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Stazione di Torino Zappata

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La stazione di Torino Zappata è una stazione ferroviaria sotterranea in costruzione del passante ferroviario cittadino, realizzata al rustico sotto l'area della Clessidra, la zona racchiusa dal quadrivio Zappata, punto in cui si incontrano il passante, la linea del Frejus e lo scalo merci San Paolo, la linea diretta a Torino Lingotto. Il nome Zappata deriva dalla denominazione di una cascina presente immediatamente a sud della zona, scomparsa nei primi decenni del '900. Verrà adibita al servizio viaggiatori all'attivazione delle linee metropolitane e sarà sede di interscambio con la linea 2 della metropolitana di Torino. Il PNRR ha stanziato fondi per la conclusione della stazione pianificando la sua apertura entro il 2025, pena l’esclusione dal finanziamento e il conseguente rimborso. Inoltre il progetto prevederebbe un successivo completamento delle altre stazioni in progetto nell’area metropolitana Torino Dora (sotterranea), San Paolo, Quaglia - Le Gru, Orbassano. La stazione sarà servita dalla linea tram urbano 10 dalle linee dei bus urbani presenti nelle vicinanze: 5, 5/, 11, 12, 14, 63, 64, e 66. Inoltre transiteranno alcuni autoservizi interurbani per la città metropolitana. In futuro sarà anche possibile un interscambio diretto con la seconda linea della metropolitana torinese.

Estratto dall'articolo di Wikipedia Stazione di Torino Zappata (Licenza: CC BY-SA 3.0, Autori, Immagini).

Stazione di Torino Zappata
Corso Enrico De Nicola, Torino Crocetta

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Corso Enrico De Nicola
10129 Torino, Crocetta
Piemonte, Italia
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Luoghi vicini

Opera per Torino
Opera per Torino

Opera per Torino è un'opera dell'artista danese Per Kirkeby realizzata tra il 2004 e il 2005 nell'ambito del progetto Artecittà: 11 artisti per il Passante Ferroviario e collocata a Torino, nel Largo Orbassano (quartiere Borgo San Paolo). Si tratta di un porticato a doppia altezza realizzato principalmente in mattoni. La realizzazione dell'opera si colloca nel quadro del vasto progetto di trasformazione urbana denominato Spina Centrale che, sfruttando il progetto parallelo della copertura dei binari del passante ferroviario di Torino, sta portando alla riqualificazione delle aree circostanti e alla creazione di un grande boulevard che attraversa la città in senso nord-sud. Nel 1995 con la committenza del Comune di Torino e sotto la direzione di Rudi Fuchs venne avviato il progetto Artecittà. 11 artisti per il Passante Ferroviario, che coinvolse affermati artisti italiani e stranieri chiedendo loro la presentazione di bozzetti di opere d'arte da collocare in alcuni luoghi significativi del passante. Le prime due opere realizzate furono una Fontana ad Igloo di Mario Merz e l’Albero Giardino di Giuseppe Penone. L'Opera per Torino "si colloca a breve distanza da queste, in un'aiuola al centro di largo Orbassano, la cui risistemazione superficiale dopo i lavori di scavo del passante fu avviata a fine 2001. Si trova all'interno di un importante nodo del traffico veicolare urbano ed è stata concepita dall'artista" in funzione del luogo ed in funzione del fatto che ci dovevano transitare le persone. L'opera è stata inaugurata il 22 febbraio 2005. Come previsto dal direttore artistico del progetto Artecittà Rudi Fuchs, il quale dichiarò poco dopo l'inaugurazione che "Ci vuole del tempo per comprendere a fondo quest'opera perché il giudizio cambia col passare del tempo, non bisogna essere impazienti", "Opera per Torino" sin dall'inizio non è stata apprezzata dai cittadini e continua tuttora ad essere criticata in modo anche aspro da alcuni settori dell'opionione pubblica, critiche in parte recepite da forze politiche presenti nel consiglio comunale. Reazioni di tutt'altro segno sono invece venute dalla critica, come ad esempio il giudizio lusinghiero di Vittorio Sgarbi che nel 2005 dichiarò: "Ho sentito giudizi terribili su quest'opera, in realtà mi pare una specie di ricamo tutt'altro che dannoso in quel contesto, anzi decorativo". Spina Centrale Luoghi d'interesse a Torino Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Opera per Torino

Velodromo Umberto I
Velodromo Umberto I

Il velodromo Umberto I fu uno dei primi velodromi costruiti in Italia. Si trovava a Torino, nel quartiere Crocetta, e fu intitolato all'allora re d'Italia Umberto I. La struttura era collocata lungo il corso omonimo fra le vie Vespucci e Torricelli. Il velodromo fu costruito nel 1895 dall'Unione velocipedistica italiana in una zona all'epoca ancora fuori dal perimetro edificato di Torino, per ospitare le gare organizzate dal vivace tessuto di società ciclistiche cittadine, tra cui la Veloce Club e la Biciclettisti Club. Nel 1898 il terreno all'interno della pista venne trasformato in stadio ed adattato per ospitare il primo Campionato italiano di calcio; la partita inaugurale della storia del torneo si svolse l'8 maggio e vide di fronte il Torinese e l'Internazionale Torino, con l'affermazione dei secondi per 1-0, anche se alla fine fu il Genoa a vincere il torneo. Nello stesso anno, il 24 e il 26 giugno, il velodromo fu il palcoscenico delle gare organizzate dal Touring Club Ciclistico Italiano in occasione del suo convegno nazionale annuale; con il nuovo secolo l'impianto assunse maggiore importanza e diversificò i suoi usi. La sponsorizzazione della casa francese Peugeot lo portò ad ospitare le prime apparizioni di gare motociclistiche, tant'è che l'impianto cominciò ad essere noto anche come "motovelodromo". Si intensificò anche il suo uso per il gioco del calcio; sede degli incontri casalinghi del Torinese tra il 1900 e il 1903, fungeva in generale come campo di prestigio di tutto il movimento calcistico cittadino, mentre la Piazza d'Armi veniva utilizzata per gli incontri di minore importanza. Nel 1904 fu affittato permanentemente da Alfred Dick, presidente della Juventus, che vi fece costruire una tribuna atta a far sedere gli spettatori, che fino a quel momento erano rimasti in piedi. Sennonché, nel 1906, Dick fu clamorosamente defenestrato dal consiglio direttivo bianconero e il dirigente svizzero, di tutta risposta, fondò il Torino, di cui divenne il primo presidente; essendo il contratto di affitto intestato a suo nome e non a quello della Juventus, il sodalizio bianconero si ritrovò improvvisamente senza un campo dove gareggiare, mentre il velodromo divenne la sede del Torino fino al 1910. La struttura venne definitivamente smantellata a partire dal 1917 ed al suo posto sorgono ora edifici e negozi vari. Primo incontro ufficiale (Campionato Italiano di Football 1898) Prima partita Juventus (Campionato Italiano di Football 1903) Ultima partita (casalinga) Juventus (Prima Categoria 1906) Prima partita Torino (Prima Categoria 1907) Ultima partita Torino (Ultimo incontro ufficiale) (Prima Categoria 1909-1910) Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Velodromo Umberto I Velodromo Umberto I, su museotorino.it, Città di Torino. 1897-2017, 120 anni di Juventus e dei suoi stadi, su archistadia.it, 1º novembre 2017.

