore 08:14 (l'orario dell'azione è qui riportato con l'ora italiana. Gli inglesi, a bordo, avevano l'orologio un'ora indietro e perciò l'operazione, per loro, iniziò alle 07:14) del 9 febbraio 1941 l'ammiraglio Somerville diede l'ordine di aprire il fuoco. Le navi britanniche del 1º gruppo della Forza H aprirono il fuoco da circa 19 km di distanza dalla città di Genova, sparando 273 colpi da 381 mm, 782 colpi da 152 mm, oltre a numerosi altri di minor calibro. La Renown fu la prima ad aprire il fuoco, cannoneggiando dapprima il Molo Principe Umberto e quindi i cantieri Ansaldo, spostando poi il tiro sulle rive del Polcevera, sparando in tutto 125 proietti calibro 381 e 450 calibro 114; la Malaya prese di mira i bacini di carenaggio e i bersagli nelle vicinanze, sparando in tutto 148 colpi da 381 mm; lo Sheffield sparò sulle installazioni industriali poste sulla riva sinistra del Polcevera in tutto 782 proiettili da 152 mm. Da terra risposero al fuoco, senza alcun risultato di rilievo a causa della nebbia, la batteria Mameli di Pegli con 14 colpi da 152/50, il treno armato T.A. 152/4/T?, di stanza a Voltri, con 23 colpi da 152/40, il pontone armato GM-269 con 10 colpi da 190/39 e il GM-194 che, a causa di un'avaria all'impianto elettrico, sparò solo 3 colpi da 381/40. L'attacco terminò dopo appena mezz'ora e la risposta delle difese costiere fu inefficace, con la portata dei loro calibri costieri insufficiente contro la potente gittata dei calibri delle navi britanniche. Terminata l'azione, le navi britanniche virarono ed iniziarono tranquillamente il viaggio di rientro a Gibilterra. Alle 09:45 tutti gli aerei, tranne uno abbattuto nel cielo di Tirrenia, erano nuovamente sulla Ark Royal dopo aver bombardato Pisa e Livorno. Gli obiettivi iniziali del bombardamento furono i cantieri Ansaldo e le fabbriche che si trovavano sui due lati del torrente Polcevera, ma numerosi incendi e il relativo fumo costrinsero gli inglesi a spostare il tiro sul bacino commerciale; altri colpi raggiunsero poi la centrale elettrica e i bacini di carenaggio ed infine fu colpita la nave cisterna Sant'Andrea, che stava entrando in porto. Furono colpiti anche moltissimi edifici civili e storici, come la cattedrale di San Lorenzo - nella quale un proietto da 381 mm, dopo aver perforato due muri maestri, andò ad adagiarsi inesploso sul pavimento -, la chiesa della Maddalena, il Palazzo dell'Accademia ligustica di belle arti, l'ospedale Duchessa di Galliera - dove trovarono la morte 17 ricoverate -, alcuni palazzi all'inizio di via XX Settembre e l'Archivio di Stato. Una delle zone maggiormente colpite fu quella di piazza Colombo che, poco dopo, mutò il suo nome in "piazza 9 febbraio", per poi riprendere a guerra finita la vecchia denominazione. Molti proiettili inglesi caddero in acqua (circa il 50%); dei 55 piroscafi che erano nel porto ne furono danneggiati da schegge 29, mentre ricevettero colpi diretti il piroscafo Salpi (due di cui uno da 381 mm) e il piroscafo Garibaldi, che si trovava in bacino di carenaggio, che invece riportò tre squarci nella parte prodiera della carena per effetto di un colpo esploso all'interno del bacino; il danno maggiore lo ebbe la nave scuola Garaventa, che affondò, mentre le due navi militari in quel momento in porto per riparazioni, la Duilio e il cacciatorpediniere Bersagliere, non furono colpite. Danni non gravi li subirono gli impianti industriali, ma riportarono danni maggiori i fabbricati civili, dove alla fine dell'attacco trovarono la morte 144 cittadini, mentre i feriti furono 272. I danni materiali e sociali furono enormi; il Comune dovette provvedere ad alloggiare presso alberghi e pensioni circa 2.500 senzatetto, erogando vitto ed alloggio per 2.781.218 lire, aiuti in denaro per 955.289 lire, vestiti, scarpe, indumenti vari per 692.044 lire, articoli da cucina e masserizie per 315.374 lire, affitti per 77.765, mentre dalla "Cassetta del Podestà" vennero raccolte 1.472.649 lire, cui si aggiunse un milione di lire di contributo disposto dallo stesso Mussolini. Decine di abitazioni del centro storico furono