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Palazzo dell'Arengo (Rimini)

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Rimini Palazzo dell'Arengo
Rimini Palazzo dell'Arengo

Il Palazzo dell'Arengo (anticamente Palatium comunis) è un maestoso edificio in stile romanico-gotico di Rimini, situato in piazza Cavour.

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Palazzo dell'Arengo (Rimini)
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Palazzo dell'Arengo

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Rimini Palazzo dell'Arengo
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Teatro Amintore Galli
Teatro Amintore Galli

Il Teatro Amintore Galli (fino al 1947 Teatro Vittorio Emanuele II) è il principale teatro di Rimini. Inaugurato nel 1857 su progetto dell'architetto italiano Luigi Poletti, il teatro è stato pesantemente danneggiato dai bombardamenti alleati nel dicembre 1943. I saccheggi e le demolizione che seguirono nel dopoguerra ne lasceranno intatta solo la facciata e parte del foyer. Dopo una lunga e travagliata storia che vede tentativi di ricostruzioni, modifiche e destinazione ad altri usi, i lavori di ricostruzione veri e propri sono cominciati nel 2014 e si sono conclusi nell'ottobre del 2018. Durante il restauro sono emersi i resti di una basilica paleocristiana, che a oggi sono inclusi nel museo archeologico realizzato sotto al teatro assieme al Galli Multimediale, un innovativo progetto di museo a carattere storico-archeologico, finanziato in buona parte dalla Regione Emilia-Romagna, e una sezione interamente dedicata a uno dei principali volti musicali del passato quale è Giuseppe Verdi. La costruzione di un nuovo teatro a Rimini fu deliberata il 14 luglio 1840 nell'attuale Piazza Cavour (allora Piazza della Fonte), che fu preferita a Piazza Malatesta (allora Piazza del Corso), dopo che un'annosa discussione aveva diviso la città in fazioni, su quale fosse l'ubicazione più conveniente. Il retro del teatro si affacciava invece su Piazza Malatesta, fronteggiando Castel Sismondo. Nel 1839 era stato chiuso e atterrato il teatro in legno risalente al 1681, mentre l'esistente Teatro Buonarroti, costruito nel 1816, era in precarie condizioni tanto che ne fu deliberata la chiusura nel 1843. L'incarico per la progettazione del nuovo teatro fu affidato il 9 dicembre 1840 all'architetto italiano Luigi Poletti e la cerimonia solenne per la posa della prima pietra avvenne l'8 agosto 1843. I lavori furono finanziati inizialmente da una società di capitali, e già il 22 novembre 1846 l'opera al grezzo poteva dirsi completa. La costruzione subì a quel punto un lungo stallo e i lavori per il completamento e per l'esecuzione della decorazione poterono riprendere, a spese della municipalità, solo nel 1854, per concludersi definitivamente nel 1857. Fu solennemente inaugurato nello stesso anno con la prima dell'Aroldo di Giuseppe Verdi, diretta personalmente dal maestro. La cittadinanza mostrò di gradire la realizzazione di Poletti: manifestò il suo apprezzamento dedicandogli un busto nel foyer del teatro e incidendo il suo nome latinizzato a caratteri cubitali nell'iscrizione latina visibile sul frontone: AERE CIVIVM INGENIO ALOISII POLETTI ANNO MDCCCLVII. Lesionato dal terremoto del 1916, il teatro venne chiuso per restauri e riaperto nel 1923 con la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai. Tra il 1928 e il 1931, sotto la guida di Gaspare Rastelli, vengono completati il ridotto e la galleria del piano superiore. L'ultima opera, Madama Butterfly di Giacomo Puccini, fu eseguita nella primavera del 1943. Il 28 dicembre dello stesso anno il teatro fu gravemente danneggiato durante un bombardamento Alleato, con la distruzione del 90% di sala e palcoscenico. Nell'immediato dopoguerra i resti del teatro furono saccheggiati e il teatro stesso usato come "cava" per materiali da costruzione; vi fu inoltre la demolizione di parte dell'edificio. Già nel 1955 si inizia a pensarne la ricostruzione, con un concorso indetto dalla Cassa di Risparmio di Rimini che però si rivelò infruttuoso. Nel 1959 quello che rimaneva della parte danneggiata, ovvero tutto l'edificio ad eccezione della facciata e del foyer, fu demolito. Al suo posto sorse un capannone adibito a palestra. Tra il 1969 e il 1975 fu eseguito un criticato intervento di restauro, che vide la nascita al posto del ridotto della cosiddetta Sala Ressi, usata come sala consiliare. Il concorso bandito dal Comune di Rimini nel 1985 e "riavviato" nel 1992 vide vincere un progetto di stampo modernista. Approvato dalla giunta nel 1999, il progetto fu però largamente osteggiato dalla cittadinanza che chiedeva un restauro rispettoso del progetto originale. Nel 2002 l'allora Sottosegretario per i Beni Culturali Vittorio Sgarbi chiede anch'egli l'esecuzione di un restauro rispettoso del progetto del Poletti, e l'anno successivo il Ministero dei Beni Culturali stanzia 384.524€ per la redazione di un nuovo progetto, affidando tale incarico all'architetto Pier Luigi Cervellati. Il progetto viene ultimato nel 2004. I lavori di restauro e ricostruzione iniziano ufficialmente nel 2014. Il 17 settembre 2015 è inaugurato il foyer, mentre nel luglio 2016 avviene la posa del tetto della sala. Il 28 ottobre 2018, in occasione della riapertura del teatro, è stata eseguita, in forma semi-scenica, La Cenerentola di Gioachino Rossini, interpretata dal celebre mezzosoprano Cecilia Bartoli e dall'ensemble Les Musiciens du Princes diretto da Gianluca Capuano. Il teatro fu progettato in forme neoclassiche dal Poletti come monumentale sfondo di piazza Cavour. È il più grande tra i tre teatri realizzati dal Poletti; gli altri due erano a Fano (Teatro della Fortuna) e Terni. Il foyer, preceduto da un portico su colonne ioniche, ospita al suo interno tre grandi sale – la sala delle colonne al piano terra, la sala Ressi e quella per la preparazione delle maschere al primo piano;– e un loggiato al piano superiore affacciato sulla piazza. La grande sala comprende 71 palchi coronati da un loggione e, originariamente, poteva ospitare fino a 1.400 spettatori. Nella sua opera, Poletti sperimentò alcune innovazioni nel disegno degli interni: superò l'usuale divisione dei palchi in quadrati di uguale grandezza e realizzò il secondo ordine di palchi su dimensioni più grandi e di aspetto architettonicamente più imponente rispetto agli altri. Inoltre non venne realizzato il palco reale tipico dei teatri all'italiana. L'esterno del teatro è quasi totalmente privo di decorazioni. Gli scenari furono commissionati al riminese Michele Agli. Il sipario fu affidato al pittore Francesco Coghetti, che vi raffigurò la scena del passaggio del Rubicone di Giulio Cesare, ispirandosi alla descrizione che ne fece Lucano in Pharsalia. I primi rilievi del sipario, in vista del restauro, sono iniziati nell'aprile 2016. La presenza di resti archeologici era già stata ventilata da alcuni studiosi all'epoca della demolizione della parte posteriore del teatro e della costruzione del capannone adibito a palestra. Durante i lavori di ricostruzioni iniziano ad emergere dapprima i settecenteschi forni cittadini, poi un quartiere di epoca medievale, un complesso sepolcrale e infine i resti di alcune domus di epoca romana. Questo ha portato alla decisione di modificare il progetto, rendendo visitabili i resti delle domus e trasformando la parte inferiore del teatro in un museo. Oltre alle domus è stato recuperato l'anello murario che cingeva la sala originale del teatro. Per l'accesso all'area archeologica è stato realizzato un ingresso indipendente. Luigi Tonini, Guida del forestiere nella città di Rimini, Rimini, Malvolti ed Ercolani, 1864. Giuseppe Campi, Monografia della Provincia di Forlì, Forlì, Tipografia Bordandini e Casali, 1866-1880. Carlo Tonini, Compendio della storia di Rimini, parte II, dal 1500 al 1861, Bologna, Arnaldo Forni Editore, 1969 [1896]. (EN) Ashton Rollins Willard, History of modern Italian art, 1902. Francesco Amedolagine, Livio Petriccione, Il teatro Galli. Tecniche e materiali per la ricostruzione degli apparati decorativi del capolavoro di Luigi Poletti, Rimini, Maggioli Editore, 2018. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Teatro Amintore Galli Sito ufficiale