Piazza d'armi (Torino)
Piazza d'armi (Torino)

Piazza d'Armi a Torino è stata una delle piazze destinate, nella storia della città sabauda, ai raduni delle truppe e alle loro parate. Nel corso della sua storia, la capitale sabauda ha sempre avuto l'esigenza di disporre di grandi spazi per radunare l'esercito, necessità immancabile per tutte le città durante i secoli passati. Essa ha cambiato più volte la sua ubicazione nel corso dei secoli per l'espansione urbanistica. La città medievale e quella di antico regime non fu mai dotata di uno spazio monofunzionale destinato alle esercitazioni e alle manovre militari. Sebbene aree di questo tipo fossero diffusamente utilizzate (si pensi alle cittadelle quattrocentesche o ai «campi di marte» diffusi sin dal primo Cinquecento), Torino, sino all'epoca napoleonica, non risulta però esserne dotata. Nei secoli XVII e XVIII, invece, si preferì "militarizzare" la città stessa, assegnando funzioni logistiche per l'esercito alle piazze che andavano prendendo forma entro le aree di ampliamento urbano, le quali assunsero così, assai spesso, un connotato polifunzionale. Appartennero a questa categoria di spazi pubblici non solo l'area di rispetto che precedeva la cittadella – formalizzatosi, anche attraverso demolizioni, all'atto stesso della sua costruzione a partire dal 1564 –, ma anche la piazza del castello, la piazza reale (oggi San Carlo) sull'asse della contrada nuova (1646) e la piazza Susina (oggi Savoia) alle spalle dei Quartieri Militari juvarriani (1729). E, nel contesto della progettazione della città sei-settecentesca, assumeva dunque un'importanza prioritaria anche garantire il collegamento organico tra questi spazi e i sistemi deputati alla difesa, cittadella e capisaldi del fronte bastionato in primis. Di nuova piazza d'armi si può parlare a partire dal 1817, quando a svolgere questa funzione fu adibita la zona a sud-ovest della città, nell'area oggi compresa tra le attuali direttrici di corso Giacomo Matteotti, via Alessandro Volta e la sua continuazione, via Giovanni Camerana, via Assietta e corso Galileo Ferraris (un'altra piazza d'armi, ora di San Secondo). Nel 1850, sotto la spinta dell'aumento demografico, la piazza d'armi di San Secondo venne dismessa e il terreno lottizzato ed edificato. Per qualche anno fu adibita a tale funzione la zona compresa tra gli attuali corsi Matteotti, re Umberto, Stati Uniti e Vinzaglio, finché nel 1872 la nuova piazza d'armi divenne la zona compresa tra gli attuali corsi Galileo Ferraris, Peschiera (ora Luigi Einaudi), Castelfidardo e Montevecchio. Questa collocazione esistette fino agli inizi del 1900. A seguito dell'urbanizzazione che portò al completamento del quartiere Crocetta, dello storico Stadium e dell'attuale isola pedonale in corso Duca degli Abruzzi (all'epoca corso Vinzaglio), la piazza d'armi venne nuovamente spostata nel 1910 in un’allora zona periferica dove, a partire dagli anni 1930, sorgerà il quartiere di Santa Rita, che conoscerà un maggiore sviluppo urbanistico a partire dagli anni 1950, fino ad espandersi totalmente negli anni 1960-1970. Intorno alla nuova piazza d'Armi verranno edificate le caserme La Marmora (per un Reggimento di Bersaglieri, ridenominata Monte Grappa pochi anni dopo), Dabormida (per un Reggimento di Fanteria), Morelli di Popolo (per un reggimento di Cavalleria) e Riberi (Ospedale Militare) Qui, davanti all'ampia spianata, sorse il nuovo Stadio Municipale Benito Mussolini (1933-1945), poi Stadio Comunale (1945-1986) e Stadio Comunale Vittorio Pozzo (1986-2005), in seguito Stadio Olimpico (2005-2016) e oggi Stadio Olimpico Grande Torino. La piazza ha geometria quasi rettangolare (in realtà leggermente trapezoidale) con i lati minori allineati con la direzione del "decumano massimo", cioè est-ovest, e quelli maggiori allineati con il "cardine massimo", cioè direzione nord-sud. Il lati minori sono fiancheggiati a nord da corso Monte Lungo e a sud da corso Sebastopoli (oggi piazzale Grande Torino), mentre a quelli maggiori, a ovest, da corso IV Novembre, e a est da corso Galileo Ferraris. In Piazza d'Armi, nei primi anni del Novecento, la Juventus (dal 1897 al 1899 in gare non ufficiali; poi, dal 1900 al 1902, nel 1904 e nel 1907, in gare ufficiali) e il Torino (dal 1910 al 1913) disputarono le loro partite casalinghe. Prima partita Juventus (Campionato Italiano di Football 1900) Ultima partita (casalinga) Juventus (Prima Categoria 1907) Prima partita (casalinga) Torino (Prima Categoria 1909-1910) Ultima partita Torino (Ultimo incontro ufficiale) (Prima Categoria 1912-1913) Attualmente, Piazza d'Armi è diventato solo un toponimo a retaggio della propria storia e nome popolare, in quanto la zona in cui sorgeva è stata adibita a parco (ad eccezione di una porzione all'interno del parco stesso, denominata "Campo Porcelli", di proprietà del demanio e gestita dalla scuola d'applicazione dell'Esercito, comprendente un campo di atletica, un galoppatoio e servizi annessi); in essa operò dal 1958 al 1971 anche l'eliporto "Aldo Cavallo", per cui l'area divenne nota come parco dell'Eliporto fino alla fine degli anni settanta, quando assunse il corrente nome di "parco Cavalieri di Vittorio Veneto". Da molti anni il suo quadrilatero (2 152 metri il perimetro della cancellata) è il luogo di allenamento di numerosi atleti mezzofondisti e podisti, anche se principalmente amatoriali. Dal 2005 quest'area è stata profondamente trasformata in occasione dei XX Giochi olimpici invernali del 10-26 febbraio 2006, vedendo la sua completa ristrutturazione, la riorganizzazione del parco e rendendo pedonale un tratto di corso Sebastopoli che è il viale d'accesso all'attuale Stadio Olimpico Grande Torino, il quale è stato sede delle cerimonie di apertura e di chiusura dei XX Giochi olimpici invernali e della cerimonia di apertura dei IX Giochi paralimpici invernali tenutasi il 10 marzo 2006, nonché al Palasport Olimpico. La sua forma rettangolare (con esclusione dell'area dello stadio) ha il lato minore lungo 400 metri e il lato maggiore lungo 755 metri. Inaugurata l'11 gennaio 2006, la piazzetta pedonale, che è stata creata al fine di unire le strutture olimpiche al parco Cavalieri di Vittorio Veneto (ex Piazza d'Armi), rappresenta una sorta di "giardino olimpico", dove è collocata una fontana a specchi, somigliante ad un canale d'acqua di 150 m che esalta la monumentalità dell'adiacente Torre Maratona : non a caso la piazzetta è sita proprio all'esterno della torre. Palasport Olimpico Piazzale Grande Torino Santa Rita (Torino) Stadio Olimpico Grande Torino Luoghi d'interesse a Torino Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Piazza d'armi Parco Cavalieri di Vittorio Veneto (Piazza d'Armi), su comune.torino.it. URL consultato il 3 ottobre 2020 (archiviato dall'url originale il 2 gennaio 2013).