vittima di crolli anche posteriori al bombardamento. Né l'aeronautica né il sistema di difesa costiero riuscirono a contrastare l'attacco su Genova. Il comando marina di La Spezia, poi, tardò nel diramare il segnale di avvistamento della formazione nemica e le prime informazioni sul bombardamento ("Allarmi aerei con probabile provenienza dal largo su La Spezia e zona ligure") raggiunsero la squadra italiana in navigazione solo alle 09:50, quando essa si trovava all'appuntamento con la III divisione a ponente dell'Asinara. Iachino si trovava in questa posizione dato che, dapprima, prendendo un'iniziativa non suffragata dagli ordini ricevuti che indicavano di dirigere verso occidente, e giustificandosi con l'arrivo di un segnale che indicava "Il Tirzo è in allarme", da lui poi cambiato nei suoi scritti in "allarme aereo", invece di raggiungere con rotta ovest il 6º meridiano aveva diretto proprio a sud-est dell'Asinara, ritenendo che la flotta britannica si trovasse da quella parte. La trasmissione risaliva ad un'ora addietro, ma la cifratura e decifratura del messaggio avevano fatto perdere agli italiani un vantaggio di una trentina di miglia nella direzione giusta a vantaggio della squadra britannica, anche se portava un'informazione fondamentale: c'era una portaerei in mare entro il raggio di azione degli aerei imbarcati da La Spezia e Livorno. Ciò nonostante, la portaerei non interruppe il silenzio radio e continuò in rotta a ponente. Un nuovo messaggio di Supermarina alle 09:37, decifrato alle 09:50, informò Iachino che Nessuna indicazione venne data sulla possibile rotta di fuga della squadra britannica. L'ammiraglio Iachino, appena operato il congiungimento, diresse subito verso nord, a tutta velocità, per tagliare la strada al nemico, ma il contatto tra le due squadre navali, anche a causa delle condizioni di visibilità molto variabili e complicato dall'avvistamento nei dintorni di Minorca di una flotta di piroscafi francesi, non avvenne. Verso le 14:30 le due squadre navali passarono di nuovo ad una trentina di miglia senza vedersi, quella inglese con rotta ovest-sud-est e quella italiana diretta a nord-nord-est, dove avrebbe dovuto trovarsi la Forza H. Questa errata segnalazione impedì l'incontro e la seguente battaglia navale; mancò comunque anche e soprattutto l'appoggio della Regia Aeronautica che, data la vicinanza delle basi, avrebbe dovuto intervenire massicciamente. Un idroricognitore rilevò la squadra britannica verso le ore 12, ma venne abbattuto prima di poter lanciare il segnale di scoperta; due aerei Fiat B.R.20 del 43º Stormo avvistarono la formazione navale alle 12:20, attaccandola con le bombe senza esito, ma fecero rapporto di avvistamento solo al loro rientro alla base e la notizia venne diramata solo alle 15:30. Altri due ricognitori italiani vennero abbattuti dagli aerei della portaerei britannica; nonostante questo, i 60 ricognitori e i 107 bombardieri italo-tedeschi utilizzati dalle potenze dell'Asse nel golfo di Genova e nel tratto di mare tra la Corsica e la costa francese all'altezza di Tolone quel 9 febbraio, durante l'intera giornata comunicarono solo quattro avvistamenti, per di più sbagliati. Vi fu quindi una grande massa di velivoli che polarizzarono la loro attenzione nelle acque in cui si trovava la Forza H, ma, incredibilmente, si ebbero sulla stessa soltanto quattro avvistamenti da parte di nove bombardieri B.R.20 del 43º Stormo, due dei quali attaccarono, mentre gli altri sette ritennero che le navi britanniche, avvistate in tre occasioni, fossero italiane. In una relazione gli errori di avvistamento degli equipaggi dei nove bombardieri B.R.20 furono giustificati dal comandante del 43º Stormo, colonnello Questa, come segue: Iachino, nel frattempo, assunse rotta per 330° alle 12:44 che, vista la sua posizione attuale, portava la squadra da battaglia italiana in direzione di Tolone, proprio in rotta convergente con la squadra britannica; alle 13 però un nuovo messaggio di Supermarina lo avvertì che era stata avvistata una squadra nemica a nord-ovest di Capo Corso e la squadra italiana