Chiesa di Sant'Agostino (Rimini)
Chiesa di Sant'Agostino (Rimini)

La chiesa di Sant'Agostino è una chiesa di Rimini. Fu cattedrale della diocesi di Rimini dal 1798 al 1809. La chiesa, dedicata a san Giovanni evangelista, è nota come "di Sant'Agostino" in quanto gestita dai padri agostiniani dal XIII secolo fino alle soppressioni napoleoniche. Originariamente si ergeva, in parte dove è sita la sagrestia, una chiesa intitolata a san Giovanni Evangelista, che compare citata per la prima volta in un atto del 1069. Nel 1256 fu concessa ai padri agostiniani (aggiungendo all'intitolazione "e di Sant'Agostino"), originari di un piccolo monastero di eremiti brettinesi a nord di Fano, già presenti in città almeno dal 1247, come testimoniato da una bolla di papa Innocenzo IV. L'atto di concessione nel 1256, del vescovo Giacomo, menziona che la allora parrocchia di San Giovanni Evangelista possedeva pascoli, terreni, vigne, a cui il vescovo aggiunse una casa e una torre attigue, oltre ad esentare i padri agostiniani e gli abitanti della parrocchia "ad omni lege diocesiana, et iurisdictione, et istitutione". Grazie anche ad alcuni lasciti, i padri agostiniani acquistarono ulteriori proprietà contigue in aggiunta a quelle concesse, con l'intenzione di "edificare un monistero" in breve tempo, proposizione supportata anche da papa Alessandro IV con una bolla del 1257, concedendo a loro "di poter ricevere delle usure, rapine & altre cose male acquistate [..] fino al numero di 300 lire a Ravenna", a cui seguì l'anno successivo la bolla papale di conferma della concessione della parrocchia. La benevolenza vescovile e papale verso gli ordini mendicanti era a quel tempo favorita dall'intenzione di combattere i movimenti eretici dei Catari, Patarini e Manichei, nonché come contrapposizione al dilagante malcostume del clero secolare. Il nuovo impianto architettonico, conglobante in parte il precedente, era già in stadio avanzato di costruzione nel 1278 e in via di completamento attorno al 1287. Tra queste due date si possono notare due ripensamenti: il primo fu quello di rendere la struttura simmetrica, per cui sul fianco est si può notare un allungamento grazie ad una lesena angolare simmetrica alla cappella del campanile; il secondo fu l'innalzamento della facciata. Infatti la presenza di tre grossi occhi cechi, mai aperti e privi di ghiere, fanno pensare ad una ipotesi originaria diversa, un edificio di stile romanico, sottolineato dal colore rosso dei mattoni e dall'assenza di intonacatura. La struttura realizzata divenne la più importante del periodo gotico riminese, nonché l'edificio più grande mai costruito da un ordine mendicante nella città. Seguirono diversi interventi a causa del terremoto del 1308, la cui intensità viene calcolata attorno all'ottavo grado della scala Mercalli. A tali interventi contribuì il favore della famiglia Malatesta, intenzionata a intrattenere una politica di buoni rapporti con gli ordini mendicanti per inserirsi gradualmente nelle istituzioni cittadine. Ad esempio, nel suo testamento del 1311, Malatesta il Mastin Vecchio stabilì che le spese necessarie per la celebrazione del capitolo generale dei frati eremitani a Rimini fossero sostenuti dai suoi eredi. Nel 1346 il governo cittadino, obbligato da Malatesta il Guastafamiglia, concesse agli agostiniani la via Nova per poter ingrandire il loro monastero, nel quale già operava a un collegio per novizi, una grande biblioteca e uno studio che diverranno, dopo quello bolognese, i più importanti della regione. Si formarono proprio qui due illustri esponenti dell'ordine agostiniano: il beato Tommaso e il teologo Gregorio da Rimini. L'impianto gotico subì diversi lavori di rifacimento tra il 1580 e il 1585, soprattutto per quanto riguarda il tetto e gli affreschi, su spinta di un decreto vescovile che intimava al rettore della parrocchia di imbiancare "l'immagini de sancti depinti nelle mura e guasti nel tempo". Nel Settecento seguirono numerosi ritocchi che ne hanno alterato in parte le originarie fattezze e decorazioni, imprimendole, soprattutto all'interno, uno stile barocco. Frati agostiniani gestirono la chiesa e il monastero fino alle soppressioni napoleoniche. Le spoglie mortali del beato Alberto Marvelli vennero traslate nella chiesa di Sant'Agostino, dal cimitero cittadino, nel 1974. Sita in via Cairoli, attigua a piazza Cavour, è nel pieno centro storico di Rimini. La chiesa di Sant'Agostino è fra le più imponenti della città (soprattutto per il suo svettante campanile) e tuttora conserva parte del pregiatissimo ciclo pittorico della scuola riminese che la adornava prima dei lavori di rinnovo del XVII secolo e che ne testimoniava l'importanza religiosa e culturale. Sulla spinta del menzionato lascito di Malatesta il Mastin Vecchio, il capitolo generale tra il 1315 e il 1318 commissionò alla bottega di Giovanni da Rimini la decorazione del coro e del timpano sopra l'arco trionfale, nella quale parteciparono anche i fratelli di Giovanni, ossia Giuliano e Zangolo. Da un lascito del 1303 che si proponeva di dotare l'altare maggiore di una maestà di Cristo e di una Madonna, si potrebbe dedurre che già tale bottega operava in sito e fosse la realizzatrice delle due commissioni. L'abside e la cappella del campanile, le parti maggiormente conservate, presentano una serie di affreschi dedicati alla Vergine Maria, alla vita di san Giovanni evangelista e a Sant'Agostino. Alla loro base vi sono alcuni affreschi tardo-trecenteschi, in stato di conservazione precario, tra cui una Madonna e angeli di gusto tardogotico, ed ulteriori frammenti primo-quattrocenteschi. Ricche di interesse sono inoltre le numerose cappelle laterali, nelle quali sono conservate pale settecentesche e statue in stucco di Carlo Sarti. Pregiati anche gli stucchi di Ferdinando Bibiena, che ornano il soffitto, e i vari affreschi di Vittorio Maria Bigari. Angelo Turchini, Claudio Lugato e Alessandro Marchi, Il Trecento Riminiese a Stant'Agostino a Rimini, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1995. Vittorio Bassetti, Regesto agostiniano riminese sino all'anno 1300, in Analecta Augustiniana, LXII, Roma, Institutum historicum ordinis S. Augustini Romae, 1998, pp. 245-271. Vittorio Bassetti, Un ritrovato "Libro di entrate/uscite della Provincia Agostiniana di Romagna (1437-1538), in Analecta Augustiniana, LXIII, Roma, Institutum historicum ordinis S. Augustini Romae, 2000, pp. 60-96. Rimini Diocesi di Rimini Parrocchie della diocesi di Rimini Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa di Sant'Agostino Home page della parrocchia di Sant'Agostino, su santagostinorimini.it.