Chiesa della Beata Vergine delle Grazie (Torino)
Chiesa della Beata Vergine delle Grazie (Torino)

La Chiesa della Beata Vergine delle Grazie (anche chiamata Nostra Signora delle Grazie) comunemente nota come chiesa della Crocetta (La Crosëtta in piemontese) è un edificio di culto Cattolico che sorge nell'omonimo quartiere di Torino. Il nome popolare deriva dalla croce rossa e azzurra che fregiava l'abito dei padri trinitari, per lungo tempo titolari dell'edificio e del culto. Le origini della chiesa risalgono ad una cappella costruita nel 1558, che fu poi sostituita da una chiesa barocca nel 1618 (ancora oggi esistente in largo Cassini) che era parte del convento dei frati Trinitari. Una lunga disputa si protrasse tra i frati Trinitari (che possedevano la chiesa) e i padri Filippini (in carica della giurisdizione parrocchiale). La disputa si risolve nel 1799 quando la chiesa divenne parrocchia indipendente. Nel 1887 il parroco Alessandro Roccati avviò la costruzione della chiesa odierna, che si completò nel 1889. La chiesa, progettata da Giuseppe Ferrari d'Orsara, è in stile neomedievale, con elementi neoromanici, neobizantini, e neogotici. All'interno è decorata in ricchi marmi ed affreschi di Giovanni Stura, e ospita un'opera attribuita a Tintoretto. Il campanile neoromanico fu danneggiato nei bombardamenti del 1943 e ricostruito in stile. Nel 1558 una pia donna, Maddalena Groppello da Soncino, costruì a sue spese una cappelletta per grazia ricevuta e nel 1592 la volle affidare alla giurisdizione della parrocchia Santa Maria di Piazza, allora sede metropolitana dei frati Carmelitani, successivamente affidata ai padri Filippini (appartenenti alla Confederazione dell'oratorio di San Filippo Neri, anche detti Oratoriani). Un'altra cappelletta, dedicata a San Grato, sorgeva nelle vicinanze (probabilmente si tratta della medesima cappella). Nel 1618, su richiesta della moglie Caterina d'Asburgo, il duca Carlo Emanuele I assegnò ai frati Trinitari un terreno nell'allora regione Tauley, affinché edificassero una chiesa con convento e orto. La costruzione della nuova chiesetta (che ingloba la precedente ceppella) iniziò lo stesso anno sotto il patronato del cardinale Maurizio di Savoia che ne posa la prima pietra. Il sito scelto are sulle rovine di un antico castello, all'angolo dell'odierna via Marco Polo con il vicolo Crocetta, e rimane tutto'ora come la chiesa del Convalescenziario. I frati Trinitari, in carica della chiesa, convento, ed orto, svolgono servizio assistenziale per i viandanti e di educazione per i contadini del circondario e beneficiano di una considerevole sovvenzione annuale dalla corte ducale. Il convento dei trinitari ordinariamente ospita sei sacerdoti e quattro laici. A questo punto la chiesa è retta dai Trinitari (che beneficiano di concessioni da parte della corte), ma è situata sotto la giurisdizione della parrocchia di Sant'Eusebio dei padri Filippini (oggi chiesa di San Filippo Neri), sui quali ricadono i doveri parrocchiali. Inizia cosí la disupta tra i due ordini. Gli abitanti della Crocetta, dopo l'erezione a parrocchia della chiesa del Lingotto nel 1686, vollero una loro propria parrocchia indipendente; questo fatto si inerisce nella liti tra i due i Filippini (titolari della parrocchia) ed i Trinitari (possessori di chiesa e convento). Nel 1726, in vista di erigere la chiesa a parrocchia indipendente, fu abbattuto un portico rustico ed ampliato l'interno. L'erezione a parrocchia era fortemente voluta dagli abitanti della zona, che fino al allora dovevano recarsi fino a Sant'Eusebio, ed era favorita anche da Vittorio Amedeo II. Nel 1727 Filippini dunque, decisi ad erigere la chiesa in parrocchia, si rivolsero prima ai padri Serviti della Chiesa di San Salvario, affinché si incaricassero di essa, ma i Serviti rifiutarono. Il padre Filippino Gioan Francesco Perotti si rivolse allora ai trinitari, affidando loro temporaneamente le funzioni parrocchiali, ma che si limitavano allora all'assistenza ai malati in fin di vita. I Trinitari si dichiararono favorevoli a svolgere pienamente l'amministrazione parrocchiale, ma a 4 condizioni: 1) che fosse versata a loro, in quanto in carica della nuova parrocchia, una congrua (cioè una somma monetaria per il sostentamento di un bene ecclesiastico) 2) che la nomina di parroco fosse fatta dai Trinitari 3) che l'istituzione della parrocchia venisse dall'arcivescovo e non dai Filippini di Sant'Eusebio 4) che venisse eretta una canonica. I Filippini si ritennero assolutamente contrari a queste condizioni, sia perché volevano mantenere la parrocchia dipendente dalla loro, sia perché non volevano pagare la congrua. Dunque, anche questa volta la chiesa non venne eretta in parrocchia. Per risolvere ai problemi dell'assenza della parrocchia, l'arcivescovo Pietro Arborio Gattinara si mise d'accordo coi Filippini per far si che ai Trinitari venissero delegate alcuna facoltà parrocchiali dettate dalle circostanze del luogo, mentre si continuava a cercare una soluzione. Tra il 1727 ed il 1728 i Trinitari, poiché non avevano un cimitero, seppellirono i loro morti nella chiesa stessa. Questo fatto convinse l'arcivescovo Gattinara a finalmente erigere la chiesa in