invertì la rotta con velocità 24 nodi per intercettarla. Alle 15:38 dall'incrociatore Trieste venne avvistato il supposto nemico, ma dieci minuti dopo le navi vennero identificate come un convoglio di sette mercantili francesi, la cui presenza in area era stata debitamente notificata agli italiani in ossequio alle condizioni armistiziali. A quel punto la flotta britannica era già lontana e verrà fatta oggetto di una inutile ricerca fino alle 09:07 del giorno 10, quando alla squadra italiana venne dato l'ordine di rientro per Napoli, in quanto a La Spezia erano ancora in corso le operazioni di bonifica dalle mine navali britanniche. Il convoglio francese fu oggetto anche di attacchi aerei italiani, senza alcun esito, e lo stesso accadde ai MAS 510 e 525, scambiati dagli S.M.79 dell'8º Stormo bombardieri per incrociatori nemici; anche la Luftwaffe, appena arrivata in Sardegna, non riuscì a trovare traccia delle navi alleate, nonostante le operazioni di ricerca effettuate. Gli inglesi attribuirono il successo dell'operazione Grog alla cura meticolosa con cui avevano preparato l'azione, oltre alla loro preparazione, ma è indubbio che a loro favore giocò tutta una serie di circostanze favorevoli. Sebbene i risultati militari fossero scarsi, il bombardamento influì in maniera rilevante sul morale della popolazione genovese, ma non solo. Fu dal punto di vista politico che l'operazione Grog ebbe il maggior successo, ottenendo quello che probabilmente era il suo scopo principale: fare pressione sul generalissimo Franco, che si sarebbe dovuto incontrare con Mussolini a Bordighera tre giorni dopo, sulla inopportuna scelta di mettersi contro la Gran Bretagna. In seguito al rifiuto del dittatore spagnolo di schierarsi a fianco dell'Asse, dovette essere sospesa la progettata operazione Felix, con la quale i tedeschi volevano occupare Gibilterra. I fatti vennero descritti dalle parti nei rispettivi bollettini di guerra; quello italiano recitava: Questa fu la narrazione finale del bollettino intitolato "Il popolo di Genova all'ordine del giorno della Nazione", cui fecero coro nei giorni a seguire numerosi titoli propagandistici dei quotidiani. In ogni caso il bombardamento di Genova destò enorme impressione in tutta la nazione, soprattutto dopo aver appreso che l'azione non era costata al nemico la benché minima perdita. Ben più lungo il bollettino britannico: Sette giorni dopo, nella chiesa di San Siro venne officiata una messa in suffragio delle vittime, alla quale furano presenti tutte le maggiori autorità cittadine ed un'enorme folla che impegnò non poco i responsabili dell'ordine pubblico. Il 18 febbraio, con un treno speciale proveniente da Firenze, arrivò a Genova la principessa Maria José in divisa da crocerossina. Dopo una breve sosta a Palazzo Reale, si recò a visitare i feriti presso gli ospedali cittadini e le zone maggiormente colpite, ma si racconta che nel corso della sua visita la principessa di Piemonte trovò soprattutto visi chiusi e ostili tra gli ospedali e nelle strade, segno che la popolazione genovese iniziava a provare risentimento verso la guerra, nonostante le ondate propagandistiche di giornali e radio che si riversarono sulla città nei giorni a seguire. Gravi furono anche le conseguenza in seno alla Regia Marina, in quanto le prime accuse vennero formulate verso Iachino al momento stesso del rientro in porto la mattina dell'11, quando l'ammiraglio Riccardi chiese in una conversazione telefonica del perché Iachino non fosse riuscito ad intercettare la squadra britannica; immediatamente questi rispose che si era mosso sulla base degli ordini e delle informazioni inoltrate da Supermarina, ribaltando quindi la direzione delle accuse ed annunciando un dettagliato rapporto al più presto. La relazione arrivò nella mattina del 13, con espressioni come Contestò inoltre come sulla base di questi ritardi almeno un'ora e mezzo fosse stata persa con la squadra da battaglia sulla rotta sbagliata e che due aerei imbarcati (che sulle navi italiane non erano recuperabili, ma che si dovevano dirigere verso uno scalo amico a