Chiesa di Santa Maria ad Nives (Rimini)
Chiesa di Santa Maria ad Nives (Rimini)

La chiesa di Santa Maria ad Nives, fino al 1814 chiesa di Santa Maria della Misericordia, è una chiesa sconsacrata di Rimini. Risalente al XIV secolo, fu completamente ricostruita a metà del Settecento. Dal 2016 ospita il Visitor Center della Rimini romana. La chiesa faceva parte del complesso dell'ospedale di Santa Maria della Misericordia, sorto nel 1368 lungo il decumano massimo (l'attuale Corso d'Augusto) su un terreno donato dal Capitolo Lateranense alla Confraternita della Beata Vergine, all'angolo con l'attuale vicolo di Santa Maria in Corte. Il 26 giugno del 1486 Galeotto IV Maletesta, tutore di Pandolfo IV, per far fronte alle necessità dei più deboli e dei più poveri, unificò tutti e 12 gli ospedali della città non facenti parte della mensa vescovile in un'unica struttura che fu proprio identificata nell'ospedale della Misericordia. Questo comportò delle significative modifiche all'architettura dell'edificio. Per altro in generale gli ospedali non erano concepiti esattamente come li intendiamo oggi, ma come suggerisce il nome (dal latino hospitalis, che designava un luogo in cui si dava un alloggio a forestieri) il termine "spedale" (poi "ospedale") designava dei luoghi in cui, grazie alla beneficenza dei cittadini, venivano ospitati i più bisognosi della città (mendicanti, affamati, storpi, lebbrosi, appestati, folli, donne di strada, orfani ed ammalati). Nel XVI secolo l'ospedale divenne anche orfanotrofio e ancor oggi sulla facciata della chiesa esiste la buca usata allora per introdurre, come dice l'iscrizione incisa su marmo, "Elemosine e Resti all'Hospitale M[isercordia]". Frattanto, tra il 1730 ed il 1754, la chiesa ospedaliera fu rifatta in forme barocche. Nel 1800 nacque a Rimini l'ospedale in senso moderno, inteso cioè come "palazzo della malattia". Nel settembre di quell'anno i malati poveri ma curabili furono così trasferiti dall'ospedale Della Misericordia all'ex Collegio dei padri Gesuiti, sito nell'attuale palazzo Tonini (oggi sede del Museo della città di Rimini), che prese il nome di ente "Ospedale Infermi" e che mantenne qui la sede fino al 14 giugno 1976. La chiesa del vecchio ospedale rimase parrocchiale fino al 1806, quando divenne succursale della chiesa dei Servi. Chiusa nel 1809, nel 1814 col ritorno di Rimini sotto lo Stato della Chiesa fu riaperta col titolo di Santa Maria ad Nives. Seriamente danneggiata dal terremoto del 1916, la chiesa fu definitivamente sconsacrata nel 1930 e successivamente fu acquistata dal Comune di Rimini. Nel 1984 fu restaurata ad opera degli architetti Massimo Mori e Giulio Cumo e divenne sede di esposizioni temporanee, fino a quando nel 1996 la neonata Provincia di Rimini acquistò la chiesa e l'annessa sede dell'ex Ospedale per farne la sua sede. La chiesa fu nuovamente restaurata, fu spogliata dell'altare ed adibita a sala consiliare. Pierluigi Foschi, RIMINI RISORTA trent'anni di restauri, Rimini, La Voce, 2013. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su ex chiesa di Santa Maria ad Nives