parrocchia, e le assegnò un territorio di quattro miglia di circonferenza e lungo un miglio e mezzo al suo limite massimo. I Trinitari erano finalmente in carica della parrocchia, ma non avevano ricevuto la congrua che desideravano; per non perdervi diritto allora vollero che la parrocchia fosse ancora dipendente da quella di Sant'Eusebio dei Filippini, fatto rispecchiato dal nome di parochia Sancti Eusebii extra muros. Nel luglio 1729 la città di Torino assegnò alla nuova parrocchia un territorio lungo la strada principale, che servisse da cimitero. Per quindici anni i Trinitari amministrarono la parrocchia con come unica rendita i diritti di stola (ovvero le prestazioni dovute dai fedeli ai parroci per i servizi funerari). Nel 1744 chiesero nuovamente ai Filippini un contributo economico come congrua, ma gli fu negato. Il 4 giugno 1755 il perdurare dei contrasti convinse l'arcivescovo Roero ad obbligare per decreto il curato trinitario della Crocetta a diventare vicario di Sant'Eusebio, la parrocchia dei Filippini. Pertanto il padre trinitario Ignazio Isler si vide costretto a compiere la remissione dei libri parrocchiali. Questo comportò ai Trinitari la perdita di potere di parrocchiale acquisto, il dimezzamento dei diritti di proprietà sulla loro stessa chiesa, ed in generale un'investitura precaria. I Trinitari sperarono almeno di poter ricevere finalmente un qualche sostegno economico dai Filippini in riconoscimento del loro nuovo ministero e per i loro doveri parrocchiali, ma questo gli fu negato ancora una volta. Dinnanzi a questo nuovo rifiuto, i Trinitari mandarono padre Isler dall'arcivescovo il 20 novembre 1756 a fare rinuncia formale alla parrocchia. Così, la chiesa Crocetta perse lo status di parrocchia e gli abitanti della zona si trovarono nuovamente a dover dipendere dalla lontana Sant'Eusebio per i loro bisogni parrocchiali. La perdita dello status di parrocchia della chiesa della Crocetta andò a pesare anche sui Filippini stessi, che si trovavano ora a dover viaggiare più di due miglia per assistere ai bisogni dei loro parrocchiani della Crocetta, in particolare gli ammalati. Dunque nel 1757 decisero, piuttosto di accettare di pagare la congrua ai Trinitari, di smembrare il territorio parrocchiale della Crocetta e affidarne una porzione al curato di San Marco, un'altra al priore del Lingotto, e un'altra al vicario di Pozzo Strada. Questo progetto fu però prevenuto dagli abitanti stessi della Crocetta, che andarono dall’arcivescovo per supplicarlo di non smembrare il loro territorio. Non soltanto l'arcivescovo dunque proibì tale progetto, ma inoltre obbligò i Filippini a stanziare un sacerdote residente nella Crocetta per provvedere ai bisogni parrocchiali. Il sacerdote stanziato dai Filippini, non avendo casa né canonica nella Crocetta affittava una camera vicino al convento. Le messe, funerali, e le varie funzioni parrocchiali venivano invece celebrate nella piccola cappella del cimitero e non nella chiesa vera e propria, poiché quella era parte del convento ed in mani ai Trinitari. Gli abitanti, per assistere alle funzioni religiose, rimanevano a cielo aperto e tra le tombe nel cimitero (tra l'altro senza cinta ne mura). La situazione rasentava il ridicolo, con una chiesa ampia e comoda nel convento ed una parrocchia relegata nella misera cappella del cimitero. Nel 1766 gli abitanti si rivolsero nuovamente al sovrano, ora Carlo Emanuele III, per una soluzione che li lasciasse usufruire della chiesa del convento per le funzioni parrocchiali. Il re delegò nel luglio 1766 l'intendente Tomatis per risolvere la disputa. Il compromesso (raggiunto ad Agosto dello stesso anno) fu che i Trinitari, loro malgrado, dovettero cedere una delle tre cappelle della chiesa (quella dedicata a Giovanni de Matha e Felice di Valois) affinché servisse per le funzioni della parrocchia. In compenso ricevettero 100 lire all'anno e l'assicurazione che le funzioni parrocchiali non avrebbero disturbato le loro proprie funzioni religiose. Inoltre, per 50 lire annue, i Trinitari cederono in affitto due camere per l'alloggio del vicario parrocchiale. I Filippini, che godevano delle rendite della parrocchia, dovettero inoltre prendersi cura delle spese del suddetto altare della cappella (anche se riuscirono ad addossarle ai confratelli del Corpus Domini, senza che quest'ultimi se ne accorgessero) e delle 150 lire annuali di stipendio del vicario. La pace raggiunta tra i Trinitari ed il vicario Filippino non durò molto, e già nel 1788 il nuovo arcivescovo e cardinale Vittorio Maria Baldassare Gaetano Costa d'Arignano nuovamente parlò con i Filippini con lo scopo di rendere la parrocchia indipendente, ma i Filippini di nuovo rifiutarono ogni proposta che includesse il pagamento della congrua, e dunque anche Costa rinunciò a trovare una soluzione. Continuarono così piccole picche e ripicche fino al 18 luglio 1797, quando a causa della guerra contro la Francia, lo stato Sabaudo ottiene il breve papale soppressione dei conventi con meno di otto religiosi e l'incameramento dei loro beni a favore dell'erario. Nonostante il convento Trinitario della Crocetta avesse dieci membri, viene comunque incluso nel breve papale successivo del 9 