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Chiesa di San Vito al Carrobbio

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La chiesa di San Vito al Carrobbio era una chiesa di Milano. L'edificio era situato nell'attuale via San Vito.

Estratto dall'articolo di Wikipedia Chiesa di San Vito al Carrobbio (Licenza: CC BY-SA 3.0, Autori).

Chiesa di San Vito al Carrobbio
Via San Vito, Milano Municipio 1

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Coordinate geografiche (GPS)

Latitudine Longitudine
N 45.459813 ° E 9.182145 °
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Indirizzo

Via San Vito 26
20123 Milano, Municipio 1
Lombardia, Italia
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Luoghi vicini

Colonna infame (Milano)
Colonna infame (Milano)

La colonna infame era un monumento a memoria del processo del barbiere Gian Giacomo Mora e del cittadino milanese Guglielmo Piazza posto all'angolo tra le attuali via Gian Giacomo Mora e corso di Porta Ticinese a Milano. Eretta nel 1630 dal governo milanese durante la dominazione spagnola e demolita nel 1778 durante l'amministrazione austriaca di Maria Teresa d'Austria, la colonna era intesa in origine come marchio d'infamia nei confronti dei due sospettati untori. Grazie al celebre saggio di Alessandro Manzoni la Storia della colonna infame, passò alla storia come simbolo della superstizione e dell'iniquità del sistema giudiziario spagnolo dell'epoca e della continua riproducibilità del male nella storia. Milano, allora amministrata dagli spagnoli, fu duramente colpita nel 1630 da una terribile peste diffusa in gran parte del nord della penisola italiana, nota anche come peste manzoniana e che uccise quasi la metà della popolazione provocando la morte di circa 60 000 milanesi: in un clima che vedeva la popolazione allo stremo, aggravato dalla ampia diffusione di superstizioni popolari, una donna del quartiere denunciò Guglielmo Piazza accusandolo di essere un untore intento a diffondere il morbo mediante particolari unguenti procuratigli dal barbiere Gian Giacomo Mora e che egli avrebbe applicato alle porte di alcune case. Venne quindi imbastito un processo in cui i due malcapitati vennero accusati di essere untori: il procedimento, condizionato da un uso disinvolto della tortura secondo gli usi dell'epoca, terminò con la condanna a morte dei due che confessarono la propria inesistente colpevolezza pur di porre fine alle atroci sofferenze a loro causate dalle torture, peraltro contraddicendo più volte le loro stesse dichiarazioni. La sentenza, oltre ad una condanna a morte da eseguirsi dopo vari supplizi da infliggere sfilando per le contrade della città, prevedeva l'abbattimento della casa-bottega di Gian Giacomo Mora; lo spazio vuoto venne occupato dalla colonna infame a memoria perpetua delle punizioni che sarebbero toccate a chi si fosse macchiato della colpa di essere un untore e come marchio di infamia indelebile per lo sventurato Mora. Nella prima metà del XVIII secolo l'avversione verso i presunti untori era ancora viva e diffusa tra la popolazione. Scriveva così Carlo Torre nel suo Ritratto di Milano (1674): Intorno al 1713 ebbe a scrivere lo storico ed erudito Ludovico Muratori, con cui il Manzoni polemizzò, nel trattato Del governo della peste, dopo aver avvertito le autorità preposte a "invigilare [...] che il Morbo non si comunichi [...] e [...] che non sia esso accresciuto dalla malizia e diabolica ingordigia degli scellerati": Poco dopo però il Muratori prosegue, esprimendo i suoi dubbi circa superstizioni ed abuso di potere della magistratura milanese: Scriveva invece Serviliano Latuada nel 1738: Ancora riguardo alla peste e agli untori: Della colonna non sono giunte descrizioni dettagliate, ma nelle stampe è raffigurata con una palla posta sulla sommità. La lapide che descrive gli avvenimenti e le pene inflitte ai colpevoli era originariamente posta su un muro a fianco della colonna ed è oggi conservata nei musei del castello Sforzesco. I nomi posti dopo la data, oggi non più presenti, furono trascritti in forme diverse da vari autori. Filippo Argelati, in riferimento a Marco Antonio Monti, considerava una menzione d'onore (honorifica mentio) quella sulla lapide. Pietro Verri invece nelle Osservazioni sulla tortura riportò il testo solo fino alla data, omettendo i nomi, forse per non offendere le famiglie dei nominati, in parte ancora presenti a Milano. Nella sua traduzione in lingua milanese della Gerusalemme Liberata del 1772, Domenico Balestrieri inserì in nota l'indicazione di una veramente compiuta dissertazione sulla colonna infame, letta dall'avvocato fiscale Fogliazzi durante una riunione dell'Accademia dei Trasformati, e riportò l'intera iscrizione della lapide; nel testo citò anche alcuni versi di un'opera di Giuseppe Parini. Stando a una ricostruzione dello storico milanese Francesco Cusani, il Balestrieri donò copia della propria opera al barone Joseph Sperges, consigliere austriaco per gli affari italiani; nella lettera di ringraziamento il barone si dolse per la citazione della colonna infame, monumento di disonore per il Senato di Milano. Balestrieri in seguito mostrò la lettera al conte Firmian, governatore della Lombardia. Successivamente, sempre secondo il Cusani, il governo cercò di far demolire la colonna, approfittando di una norma che vietava il restauro dei monumenti d'infamia: gli anziani della parrocchia fecero firmare agli abitanti delle case adiacenti una richiesta per l'abbattimento della colonna danneggiata dal tempo, ma il Senato rifiutò più volte quanto richiesto. Nelle notti dell'agosto 1778 gli abitanti sentirono più volte colpire la base della colonna, che cadde nella notte tra il 24 e il 25 agosto 1778 e "la palla che la sormontava rotolò giù pel vicolo dei Vetraschi". Alla fine di agosto i resti furono smantellati completamente e il 1º settembre ci fu un sopralluogo ufficiale. Dopo l'eliminazione della colonna infame, il terreno venne acquistato e fu costruita un'abitazione. Dalla prima metà dell'Ottocento le vicende della colonna infame conobbero nuova fama. Nel 1804 ci fu la pubblicazione postuma delle Osservazioni sulla tortura (1777) di Pietro Verri, saggio incentrato sull'uso della tortura nel processo agli untori e realizzato negli anni precedenti all'abbattimento della colonna infame. Nell'edizione del 1840 de I promessi sposi Alessandro Manzoni inserì come appendice il saggio storico Storia della colonna infame, con una descrizione del processo agli untori. Nel 1841 Francesco Cusani pubblicò la traduzione della cronaca di Giuseppe Ripamonti sulla peste del 1630 (edita in latino nel 1640), con l'aggiunta di informazioni storiche anche sulla colonna infame. Nel 1962 Dino Buzzati scrisse la commedia teatrale La colonna infame, rappresentata per la prima volta il 23 ottobre 1962 al Teatro Sant'Erasmo di Milano dalla compagnia del "Teatro delle Novità" diretta da Maner Lualdi, con la regia di Edmo Fenoglio e con gli attori Piero Nuti, Giustino Durano e Paolo Poli. Nel 1972 il regista Nelo Risi diresse il film La colonna infame, trasposizione del saggio di Alessandro Manzoni. Oggi all'angolo tra via Gian Giacomo Mora e corso di Porta Ticinese è presente una palazzina; nel 2005 in una rientranza vennero poste una scultura in bronzo e una targa a ricordo degli eventi. Carlo Torre, Il Ritratto di Milano, diviso in tre libri, Milano, 1674. Ludovico Muratori, Del governo della peste e come guardarsene, Torino, 1721. Serviliano Latuada, Descrizione di Milano, vol. 3, Milano, 1738. Domenico Balestrieri, La Gerusalemme liberata, travestita in lingua milanese, vol. 2, Milano, 1772. Cusani, Francesco, La colonna infame, in La peste di Milano del 1630, Milano, 1841, pp. 147-152. Aldrui D'Orsa Storia della colonna infame Peste del 1630 Wikisource contiene una pagina dedicata a Colonna infame Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Colonna infame