Castel Sismondo
Castel Sismondo

Castel Sismondo è un castello di Rimini del XV secolo ideato e costruito da Sigismondo Pandolfo Malatesta, a quell'epoca signore di Rimini e Fano. Rimane solo il nucleo centrale del castello intero il quale era originariamente difeso da un ulteriore giro di mura e da un fossato. Castel Sismondo fu costruito per volere di Sigismondo Pandolfo Malatesta a partire dal 1437, in un periodo di grande prosperità per la signoria malatestiana. Fu ideato come fortezza e palazzo al tempo stesso, di grandiose proporzioni, che dovesse rappresentare visivamente il potere e la supremazia del signore sulla città. Sigismondo, celebrato come architetto dell'opera dagli scrittori di corte, fu verosimilmente ispiratore e coordinatore del progetto, per la sua esperienza di condottiero e la grande conoscenza delle arti belliche. Di certo il signore fu affiancato da progettisti ed ebbe la consulenza, poco dopo l'inizio dei lavori, di Filippo Brunelleschi, architetto di grande prestigio chiamato a Rimini nel 1438 per eseguire sopralluoghi nelle principali fortezze della signoria. Alla fabbrica inoltre lavorarono, prima dell'arrivo di Brunelleschi e ancora nel 1454, Cristoforo Foschi e Matteo Nuti. La costruzione della rocca sfruttò in parte strutture preesistenti: un grande complesso fortificato costruito da Galeotto Roberto, fratello di Sigismondo e suo predecessore, case malatestiane duecentesche (forse torri residenziali) e un breve tratto delle mura urbane di età federiciana. Il complesso originario, sorto nella zona denominata Gattolo di Santa Colomba, nel rione Cittadella doveva probabilmente risultare angusto e inadeguato per la corte di Sigismondo. Era costituito da una serie di edifici raccolti intorno ad un torrione centrale, con l'ingresso sulla piazza della cattedrale difeso sulla sinistra da una seconda torre. Lo storico cinquecentesco Baldo Branchi ricorda come il signore avesse proceduto distruggendo gli antichi palazzi e le abitazioni dei suoi avi, ad eccezione del "palazzo maggiore", intorno al quale costruì il nuovo complesso, probabilmente ricavando materiali da costruzione di recupero dalla demolizione delle fabbriche esistenti. Le fortificazioni esistenti furono rafforzate e adattate alle nuove esigenze militari con il rialzamento dei camminamenti e del muro di cinta, la regolarizzazione e l'ampliamento del fossato, la costruzione di nuove torri e, dopo la morte di Sigismondo, con l'edificazione di una seconda cinta, più esterna, aperta da due doppie porte di ingresso, una rivolta verso la città e l'altra verso la campagna. La costruzione iniziò il 20 maggio 1437 alle ore 18.48: il momento della fondazione fu deciso da Sigismondo sulla base di calcoli elaborati con precisione dagli astrologi di corte. Durante i lavori, al fine di creare un'ampia fascia di rispetto intorno al fossato, fu demolito un intero complesso di edifici, tra i quali il battistero di San Giovanni, il convento di Santa Caterina e il vescovado. Per esigenze difensive, inoltre, fu ordinata la demolizione della parte superiore del campanile della cattedrale. I lavori di costruzione del castello durarono circa 15 anni, anche se le iscrizioni apposte sul portale d'ingresso e su alcuni torrioni fanno risalire la sua inaugurazione al 1446; tuttavia taluni lavori si protrassero fino al 1454, ed è possibile che la rocca non sia mai stata compiuta secondo il progetto originario. L'immagine dell'antica grandezza del castello è ricordata in una medaglia celebrativa di Matteo de' Pasti e in un particolare del celebre affresco di Piero della Francesca nel Tempio Malatestiano. La rocca è raffigurata in prospettiva, in modo univoco e coerente con tutte le rappresentazioni dell'epoca, compresa quella del bassorilievo del Cancro nella cappella dei pianeti e dei segni zodiacali: chiusa da una cinta di alte torri all'interno della quale svetta l'imponente mastio. Il declino della signoria malatestiana, alla fine del XV secolo, determinò l'inizio di un lungo periodo di decadenza. Il castello fu destinato unicamente a scopi militari, perdendo definitivamente il carattere di residenza, e fu soggetto a radicali lavori per rispondere alle mutate necessità di difesa dovute al rapido sviluppo delle armi da fuoco. Nel 1503, durante il breve periodo di dominazione veneziana, il castello fu oggetto di un sopralluogo del provveditore Vincenzo Valier, che lo ritenne inadeguato dal punto di vista balistico alle moderne esigenze difensive. Importanti cambiamenti del perimetro murario, come l'introduzione di bastioni poligonali in luogo di quelli quadrangolari del XV secolo, sono documentati dalla più antica planimetria esistente di Castel Sismondo, disegnata nel 1526 da Antonio da Sangallo il giovane. Tra il 1624 e il 1626 Castel Sismondo fu interessato da nuovi restauri e trasformazioni, con l'aggiunta di cannoniere, la demolizione delle sommità delle torri per sistemarvi i mortai, il rialzamento delle quote esterne e la demolizione del rivellino verso la campagna, e assunse il nome di Castel Urbano, in onore del pontefice Urbano VIII. Nello stesso periodo furono ricostruiti i muri di controscarpa e i tetti e furono rinnovati la cappella e i magazzini. Nel 1821 il castello venne adibito a caserma dei carabinieri. L'assetto della fortezza subì nel 1826 ulteriori estese modifiche con la distruzione della cinta e dei baluardi esterni, il riempimento del fossato, la demolizione della terza torre e la costruzione di un magazzino di sale addossato ai bastioni. La rocca fu adibita a caserma, deposito e infine nel 1857 a prigione, funzione che mantenne fino al 1967. In anni recenti Castel Sismondo è stato oggetto di un generale restauro, diretto da Carla Tomasini Pietramellara, che ne ha permesso la fruizione da parte del pubblico, la conservazione e la comprensione delle fasi costruttive. L'accessibilità è stata garantita con l'introduzione di ascensori, passerelle e nuovi corpi scala di disegno contemporaneo all'interno del mastio e dell'ala di Isotta. Nel corso dei lavori sono emerse preesistenze di età romana e altomedievale, tra cui i resti delle mura tardo imperiali (il cui tracciato segue esattamente il fronte sud-occidentale del mastio), una porta e le fondazioni di una torre, che sono stati resi visibili e integrati nella nuova sistemazione dei percorsi e degli spazi espositivi. Dal 2019 sono in corso i lavori per il ripristino di 3 dei 6 metri di profondità del fossato orientale, mentre sul lato occidentale è stata liberata la "corte a mare", lasciata a prato. Castel Sismondo era un complesso di grandiose dimensioni, simile ad una cittadella fortificata, e interamente circondato da un enorme fossato asciutto, al centro del quale scorreva un rigagnolo denominato “fustigata”. Il fossato era predisposto per l'allagamento, che poteva avvenire solo sfruttando particolari sistemi idrici, essendo posto ad un livello superiore rispetto al fiume Marecchia. Il castello era interamente racchiuso da un'alta cinta esterna dall'andamento irregolare, entro la quale si aprivano due grandi spazi aperti: la corte a mare, rivolta verso la città, e la corte del soccorso, verso la campagna. Le due corti comunicavano attraverso una corte minore ricavata all'interno del nucleo centrale del castello, la rocca di mezzo, a sua volta diviso in due corpi di fabbrica principali: il mastio e l'ala di Isotta, collegati ad un livello intermedio tra il primo e il secondo piano attraverso un passaggio coperto. La rocca di mezzo e le due corti erano presidiate ognuna da una propria guarnigione e da un castellano; nel complesso risultano tuttavia scarsi gli alloggi per i soldati, che dovevano essere in numero molto limitato. Roberto Valturio, nel suo trattato De re militari, magnificò il castello ricordandone le enormi dimensioni (350 passi), la grandiosità delle scarpe, paragonate a piramidi, il numero di finestre (160), torri (6, alte 80 piedi) e ponti (4), l'ampiezza del cammino di ronda, la complessità dell'articolazione e l'imponenza dei terrapieni. Lo storico ne celebrò la bellezza architettonica e la solidità di fortificazione militare, riconoscendo il castello non solo come fondamentale difesa per la città, ma come motivo di ammirazione per l'Italia intera. È nota attraverso i documenti storici l'esistenza di passaggi sotterranei percorribili a cavallo che comunicavano direttamente con l'esterno e di trabocchetti con pozzi a rasoio, utilizzati con efferatezza dal nipote di Sigismondo, Pandolfo IV, detto “Pandolfaccio”. Egli era solito condurre gli sventurati innanzi ad un'immagine della Vergine dipinta sul muro, in un punto in cui nel pavimento si apriva, al di sotto di una tavola di legno, una profonda fossa dalle pareti ricoperte di ferri acuminati. La rocca era caratterizzata all'esterno da una vivace policromia, creata con intonaci dai colori araldici malatestiani (verde, rosso e bianco), testimoniati da scritti del XV secolo, dalla rappresentazione di Piero della Francesca nell'affresco al Tempio Malatestiano e da tracce di velature rosse rinvenute tra i beccatelli sulla torre portaia. Le forme architettoniche, le soluzioni spaziali degli interni e le scelte decorative volute da Sigismondo per il castello appartengono ancora pienamente al gusto del gotico cortese internazionale. L'impianto generale di Castel Sismondo ha invece carattere di assoluta modernità per l'epoca e rappresenta la realizzazione di un'operazione concettuale che anticipa le teorizzazioni di Francesco di Giorgio Martini sulle nuove tecniche militari. Castel Sismondo è stato considerato il primo castello moderno per l'impianto vagamente stellare rafforzato da torri protese verso l'esterno. La grande conoscenza del Malatesta dell'arte militare del tempo e delle nuove artiglierie, permise la commissione di una struttura fortificata alla moderna, capace cioè di resistere alla forza distruttrice delle armi da fuoco. Le cortine infatti, sono molto più robuste del solito e gli stessi grandi torrioni quadrangolari accoglievano al loro interno un cannone in bronzo ciascuno. Come nel Tempio Malatestiano, anche nel castello convivono elementi architettonici e decorativi discordanti, testimoni della transizione avvenuta nella prima metà del XV secolo tra la tradizione medievale e la cultura nuova del Rinascimento. La corte a mare, costruita da Sigismondo davanti al fronte principale della rocca, era circondata da grandi bastioni poligonali. Dal punto di vista dell'arte bellica era una “falsa braga”, utilizzata per la difesa radente per rendere difficile l'attacco diretto alle torri della cinta interna. La corte fu distrutta insieme alla cinta esterna nel XIX secolo e di essa non restano tracce, essendo stato colmato il fossato che ne definiva il perimetro. L'ingresso alla corte a mare avveniva tramite una torre portaia dotata di due porte, una carrabile a sinistra ed una pedonale a destra, preceduta da due ingressi difesi e due ponti levatoi. La