febbraio 1798. La chiesa ed i suoi beni vengono dunque lasciati dal Papa all'arcivescovo di Torino, e i Trinitari dovettero abbandonarla. La curia arcivescovile offrì l'incarico parrocchiale ai Filippini. L'offerta decretava che i beni della chiesa venissero ceduti alla parrocchia della Crocetta, che i Filippini avrebbero amministrato. I Filippini invece desideravano che i beni fossero dati direttamente alla loro Congregazione. Date le circostanze economiche però (in cui si sopprimevano gli ordini religiosi per i bisogni bellici), era impensabile che il governo desse in regalo questi beni (di un valore di oltre 50 mila lire) ad un ordine religioso. Poiché i Filippini non accettavano, la situazione rimase incompiuta fino al 10 marzo, quando le Finanze del Regno vennero in possesso del convento e di tutti i terreni e beni al di fuori della chiesa, la sacrestia, e le due camere annesse. Il convento ed i terreno furono messi in vendita dallo stato il 13 marzo 1799 e comprati dalla società agraria di Torino per 55,585 lire. Furono successivamente venduti all'Arciconfraternita della Santissima Trinità che li adibì convalescenziario, funzione alla cui sono adibiti tuttora. La chiesa, la sacrestia, e le due camere annesse, che non erano state prese dalle Finanze dello stato, vennero date in possesso al vicario parrocchiale l'8 giugno. Gli abitatni del quartiere allora tornarono al proposito di rendere la chiesa parrocchia indipendente. Intanto i Filippini si erano accorti di tale proposito e intendevano nuovamente evitarlo. Alienarono tutto ciò che possedevano nel vicinato della Crocetta, temendo che fosse usato per stabilire la congrua parrocchiale. Essendosi impossessati dei vasi d'argento e delle suppellettili della chiesa, e temendo che ciò fosse usato come pretesto per farli pagare la congrua, non consegnarono alcun inventario al vicario. Inoltre, si adoperarono per rimuovere ogni vestigia rimasta dai Trinitari: cambiarono la Madonna del Buon Rimedio (patrona dei Trinitari) in quella della Madonna del Rosario, in onore della quale eressero una compagnia il 25 settembre 1798, coprirono le immagini di San Giuseppe e San Grato con quelle dei quindici misteri del Rosario, e rititolarono la chiesa come chiesa comparrocchiale di San Eusebio. Continuarono però a non contribuire alle finanze della parrocchia, i cui doveri ed oneri rimanevano a carico del vicario. Gli abitanti del quartiere erano abituati con i Trinitari ad almeno otto messe nei giorni festivi, mentre ora ne veniva celebrata solo una. Inoltre, agli abitanti spettavano più di settecento messe che i Trinitari si erano impegnati a celebrare per via di legati (cioè disposizioni testamentarie e caritatevoli) e il cui compito ora spettava ai Filippini, che però non adempivano. I parrocchiani della Crocetta, stanchi di essere trascurati dai Filippini, si appellarono alle autorità civili ed ecclesiastiche richiedendo, ora che erano in possesso di una chiesa propria, l'erezione di una parrocchia indipendente. Inoltre, i parrocchiani si resero disponibili a provvedere alla sussistenza del parroco, poiché i Filippini si rifiutavano. Questa richiesta fu calorosamente accolta da Joseph-Mathurin Musset, commissario della repubblica francese in Piemonte. Il 27 aprile 1799 la Congregazione dei Filippini dovettero rinunciare ad ogni giurisdizione sopra il territorio della Crocetta ed alla nomina del vicario parrocchiale. I Filippini si mostrarono d'accordo, con le condizioni di poter conservare la congrua radicale ed originale della chiesa ed un terreno attiguo, ed inoltre pretenderono che il futuro parroco rinunziasse ad ogni pretesa di soldi per la chiesa o sostentamento proprio dai Filippini e che non potesse più richiedere nulla dalla loro congregazione. I parrocchiani, volendo finalmente porre fine alla vicenda, accettarono. Dunque, il 1 maggio 1799, l'arcivescovo di Torino Buronzo del Signore eresse la parrocchia della Crocetta in vicaria amovibile, e la rese completamente indipendente dalla parrocchia di Sant'Eusebio. Il primo parroco fu il presbitero Giuseppe Anontio Massa come "rettore assoluto ed indipendente della parrocchia di S. Eusebio extra muros". Come voluto dai Filippini, rinunziò ad richiedere nulla da loro. Nel 1828 i beni un tempo posseduti dai Trinitari vennero riassegnati alla parrocchia. La chiesa di San Salvario era succursale della Crocetta. Nel 1849 il vecchio cimitero, che era rasente alla strada, venne raso e uno nuovo, fuori dall'abitato, venne costruito a 300 piedi di distanza. Nel cimitero era seppellito Gerolamo Ramorino. Nel 1887 Don Alessandro Roccati, appena nominato parroco, acquistò dalle famiglie Rignon e Bogetti il terreno per la nuova chiesa. a questi aggiunse 2.000 metri quadrati che si era fatto donare dal Comune. La costruzione comincia il 21 settembre 1887, su progettato (a titolo gratuito) dall'architetto Giuseppe Ferrari d'Orsara. La prima pietra fu posata il 14 marzo 1888, genetliaco di Re Umberto, in presenza del principe Ferdinando di Savoia e le rappresentanze del Municipio e del Gran Magistero dell'Ordine Mauriziano. La prima pietra fu benedetta da Mons. Giovanni Battista Bertagna, rappresentante del cardinale Gaetano Alimonda. Il 