missione conclusa) fossero stati lanciati nella direzione sbagliata. La conclusione era che Poiché Riccardi non poteva ribattere in alcun modo, assolse formalmente e per iscritto Iachino da ogni accusa, riconoscendo che «l'operazione è stata condotta con giusti criteri e sulla base di un razionale apprezzamento della situazione desunto dalle notizie possedute». Ad una successiva richiesta dello Stato Maggiore Generale, presieduto all'epoca da Ugo Cavallero, inoltrata il 13, che recitava « [...] si sono verificati inconvenienti nel tempestivo riconoscimento delle unità avversarie. Necessita approfondire cause e responsabilità. Mi sarà gradito conoscere provvedimenti adottati», Riccardi dovette rispondere addebitando la causa a condizioni meteo negative (inesistenti), alcuni inconvenienti nella catena di avvistamento e nella coordinazione tra aeronautica e marina", di fatto evitando la ricerca di colpevoli in una versione di comodo che venne accettata, dapprima da Cavallero e poi dallo stesso Mussolini in un incontro con Riccardi e Iachino nel quale, come ammesso dallo stesso Riccardi con il suo sottoposto, Mussolini «era stato preparato a dovere». Di conseguenza nessun provvedimento venne preso per migliorare la cooperazione tra le due armi e questo ebbe un peso negli eventi successivi, a cominciare dai fatti che portarono alla battaglia di Capo Matapan. La cattedrale di San Lorenzo venne colpita il 9 febbraio da un proietto perforante inglese da 381 mm sparato dalla corazzata HMS Malaya, che in quel momento si trovava in navigazione a sud-ovest di Genova con rotta da est verso ovest. I danni risultanti da tale colpo, secondo una relazione del giorno seguente stilata dal soprintendente ai monumenti Carlo Ceschi, consistettero in un «foro d'entrata nel tetto e nella volta della navata destra, in una considerevole breccia nel muro portante destro della navata centrale, al di sopra degli archi dei matronei, e nella caduta di un arco del matroneo di sinistra». Il proietto, poi, urtò contro la parete interna settentrionale ma, avendo ormai esaurito gran parte della sua forza cinetica, non riuscì a sfondarla, cadde a terra e rotolò attraverso la navata centrale fino a fermarsi nella navata di destra senza esplodere. Le navi inglesi che bombardarono Genova avevano una dotazione di colpi da 381 mm ripartita in proietti APC (Armour Piercing Capped, dotati di cappuccio tagliavento e di cappuccio balistico sottostante), proietti CPC (Common Pointed Capped, dotati di solo cappuccio tagliavento) e proietti HE (High Explosive, altamente esplosivi), ma nell'azione vennero utilizzati solamente i primi due tipi perché lo scopo principale della Royal Navy era colpire le corazzate italiane Duilio, Giulio Cesare e Littorio, che i servizi segreti britannici credevano fossero in porto, o ingaggiare un'eventuale battaglia navale contro formazioni della Regia Marina in alto mare. I proietti utilizzati per bombardare la città erano stati forniti dalla Hadfield's Foundry di Sheffield, che li produceva con il nome commerciale ECLON (per gli Armour Piercing Capped) ed ERON (per i Common Pointed Capped), entrambi caricati con polvere nera, ed erano stati imbarcati a Malta, dove si trovavano stoccati dal 1915 per la campagna di Gallipoli. Il modello ECLON era lungo 142 centimetri, quindi 20 centimetri più corto rispetto al modello ERON, che era lungo 162 centimetri. Quest'ultimo terminò di essere prodotto intorno al 1920 e restò a disposizione delle autorità militari fino a esaurimento delle scorte. La mancata detonazione del proietto in San Lorenzo venne vista come un segno miracoloso dalla popolazione e fu sfruttata dalla propaganda, ma l'alta percentuale di colpi inesplosi, fra cui proprio quello che centrò la cattedrale, era dovuta sia alla vetustà dei proietti (prodotti decenni prima e caricati con obsoleta polvere nera invece di moderna shellite), sia al fatto che tale tipologia di munizioni, utilizzate dalla Royal Navy principalmente contro navi da battaglia dotate di pareti d'acciaio corazzate spesse decine di centimetri, risultavano inefficaci