corte del soccorso, più antica e tuttora esistente, è una vasta spianata erbosa di forma trapezoidale irregolare, e costituiva originariamente una vera e propria piazza d'armi. È chiusa su lato sud-occidentale da un tratto delle mura urbane e su quello occidentale da un breve tratto di mura che si collega alla quarta torre. Sugli altri lati si affacciano il fronte posteriore del mastio, caratterizzato da un'imponente scarpa, e quello dell'ala di Isotta. Il muro sud-occidentale ha perduto interamente il cammino di ronda sommitale ed è interrotto al centro dalla breccia dell'ingresso posteriore, corrispondente alla distrutta torre portaia, che metteva in comunicazione la corte con la campagna circostante. Questo fronte della rocca era difeso esternamente da un rivellino, ma era ritenuto più sicuro degli altri perché circondato da terreno acquitrinoso. La rocca di mezzo ha una pianta irregolare ed è chiusa da un giro di bastioni a scarpa rafforzati agli angoli da quattro torri quadrangolari (esisteva anche una quinta torre, posta all'angolo nord-occidentale del palazzo d'Isotta). I torrioni sono tutti rivolti verso la città e si affiancano a vicenda, tenendo sotto tiro tutte le direzioni d'accesso e creando un sistema difensivo con punti di tiro e di osservazione efficace contro le armi da fuoco. La disposizione delle torri accredita la tesi che il castello sia stato costruito sostanzialmente per difendere il signore dalle eventuali rivolte dei sudditi prima ancora che per difendere la città dai nemici esterni. Le prime due torri serrano il corpo di ingresso; quella di sinistra, più bassa, è rafforzata da un riempimento di terra che ne occupa tutto il livello inferiore; la torre di destra (torre maggiore), più alta e in posizione più esterna, fungeva da torre scalare, ed ha al suo interno una scalone elicoidale che conduce ai piani superiori del mastio. La terza torre, distrutta, è riconoscibile in parte nell'andamento planimetrico di un bastione proteso verso la piazza, mentre la quarta torre si affaccia sul lato settentrionale. Tutte le torri sono ornate nella parte superiore da stemmi malatestiani. Sulle murature dei bastioni e sulle torri, a coronamento della scarpa, corre una fascia marcapiano in formelle in maiolica smaltata decorate con la rosa quadripetala, antica decorazione araldica malatestiana. L'ingresso verso la città avviene tramite un portale gotico, ad arco acuto, con stipiti e ghiera realizzati in conci marmorei disposti in modo classico. Sopra al portale è posta un'epigrafe dedicatoria con un solenne testo in latino scolpito in caratteri lapidari classici, nel quale si afferma che Sigismondo eresse l'edificio dalle fondamenta nel 1446 (nonostante la rocca non fosse stata costruita ex novo), a decoro dei riminesi, e stabilì che venisse chiamato con il suo nome:"SIGISMUNDUS PANDULFUS MALATESTA PAN F. MOLEM HANC, ARIMINENSIUM DECUS, NOVAM A FUNDAMENTIS EREXIT, CONSTRUXIT QUE A.C. CASTELLUM SUO NOMINE SISMUNDUM, APPELLARI CENSUIT MCCCCXLVI". L'epigrafe, così come le due identiche poste sul lato meridionale dell'ala d'Isotta e sulla quarta torre, ha proporzioni e caratteri espressamente rinascimentali; non sembra coeva alla costruzione delle mura ed è stata interpretata come un segno della svolta introdotta da Leon Battista Alberti nel gusto della corte malatestiana. Sull'ingresso è posto un grande stemma costituito da uno scudo con bande a scacchi, simbolo dei Malatesta, sormontato da un cimiero a testa d'elefante crestato e da una rosa quadripetala. Ai lati dello stemma è celebrato, in caratteri gotici rilevati, il nome del signore di Rimini: Sigismondo Pandolfo. Questo goticismo stilistico ci riporta all'ambiente di Venezia, città che rimase sempre legata al Malatesta, essendo stato Sigismondo capitano di ventura delle truppe della Serenissima. La torre d'ingresso è conclusa in sommità da una bertesca su archetti sormontata da un coronamento rastremato. Il “palazzo di Isotta” potrebbe essere stato edificato per volere di Sigismondo come un'ala residenziale temporanea, che avrebbe dovuto ospitare la corte durante i lavori per la costruzione del mastio, oppure, secondo un'ipotesi alternativa, come residenza per la giovane amante e poi terza moglie. L'ala d'Isotta ha una pianta rettangolare e si sviluppa su tre piani, organizzati secondo uno schema distributivo molto diffuso nei castelli europei, entro muri perimetrali di eccezionale spessore (fino a tre metri). In origine il piano terra ospitava gli ambienti di rappresentanza: la sala di ricevimento e la cappella, dalla quale una scala conduceva al primo piano, dove erano gli ambienti privati (la camera e il salotto). Una seconda scala era riservata al personale di servizio e conduceva alla terrazza sommitale senza interferire con gli appartamenti signorili. Il grande ambiente dei magazzini al piano interrato, aperto da poche e piccole finestre nello spessore della muratura, comunica tramite una breve scala con uno spazio esterno rialzato ricavato sul lato sud-orientale del castello. La sistemazione attuale dello spazio interno, che fu sede del Museo delle culture extraeuropee “Dinz Rialto” tra il 1988 e il 2000, si deve ai moderni interventi di restauro. Nel passaggio che mette in comunicazione l'ala d'Isotta con l'edificio di mezzo della corte interna è riconoscibile in planimetria la torre di età romana in corrispondenza della quale il tracciato dell'antica cinta muraria cambiava direzione. Il fronte meridionale dell'edificio, quasi interamente chiuso, presenta al livello inferiore un'iscrizione dedicatoria in latino, identica a quella dell'ingresso principale, e al primo piano una serie di mensole in pietra d'Istria su beccatelli in aggetto, che dovevano sorreggere una grande balconata coperta. Il pavimento della balconata era probabilmente realizzato in lastre di pietra d'Istria, mentre la copertura era costituita da un manto di coppi su tavole. Nella parte superiore della facciata corre una scossalina, sotto alla quale sono visibili i fori che fungevano da sostegno per le travi della copertura. L'edificio è addossato a sud-ovest a una torre d'angolo preesistente, alla base della quale è leggibile un tratto della cinta muraria urbana, mentre si apre con una serie di finestre sul lato della corte del soccorso. Il mastio si innalza su un grande basamento a scarpa, protetto da poderosi terrapieni perimetrali spessi fino a otto metri, costituiti da due distinti paramenti laterizi collegati da setti murari, che fungevano da consolidamento statico e consentivano di fronteggiare i colpi delle armi da fuoco. L'ingresso al mastio avviene attraverso un grande portale a sesto acuto, sotto la cui arcata è posto uno stemma raffigurante lo scudo a scacchi e, ai lati, la scritta “Sigismondo Pandolfo”, analoga a quella dell'ingresso principale al castello. Il portale immette in un piccolo cortile coperto, che comunica attraverso un passaggio con la torre scalare. Il piano terra, ricavato dalla trasformazione di un preesistente palazzo malatestiano, costituiva un enorme basamento per il nuovo palazzo “pensile” voluto da Sigismondo, forse mai completato o forse demolito nei secoli successivi. Questo livello del grande edificio, sistemato in un secondo momento con lo svuotamento del terrapieno artificiale, ospita un grande salone a doppia altezza adiacente alla corte, con volte a botte su pilastri, e una serie di ambienti di servizio – il pozzo, la cucina, la cantina e i magazzini – sul lato verso la piazza. Al piano terra e al piano ammezzato sono visibili resti delle preesistenti case malatestiane risalenti al XIII-XIV secolo. Le sale del primo piano, al quale si accede percorrendo lo scalone della torre maggiore, ospitavano l'abitazione del castellano, la polveriera, un grande guardaroba per i signori ed un magazzino. Il secondo piano o piano nobile, sede dell'appartamento signorile, rappresentava un significativo esempio di integrazione tra una dimora nobiliare ed una complessa struttura fortificata. Il settore del mastio prossimo al passaggio coperto di collegamento con l'ala d'Isotta ospitava l'appartamento di Sigismondo e doveva essere un punto fondamentale per tutto il sistema fortificato, per la posizione strategica da cui era possibile sorvegliare sia l'interno che l'esterno del castello. Sempre al secondo piano si trovavano la camera dei genevieri, l'armeria di Sigismondo e altre camere; al terzo ed ultimo livello erano sistemati due depositi di armi ed una stanza forse adibita a cancelleria del principe. Sul lato del palazzo rivolto verso la città, sorretto dal terrapieno, si estendeva una spianata sommitale destinata all'artiglieria pesante, elemento di grande novità per l'architettura militare dell'epoca. Gli ambienti interni del mastio avevano nomi caratteristici, forse derivati dalle pitture murali che le ornavano: sono ricordate, nell'inventario di Isotta degli Atti redatto alla morte di Sigismondo, la camera delle grillande, la camera del crocifisso (forse identificabile con la cappella), la camera di mezzo, la camera senza letto, la camera della pianchetta, la sala della morte, la sala grande e la camera dei genevieri. Le austere sale che costituivano la residenza del signore e della sua corte erano arredate con mobili, armi, tessuti e stendardi, e custodivano libri, sculture, quadri e maioliche. L'intero patrimonio andò perduto con la fine della dinastia malatestiana e la definitiva trasformazione del castello in fortezza militare. Revolutions 1989-2019: L’arte del mondo nuovo – 30 anni dopo, a cura di Luca Beatrice (6 luglio 2019 - 25 agosto 2019). Maurizio Biordi, Pier Luigi Foschi, Museo delle culture extraeuropee “Dinz Rialto”, Rimini, Provincia di Rimini, 1995. Marta Cristiani, Dall’unanimitas all’universitas, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1978. Giorgio Conti, Pier Giorgio Pasini, Rimini città come storia, Rimini, Giusti, 1982. Angela Donati, Il potere, le arti, la guerra. Lo splendore dei Malatesta a Rimini, Milano, Electa, 2001. Grazia Gobbi, Paolo Sica, Le città nella storia d’Italia. Rimini, Roma, Laterza, 1982. Nevio Matteini, Rimini. I suoi dintorni. La riviera di Romagna, Rimini, Cappelli, 1966. Oriana Maroni, Maria Luisa Stoppioni, Storia di Rimini, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1997. Pier Giorgio Pasini, Itinerari malatestiani a Rimini e nel riminese, Rimini, Provincia di Rimini, 2003. Pier Giorgio Pasini, Rocche e castelli malatestiani, Rimini, Provincia di Rimini, 2003. Pier Giorgio Pasini, Castel Sismondo, in: Domenico Berardi, Rocche e castelli di Romagna, Imola, University Press, 1999. Luigi Tonini, Guida del forestiere nella città di Rimini, Rimini, Malvolti ed Ercolani, 1864. Rinascimento riminese Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Castel Sismondo Approfondimenti sulla storia del castello, su mitidiromagna.it. URL consultato il 2 luglio 2008 (archiviato dall'url originale il 13 ottobre 2007).