9 settembre 1889 la chiesa, ancora incompiuta, veniva aperta al culto nella festa di San Grato, antico patrono della regione; il costo complessivo fu 400 mila lire. Nel 1906 il conte Felice Rignon, proprietario della monumentale villa Verrua, donava alla parrocchia ulteriori 360 mq. di terreno che servirono nel 1911 per la costruzione della casa parrocchiale. Il campanile fu distrutto dal bombardamento dell’8 agosto 1943 e fu poi ricostruito nello stesso stile neoromanico. Nel 1966, su iniziativa del monsignor Schierano, fu rinnovata la pavimentazione marmorea. La chiesa originaria aveva anteriormente un rustico portico, abbattuto nel 1726 per un ampliamento dell'interno, che era in stile barocco. La chiesa è oblunga e con tre altari: sull'altare Maggiore troneggiava un'icona con "Cristo deposto dalla Croce e Maria addolorata", opera tintorettiana, probabilmente di Palma il Vecchio; gli altri erano dedicati alla Madonna San Giuseppe e San Grato, e ai santi fondatori dell'Ordine, Giovanni de Matha e Felice di Valois. Il duca Carlo Emanuele ed il cardinale Maurizio tenevano molto al culto della Madonna del Buon Rimedio, tanto da donare un quadro che raffigurava la famiglia reale sotto la protezione del manto della Vergine. Vi erano anche due quadri di Felice Cervetti, raffiguranti la lavanda dei piedi e l'istituzione dell'Eucarestia. La vecchia chiesa tuttora fa parte del convalescenziario. La chiesa attuale unisce stili diversi, ed è esempio di gusto neo-medievale: tardo bizantino nell'impianto a croce greca, romanico nel campanile, ravennate nei pulvini, decorazioni neogotiche, stile paleocristiano nel catino absidale; l'atrio ricorda l'antico nartece. Rimangono della chiesa precedente la grande tela di scuola tintorettiana (possibilmente di Tintoretto o di Palma il Vecchio), l'altare del 1600 in legno scolpito e la statua della Vergine risalente al XV secolo. VI è anche un dipinto di Claudio Francesco Beaumont raffigurante Gesù nell'orto. Tra gli arredi recenti, vengono segnalati i due registi pittorici del torinese Giovanni Stura, molto attivo a Torino agli inizi del Novecento. Nella calotta absidale dipinse la Vergine in atto di intercedere grazia dal suo Divin Figlio. Sul fronte dell'arco trionfale è dipinto L'Angelo che proclama Maria piena di grazia con al centro lo Spirito Santo. Sulla fronte dell'arco trionfale, in mezzo a volute d'oro, vi è rappresentata la Mistica Fonte alla quale si dissetano due pavoni ed attorno aleggiano colombe bianche. Attraverso l'intera chiesa si sviluppa fascia laterale affrescata, al livello sopra le colonne della navata. Nella fascia, nella calotta abside, sono rappresentati i Sette Emblemi Eucaristici mentre sui lati che fiancheggiano il presbiterio sono presenti medaglioni con Profeti e Vergini. Nella navata e nelle cappella, la fascia è adornata da santi ed angeli in processione. Nei timpani tra le colonne e la fascia laterale sono presenti i Quattro Evangelisti. Le estremità dei due bracci del transetto, che al centro formano una croce, accolgono due spaziose cappelle dedicate al Sacro Cuore (a Est) e alla Vergine della Mercede (a Ovest). Le dodici colonne interne sono di marmo di Moncervetto con capitelli in pietra di Viggiù in stile bizantino. Il soffitto, in legno e sostenuto da archi volanti, è decorato con colori vivi, dorature, ed arabeschi. L'organo a canne è opera di Francesco Vegezzi Bossi di Centallo (CN). È stato realizzato nel 1920 e, dopo il restauro del 1979 di Francesco II Vegezzi Bossi e un intervento di modifica di Renzo Rosso nel 2002, è stato restaurato, modificato e ampliato dalla ditta Brondino Vegezzi Bossi nel 2019. Dispone di due consolle, una in cantoria, a 2 tastiere e trasmissione elettronica, e una in navata, a trasmissione elettronica, a 3 tastiere di 58 note (Do1-La5) e pedaliera parallelo-concava di 30 (Do1-Fa3). Le canne sono disposte sulla tribuna sopra l'ingresso (grand'organo, recitativo e pedale), e nel matroneo absidale sinistro (organo corale di Carlo II Vegezzi Bossi del 1961, donato alla parrocchia nel 2019 dalla chiesa evangelica battista dove era precedentemente collocato, restaurato e collegato all'organo maggiore in tribuna. Ora sono così entrambi suonabili dalla moderna consolle a 3 tastiere posta in navata). Giuseppe Isidoro Arneudo, Torino sacra illustrata nelle sue chiese, nei suoi monumenti religiosi, nelle sue reliquie / - Torino : G. Arneodo, 1898. - VIII, 407 p. : ill. ; 20 cm. G. F. Baruffi e Antonio, Passeggiate nei dintorni di Torino : ai colti e gentili Torinesi, memoria ed ossequio, Torino : Stamperia Reale, 1858 Carlo Maria Felice Arnaud, Notizie storiche della Crocetta compilate da Carlo Maria Felice Arnaud professore di rettorica e di filosofìa, notajo appostolico e socio dì varie accademie, Torino, Benfà e Ceresola, 1800 (data di pubblicaz. presunta). Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna compilato per cura del professore Goffredo Casalis, Torino, Presso G. Maspero librajo, Cassone Marzorati Vercellotti tipografi, 1833. Wikibooks contiene testi o manuali sulla disposizione fonica dell'organo a canne Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla chiesa della Beata Vergine delle Grazie