contro strutture edilizie terrestri "morbide", le quali venivano facilmente trapassate senza riuscire a innescare la spoletta per l'esplosione. In base alle fotografie scattate nei giorni immediatamente successivi al bombardamento, il proietto che trapassò i muri della cattedrale era un Armour Piercing Capped ECLON. Su tale proietto circolarono poi, per molti anni, alcune notizie false, supportate anche da una lapide contenente informazioni errate posta all'interno della cattedrale stessa. Nella navata di destra, infatti, è presente la seguente iscrizione: In realtà, il proietto che colpì la cattedrale venne rimosso e scaricato in mare. Un telegramma del 17 febbraio 1941 del questore di Genova al prefetto della stessa città, infatti, indicava: «Proiettile rimosso da Duomo S.Lorenzo caricato su chiatta è stato rimorchiato dalla Diga Foranea di Molo Galliera ove sarà vigilato a cura autorità militare che ha provveduto rimozione in attesa che condizioni mare ne consentano trasporto ed affondamento in mare aperto». Il giorno dopo, 18 febbraio, sul quotidiano Il Secolo XIX venne pubblicata la notizia: «Ieri, sotto la direzione delle autorità militari preposte alla difficile e pericolosa operazione, è stato rimosso da S.Lorenzo il proiettile rimastovi inesploso la mattina del 9. A mezzo di una grue costruita appositamente da artiglieri e da operai specializzati nell'interno del Duomo, il proiettile, a cui era stata tolta la spoletta, è stato sollevato e caricato su un carrello con le ruote di gomma, quindi trasportato fuori della Chiesa, dove, a mezzi della grue dei Vigili del Fuoco, è stato susseguentemente trasbordato sopra un autocarro che si è poi diretto al mare. Il micidiale ordigno è stato poi caricato su una chiatta e trasportato al largo, dove è stato gettato in mare. La difficoltosa operazione è costata cinque ore di lavoro». Il 31 luglio dello stesso anno, un telegramma dell'Ufficio Tecnico Armi Navali, inviato al prefetto di Genova e classificato come Segreto, informava che: «Giusta gli ordini dell'Altezza Reale il Duca di Spoleto è stata spedita a questo Navalarmi una granata perforante inglese scarica da 381 ricuperata a suo tempo in questa sede. Tale granata deve essere consegnata all'Eccellenza il Prefetto affinché ne faccia a sua volta la consegna al parroco della chiesa di San Lorenzo. Poiché la granata è attualmente in possesso di questo Navalarmi si prega voler comunicare le modalità della consegna». Le autorità militari e religiose italiane dunque decisero, a scopo propagandistico, di posizionare all'interno della chiesa un proietto inglese - per altro di tipo diverso da quello che colpì l'edificio il 9 febbraio - spacciandolo per quello originale, probabilmente confidando che la popolazione avesse dimenticato che l'originale era stato smaltito in mare aperto. Il telegramma che annunciava l'arrivo del proietto da Navalarmi imponeva il segreto sull'operazione proprio perché un proietto non originale non sarebbe stato testimone del "miracolo" e, quindi, non avrebbe avuto lo stesso valore psicologico. Falsa è anche la storia secondo la quale i proietti, anziché prodotti dalla Hadfield's Foundry di Sheffield, sarebbero stati realizzati dalla Ansaldo e venduti agli inglesi prima della guerra. Erminio Bagnasco, Augusto De Toro, Le navi da battaglia della classe "Littorio" 1937-1948, Parma, Ermanno Albertelli Editore, 2008, ISBN 88-87372-66-7. Carlo Brizzolari, Genova nella seconda guerra mondiale (IV volumi), Genova, Valenti editore, 1992, ISBN non esistente. Gabriele Faggioni, Il Vallo ligure. La linea difensiva allestita dalle forze nazifasciste, Genova, Ligurpress, 2010, ISBN 978-88-6406-037-8. Manlio Fantini, Operazione Grog - assalto a Genova, in Genova 7, 7 febbraio 1975. Ian Johnston, Ian Buxton, The Battleship Builders: Constructing and Arming British Capital Ships, Naval Institute Press, 2013, ISBN 9781591140276. Francesco Mattesini, Capitolo VI: Il bombardamento navale di Genova del 9 febbraio 1941, in L'attività aerea italo-tedesca nel Mediterraneo. 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