Chiesa del Suffragio (Rimini)
Chiesa del Suffragio (Rimini)

La chiesa di San Francesco Saverio, più nota come chiesa del Suffragio, è una chiesa cattolica del centro storico di Rimini, fondata a inizio Settecento dai Gesuiti. L'annesso collegio è dal 1981 sede del Museo della città di Rimini. I Gesuiti erano giunti a Rimini nel 1627 e nel 1631 fondarono la prima chiesa, dedicata anch'essa a San Francesco Saverio, costruita nell'ex-granaio di un cittadino benevolente. Nel 1655 i Gesuiti, beneficiati del lascito di Cesare Galli, protonotario apostolico, iniziarono a pensare alla costruzione di una nuova chiesa, che sarà disegnata su modello della romana Chiesa del Gesù. Non certa è l'identità dell'autore del progetto, attribuito da tradizione a Giovan Francesco Buonamici o al conte Francesco Garampi, quest'ultimo deceduto nel 1714. Altri lo attribuiscono ad Alfonso Torreggiani, che tra il 1746 e il 1755 progettò l'annesso collegio. I lavori iniziarono nel 1719 e poterono dirsi terminati nel 1721. La facciata rimane però priva del rivestimento lapideo, rimasto incompiuto a seguito della soppressione della Compagnia di Gesù. La chiesa fu gravemente danneggiata dai bombardamenti Alleati durante la seconda guerra mondiale e ricostruita nel dopoguerra. L'annesso collegio, adibito ad ospedale per circa un secolo e mezzo, dal 1981 è sede del Museo della città di Rimini. La chiesa ha una pianta a croce latina, con interno a navata unica fiancheggiata da cappelle. L'organo Zanin è stato restaurato nel 2007. Elenco delle opere Adorazione di San Francesco Borgia, Pietro Rotari Gloria di Sant'Ignazio, Pietro Rotari Martiri Gesuiti Giapponesi, Guido Cagnacci Santa Cecilia ed il Bambin Gesù, Andrea Barbiani Sant'Emidio protegge Rimini, Giuseppe Soleri Brancaleoni (1793) San Nicola e le anime del Purgatorio, ignoto del XVIII secolo Due Annunciazioni di scuola toscana Altare marmoreo dedicato a Sant'Ignazio di Loyola, Giovan Francesco Buonamici Nevio Matteini, Rimini. I suoi dintorni. La riviera di Romagna, Rimini, Cappelli, 1966. Luigi Tonini, Guida del forestiere nella città di Rimini del bibliotecario dottor Luigi Tonini, Tipografia Malvolti ed Ercolani, 1864. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su chiesa del Suffragio Chiesa del Suffragio Rimini, su suffragio.it. URL consultato il 6 maggio 2021 (archiviato dall'url originale il 6 maggio 2021).