Campo Juventus
Campo Juventus

Il Campo Juventus, più comunemente noto come stadio di Corso Marsiglia oppure Società Spettacoli Sportivi di Corso Marsiglia per via sia della strada dove sorgeva e della società che l'amministrava, fu un impianto sportivo multifunzione di Torino, di proprietà del Foot-Ball Club Juventus. Sorgeva all'incrocio tra Corso Marsiglia (l'attuale via Tirreno) e via Tripoli e l'ingresso era ubicato in quello che oggi è noto come largo Tirreno, nel quartiere di Santa Rita. Primo impianto costruito in Italia nel primo dopoguerra, fu ritenuto negli anni 20 e 30 del XX secolo la più moderna struttura sportiva nazionale. Con una capienza massima di 25 000 spettatori, in tale sito la squadra bianconera disputò le proprie partite casalinghe dalla sua inaugurazione, avvenuta nel 1922, fino al 1933; in questo lasso di tempo ospitò anche alcune partite amichevoli della nazionale calcistica italiana, mentre la sezione tennistica juventina usufruì dell'impianto fino alla fine del decennio. In disuso ufficialmente dal 1939 e de facto dal 1940, fu distrutto dai vari bombardamenti su Torino durante la seconda guerra mondiale. Nel dopoguerra l'area è stata destinata a edilizia residenziale. Costruito durante la presidenza dell'avvocato Gino Olivetti nei pressi della prima sede amministrativa della casa automobilistica FIAT, fu il primo impianto sportivo italiano realizzato interamente in cemento armato nonché, tra gli anni 20 e 30, il primo nel Paese a dotarsi d'illuminazione artificiale per iniziativa della successiva gestione condotta dal vicepresidente della FIAT, Edoardo Agnelli. La progettazione dell'impianto fu realizzata dall'architetto Amedeo Lavini e del geometra Piero Monateri, allora dirigente bianconero, mentre i lavori di costruzione furono realizzati dall'azienda edilizia di quest'ultimo. Oltre che degli uffici dirigenziali del club e del campo principale di calcio — le cui dimensioni erano di 110 × 65 m. — l'impianto disponeva di un altro campo (94 × 55 m.) usato per gli allenamenti della squadra, situato dietro le tribune popolari; adiacenti a esso erano siti, tra altro, gli spogliatoi e tre campi da tennis, a uso dell'allora sezione tennistica juventina, in cui si svolgevano incontri a livello nazionale e internazionale — tra cui quello valevole per quarti di finale dell'International Lawn Tennis Challenge disputato nel 1928 tra le rappresentative d'Italia e India, il primo giocato nella capitale sabauda, vinto dai padroni di casa per 4 set a 1. L'ingegner Daniele Donghi descrisse così la struttura del Campo Juventus: La costruzione dell'impianto, iniziata nel 1921, fu finanziata dalla Società Spettacoli Sportivi (S.S.S.) — società composta dai soci del club torinese, costituita con un capitale di 530 000 lire in 1 600 azioni da 500 lire ciascuna — che spese oltre un milione del tempo per sostituire il vecchio stadio di Corso Sebastopoli. Costruito su un'area di 40000 m² per ospitare inizialmente circa 15 000 persone, in occasione degli incontri più attesi la capienza veniva incrementata di circa il doppio (tra 20 000 e 25 000 persone). Lo storico Luigi Firpo, sul finire degli anni 70, così ricordò l'atmosfera del Campo Juventus, da lui frequentato durante il periodo adolescenziale: Il club utilizzò l'impianto fino al 1933, anno in cui si trasferì nel nuovo stadio Municipale Benito Mussolini. In corso Marsiglia la squadra bianconera vinse quattro scudetti, nel 1925-1926 e poi tre consecutivi, nel periodo del Quinquennio d'oro, dal 1930-1931 al 1932-1933. Inoltre, il Campo Juventus ospitò, nel 1925, un incontro dell'Italia che ivi batté 7-0 la Francia. Dopo il trasferimento di quasi tutte le attività dell'azienda polisportiva Juventus – Organizzazione Sportiva S.A., l'impianto fu utilizzato per gli incontri interni delle squadre rugbistiche cittadine, il GUF Torino e il Torino. Anche con le tribune completamente demolite entro aprile 1939 (l'8 aprile fu la data dell'ultimo incontro con pubblico pagante presente su quanto rimaneva degli spalti, successivamente demoliti) il suo campo era ancora agibile e fu usato nella stagione rugbistica di Divisione Nazionale 1939-40 dalle due citate squadre e, ancora nel maggio 1940, fu sede di alcune gare di rugby dei Littoriali di quell'anno. L'area su cui sorgeva era compresa tra le attuali vie Tirreno (all'epoca corso Marsiglia), Tripoli, Monfalcone e Ricaldone (o forse Gradisca), un territorio riconvertito in seguito a edilizia residenziale pubblica. Dopo la demolizione dell'impianto, nel 1940 la tettoia che sovrastava la tribuna coperta venne venduta alla Società Metallurgica Italiana e utilizzata per uno dei suoi stabilimenti a Limestre. Presso il campo sportivo c'era anche la sede amministrativa dell'allora polisportiva Juventus e, più precisamente, della sezione tennistica e della Juventus O.S.A., fino al 1939. La struttura, come detto sopra, ospitò, per undici stagioni, le gare interne della Juventus. Il primo incontro ufficiale, disputato dai bianconeri all'interno dell'impianto, fu la terza giornata del campionato di Prima Divisione 1922-1923, che si concluse con una vittoria per 4-0 ai danni del Modena. L'ultima partita ufficiale della Juventus, all'interno dello stadio, fu una vittoria per 5-0 sul Palermo, in occasione dell'ultima giornata del campionato di Serie A 1932-1933. Il Campo Juventus è stato sede di due incontri amichevoli della nazionale di calcio dell'Italia: il primo, disputato il 22 marzo 1925 contro la Francia e terminato con il punteggio di 7-0 in favore degli Azzurri; il secondo, giocato il 21 marzo 1926 contro l'Irlanda e terminato in questo caso con il punteggio di 3-0 per i padroni di casa. Daniele Donghi (a cura di), Manuale dell'architetto, Torino, UTET, 1930. Mario Pennacchia, Gli Agnelli e la Juventus, Milano, Rizzoli, 1985, ISBN 88-17-85651-7. Maurizio Ternavasio, È facile vivere bene a Torino se sai cosa fare, Roma, Newton Compton, ISBN 88-54-19848-X. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Campo Juventus Società Spettacoli Sportivi di corso Marsiglia, Museo Torino (archiviato dall'url originale il 16 ottobre 2018). 1897-2017, 120 anni di Juventus e dei suoi stadi, su archistadia.it, 1º novembre 2017.