Basilica di San Lorenzo (Milano)
Basilica di San Lorenzo (Milano)

La basilica di San Lorenzo, il cui nome completo è basilica collegiata prepositurale di San Lorenzo Maggiore (nota in epoca paleocristiana come basilica palatina ed oggi anche come San Lorenzo alle Colonne), è una basilica cattolica di Milano. Tra le più antiche chiese della città, l'edificio fu ricostruito e modificato più volte nelle forme esterne conservando quasi completamente la primitiva pianta di epoca tardo-imperiale, che fu realizzata tra il 390 e il 410: assieme alle antistanti colonne di San Lorenzo, un tempo parte dell'antiportico dell'edificio, è considerata tra i maggiori complessi monumentali di epoca romana tardoimperiale di Milano, nel periodo in cui la città romana di Mediolanum (la moderna Milano) era capitale dell'Impero romano d'Occidente (ruolo che ricoprì dal 286 al 402). La basilica è inoltre ritenuta essere il primo edificio a simmetria centrale dell'Occidente Cristiano ed è una delle basiliche paleocristiane di Milano. Il primigenio nome basilica palatina, poi cambiato in "San Lorenzo", deriva dalla vicinanza del Palazzo imperiale romano di Milano, chiamato genericamente palatium. Il periodo tra l'XI e il XII secolo risultò molto travagliato per l'edificio: pesantemente rovinato da due incendi nel 1071 e nel 1075, la sua cupola crollò nel 1103, per poi essere di nuovo distrutta assieme a parte dell'edificio in un altro incendio nel 1124. La chiesa fu quindi ricostruita in forme romaniche pur conservando inalterato l'impianto interno originale. Se per tutto il Medioevo la basilica di San Lorenzo rimase un simbolo dell'eredità imperiale romana a Milano, nel Rinascimento il tempio divenne un simbolo dei canoni classici perduti ricercati dagli umanisti, nonché un celebre caso di studio per le soluzioni statiche adottate per reggere una cupola così monumentale, e fu studiata tra gli altri dal Bramante, Filarete, Leonardo e Giuliano da Sangallo. La pianta, la cui struttura è rimasta pressoché immutata dalla sua fondazione, è formata da un quadrato ed un cerchio sovrapposti, propriamente chiamato tetraconco, ovvero una pianta centrale di forma quadrata con quattro absidi, uno per lato. L'aula è quindi organizzata con una struttura concentrica alla pianta esterna a formare un deambulatorio attorno ad essa, quindi di forma ottagonale con pilatri triangolari traforati ed esedre porticate su due ordini orizzontali sovrapposti, in corrispondenza degli absidi: l'inferiore con pilastri di ordine dorico ed il superiore di ordine ionico che funge da matroneo. Dell'antica basilica paleocristiana sono giunte sino a noi la cappella di Sant'Aquilino e la cappella di Sant'Ippolito.