Museo della città di Rimini
Museo della città di Rimini

Il Museo della città di Rimini è situato in via Tonini (angolo piazza Ferrari), nell'ex-convento dei Padri Gesuiti ed ex-Ospedale Civile. Aperto nel 1981 e dedicato a Luigi Tonini, sorge accanto alla coeva chiesa del Suffragio. L'edificio fu progettato, come convento e collegio dei Gesuiti, da Alfonso Torreggiani e realizzato tra gli anni 1746 e 1755. Dopo la soppressione della Compagnia di Gesù, per circa un secolo e mezzo l'edificio fu usato come ospedale di Rimini. A seguito dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, si è resa necessaria una ristrutturazione, che è stata guidata dall'architetto Pier Luigi Foschi, che fu poi direttore del museo dal 1985 al 2010; i lavori di recupero e restauro hanno riportato all'antico splendore il vecchio convento, che può essere considerato un patrimonio culturale italiano, in seguito scelto come sede del Museo cittadino. Il museo è diviso in diverse sezioni, tra le cui sono degne di nota la sezione archeologica e quella medievale. Un ampio spazio è dedicato alla pittura del Trecento ed ospita, oltre a numerose opere della Scuola riminese, anche opere di Giovanni Bellini, Domenico Ghirlandaio, Guercino, Guido Cagnacci e altri. La sezione archeologica espone i reperti della domus del chirurgo, un'abitazione romana della seconda metà del II secolo, scoperta nel 1989 in piazza Ferrari a pochi metri dal museo. Di eccezionale importanza per numero e varietà gli strumenti chirurgici, che rappresentano uno dei più importanti corredi di attrezzi medici mai rinvenuto. Sono presenti numerosi mosaici di epoca romana, di particolare bellezza ed importanza. Dal 2010 il museo ospita una sezione dalla preistoria alla tarda antichità, partendo da un milione di anni fa con i segni della presenza dell'homo erectus sul colle di Covignano, al tempo lambito dal mare che sommergeva il piano su cui sarebbe stata costruita Rimini; qui sono state trovate selci scheggiate e levigate (cuspidi di freccia, lame foliate, asce e martelli forati), paragonabili a quelle ritrovate nel giacimento preistorico di Cà Belvedere di Monte Poggiolo a Forlì, oltre alle prime forme ceramiche (con superficie liscia o decorata, in forma di ollette, scodelle o vasi a fiasco per contenere semi e liquidi) che segnano la nuova economia agro-pastorale, ai ripostigli dell'età del bronzo di oggetti occultati da commercianti-fonditori. Alcune sale del museo vengono allestite per ospitare mostre temporanee ed esposizioni culturali. Giovanni Bellini, Pietà, 1470 circa Giovanni da Rimini, Giudizio Universale; Crocifisso Domenico Ghirlandaio, Pala di San Vincenzo Ferrer, iniziata da Domenico e conclusa nel 1496 dai collaboratori della bottega: spetta probabilmente a David Ghirlandaio la figura di San Vincenzo Ferrer, a Sebastiano Mainardi il San Sebastiano e a Francesco Granacci il San Rocco. Guercino, San Girolamo; Sant'Antonio da Padova Guido Reni, San Giuseppe con Gesù Bambino, sec. XVII Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Museo della città di Rimini Sito ufficiale, su museicomunalirimini.it.

Domus del chirurgo
Domus del chirurgo

La domus del chirurgo è un'abitazione romana della seconda metà del II secolo, scoperta nel 1989 a Rimini in piazza Luigi Ferrari, e aperta al pubblico il 7 dicembre 2007; qui sono stati rinvenuti mosaici, affreschi e reperti, tra cui una delle serie più complete di strumenti chirurgici di età romana, conservate al Museo della città di Rimini. Il sito archeologico della domus del chirurgo mette in luce anche successive stratigrafie archeologiche, comprendendo delle mura di età imperiale, un'abitazione palaziale e parte di una casa bizantina altomedievale. Il sito archeologico rappresenta una sintesi storica delle vicende edilizie della città a partire dal I secolo a.C. fino all'età moderna: gli elementi di maggiore interesse sono identificabili in quattro settori: il comparto della domus del chirurgo, le mura di età imperiale, l'abitazione palaziale risalente in un periodo compreso tra la tarda romanità e l'età gota, e infine la parte di una casa bizantina altomedievale. A seguito del restauro, il complesso archeologico è stato musealizzato in sito per le parti non trasferibili e all'interno del Museo di Rimini per i reperti archeologici rinvenuti. Nella primavera del 1989, durante lo sradicamento di un albero nell'ambito della sistemazione dei giardini di piazza Ferrari, si scoprirono dei frammenti di affresco intrappolati nelle radici dell'albero, uno dei mosaici e ruderi di età romana. Al ritrovamento seguì l'intervento della Soprintendenza Archeologica e del Museo della città di Rimini; dopo i primi accertamenti fu eseguito un sondaggio che mise alla luce delle strutture murarie, una porzione di mosaico e dei manufatti in bronzo, il che diede inizio all'indagine sistematica dell'area. Le campagne di scavo hanno esplorato un'area di 700 m², il cui sottosuolo ha rivelato i primi mosaici a circa 2,5 m di profondità dal piano di campagna, oltre che stratificazioni e varie strutture databili a partire dall'età tardorepubblicana. L'attuale struttura museale in sito fu aperta nel dicembre del 2007 e consente al pubblico di vedere i ritrovamenti camminando su piattaforme sospese trasparenti. Il nome con cui è noto il sito archeologico "domus del chirurgo", si deve al corredo chirurgico rinvenuto: da una mensola originariamente posta sulla parete era caduta una scatola di bronzo, da cui si era rovesciato un gruppo di strumenti in ferro e bronzo utilizzati dal medico per i suoi interventi, pinze, bisturi, scalpelli, sonde e altri attrezzi, nonché bilance e misurini di bronzo; e ancora vasetti in terracotta, e un gruppo di vetri ormai irriconoscibili, pertinenti a fiale e ad altri contenitori di uso farmaceutico. La domus era collocata nei pressi del bacino portuale della foce del fiume Marecchia, prima che il suo percorso fosse deviato verso nord e prima che la linea di costa si spostasse di 1,5 km verso il mare. La domus nel suo complesso aveva un perimetro trapezoidale, che misurava circa 30 m in larghezza con un massimo di 21 m in profondità, con una superficie di 450 m², metà dei quali scoperti; in realtà l'edificio comprendeva anche il corpo residenziale anteriore, che era il componente primario, arrivando così a ricoprire un'area superiore a 1000 m². Della domus sono visibili in planimetria le varie stanze: il vestibolo, cioè l'ingresso, che si affacciava su un cardine romano minore (l'attuale Corso Giovanni XXIII); la prima stanza usata come prolungamento dell'ingresso, che attraverso una porta faceva accedere al cortile e probabilmente al piano superiore; il cortile-giardino, in cui sono stati ritrovati il piede della statua di Ermarco e un bacile marmoreo; il corridoio, che metteva in collegamento la prima stanza con le restanti e dava sul cortile; il triclinio, ambiente dedicato ai pasti, caratterizzato dalla presenza di tre letti disposti intorno a una mensa centrale; la taberna medica composta da: il cubicolo, posizionato successivamente al triclinio, ambiente provvisto di un letto dedicato al ricovero dei pazienti, dotato di una finestra che si affacciava sul corridoio e di una porta che collegava alla stanza di Orfeo; la stanza di Orfeo, in cui è stata rinvenuta la collezione di strumenti medici, tra cui anche quelli chirurgici; una sala di ricevimento; i locali di servizio, tra cui una latrina con caditoia di scarico, un sudatorium o laconicum con riscaldamento pavimentale a ipocausto, su suspensure e un sistema di riscaldamento parietale a tubuli. Sezioni della domus del chirurgo Il piano superiore, ora non più esistente in quanto crollato con l'incendio, conteneva altre stanze residenziali affrescate e mosaicate, probabilmente una dispensa sopra al triclinio e una mensa con cucina. La domus fu ristrutturata nella seconda metà del II secolo, come è testimoniato dalla zona del peristilio, al fine di ricavare nuove aree abitative; successivamente fu abbandonata a causa di un repentino incendio che la distrusse completamente, testimoniato dal fatto che non siano stati messi in salvo una cassetta lignea contenente 89 monete romane e gli strumenti chirurgici ritrovati tra le macerie, oltre al fatto che questi ultimi mostrino segni di fusione dovuta al calore. La datazione dell'incendio è stata fatta sulla base delle monete ritrovate, le più tarde risalenti agli anni 257 e 258. Si suppone che il nome del medico fosse Eutyches sulla base del graffito, tracciato con uno stile di scrittura del III secolo, presente sull'intonaco decorativo del muro del cubicolo nel posto dove era appoggiato il letto, probabilmente inciso da un paziente per ringraziarlo delle cure: Dai ritrovamenti, dai mosaici, dalle decorazioni e dalle numerose scritte in greco ritrovate sul vasellame, si ipotizza che Eutyches fosse proveniente dal mondo greco-orientale, dove probabilmente ha anche studiato, essendo presenti le più grandi scuole di medicina del tempo. A supportare l'origine ellenica di Eutyches ci sono alcuni oggetti che teneva in casa tra cui: un pinax, un quadretto policromo in pasta di vetro con rappresentati tre creature marine, difficilmente reperibile sul mercato occidentale, di cui si ha un esemplare simile a Corinto; due vasetti che contenevano erbe medicinali, i cui nomi sono incisi in greco sugli stessi; un piede della statua di Ermarco, filosofo successore di Epicuro, ritrovata nel giardino della domus; una mano votiva in bronzo associata al culto di Giove Dolicheno, divinità di origine siriana settentrionale venerata dai soldati romani dal II secolo. Inoltre, lo strumentario chirurgico ritrovato suggerisce la specializzazione militare del medico, essendo principalmente rivolto alla cura di traumi e ferite, come il ciatisco di Diocle (un cucchiaio per l'estrazione di punte di freccia), e esclusivamente degli uomini, non delle donne, in quanto mancano strumenti da ostetricia. All'interno della domus sono stati ritrovati centinaia di reperti, ora conservati nella sezione archeologica del Museo della città di Rimini: ferri chirurgici, vasellame da cucina, monete, una consistente serie di decorazioni e mosaici. Gli strumenti chirurgici ritrovati a Rimini rappresentano a oggi la più ricca collezione chirurgica antica del mondo, per varietà e numero degli oggetti: circa 150 pezzi utilizzati per intervenire su ferite e traumi ossei, più una serie di vasetti utilizzati per la preparazione e la conservazione dei medicinali. Nel corredo chirurgico spiccano vari bisturi, sonde, pinzette, tenaglie odontoiatriche, leve ortopediche, un trapano a bracci mobili e diversi ferri utilizzati per esportare calcoli urinari. La tipologia dei ferri chirurgici indica che il chirurgo riminese era un medico militare. Uno dei ritrovamenti più importanti è il cucchiaio di Diocle, pezzo unico al mondo, che serviva per estrarre le punte di freccia conficcate nel corpo: un manico di ferro termina con una lamina a forma di cucchiaio, forata al centro, in modo da bloccare ed estrarre la freccia. Era utilizzato dai medici che operavano sul campo di battaglia. Nel triclinio è stato invece ritrovato il pannello di pasta di vetro con raffigurati i tre animali marini. In mezzo alle macerie del crollo del secondo piano, sopra lo studio medico, sono state trovate 89 monete romane in una cassetta lignea, quasi tutte d'argento. Gli scavi archeologici hanno riportato alla luce molti mosaici ancora intatti e affreschi policromi. Tra i mosaici spicca Orfeo tra gli animali, ritrovato nella taberna medica, che vede al centro Orfeo circondato da animali in ascolto. I mosaici furono realizzati prevalentemente con la tecnica dell'opus tessellatum e dell'opus reticulatum. Mosaici della domus del chirurgo Ilaria Balena e Marco Sassi, La domus del chirurgo e il complesso archeologico di piazza Ferrari, 2. ed, La Pieve, 2009, ISBN 978-88-904644-0-9, OCLC 1075912945. Stefano De Carolis, Ars medica : i ferri del mestiere : la domus del Chirurgo di Rimini e la chirurgia nell'antica Roma, Guaraldi, 2009, ISBN 978-88-8049-351-8, OCLC 876597506. Cristina Giovagnetti, La Domus del Chirurgo - Arredi e suppellettili, in Ariminum, n. 6, Novembre - Dicembre 2017, p. 21. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Domus del chirurgo Domus Rimini, su domusrimini.com. Alberto Angela, La domus del chirurgo in "Creature fantastiche" - Passaggio a Nord Ovest, Rai, 9 gennaio 2021, a 14 min 28 s. Gli scavi di Piazza Ferrari e la domus "del Chirurgo": duemila anni di storia riminese, su archeobologna.beniculturali.it. URL consultato il 24 luglio 2008 (archiviato dall'url originale il 4 aprile 2011).