Fondazione Sandretto Re Rebaudengo
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

La Fondazione Sandretto Re Rebaudengo è un'istituzione senza scopo di lucro nata a Torino nel 1995 che sostiene l'arte contemporanea e in particolare la produzione dei giovani artisti. L'ente è noto a livello internazionale ed è considerato una rilevante sede espositiva torinese. La fondazione nasce il 6 aprile 1995 su iniziativa della sua presidente Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. Viene nominato direttore artistico Francesco Bonami, che diventerà direttore onorario nel 2014. La fondazione nasce con due sedi espositive: l'area urbana di Torino e Palazzo Re Rebaudengo a Guarene d'Alba. Il centro per l'Arte di Torino in Borgo San Paolo è stato inaugurato nel 2002, sul sito dell'industria dismessa FERGAT ed è un'opera dell'architetto Claudio Silvestrin. Il Palazzo Re Rebaudengo di Guarene d'Alba è invece un edificio settecentesco tutelato dalla Sovrintendenza ai beni culturali. Il 25 settembre 2017, al Matadero di Madrid, Manuela Carmena Castrillo, sindaca del comune di Madrid, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, presidente della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, e Luìs Cueto, coordinatore generale del comune di Madrid, hanno annunciato la nascita della Fundación Sandretto Re Rebaudengo Madrid. Nel 2022 la Fondazione ha annunciato di aprire la quarta sede nell'isola di San Giacomo in Paludo a Venezia: per fare ciò è previsto un piano di recupero dell'isola, attualmente in stato di rovina La fondazione diffonde e promuove l'arte contemporanea, cercando di avvicinare un pubblico sempre più ampio tramite corsi d'arte per adulti, domeniche per le famiglie, laboratori per gli studenti ed il servizio di mediazione culturale, un mezzo per accompagnare il visitatore attraverso il percorso espositivo. La fondazione è promotrice di un programma di progetti sperimentali e interculturali. Sostiene gli artisti, anche tramite la committenza di nuove opere d'arte, il lavoro in sinergia con altre istituzioni per la diffusione e la valorizzazione dell'arte e l'organizzazione di residenze per giovani curatori. A partire dal 2007, il dipartimento educativo della Fondazione promuove progetti interculturali in stretta collaborazione con giovani artisti e alcuni Centri Territoriali Permanenti cittadini: "A Vision of my Own" (2007-2008), "City Telling" (2008-2009), "Parole al vento" (2010). Francesco Bonami, Works from Collezione Sandretto Re Rebaudengo, Skira, Milano, 2005. Il coraggio. Arte contemporanea della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Musumeci, 2010. Pier Luigi Sacco, Il fundraising per la cultura, Meltemi Editore srl, 2006, pp. 193–202. Caso studio con intervista dedicato alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Paolo Paoli, Pianificazione e controllo delle organizzazioni culturali. Analisi teorica e casi di studio, FrancoAngeli, 2006, pp. 179–185. Caso studio dedicato alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Hans Ulrich Obrist, Sogni/Dream, Castelvecchi, 1999. Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, su fsrr.org. URL consultato il 22 marzo 2011 (archiviato dall'url originale il 6 aprile 2011). Contemporary Torino Piemonte, su contemporarytorinopiemonte.it. URL consultato il 25 marzo 2011 (archiviato dall'url originale il 22 marzo 2011).

Corso Duca degli Abruzzi
Corso Duca degli Abruzzi

Corso Duca degli Abruzzi è uno dei grandi viali alberati di Torino. Ha inizio da corso Vittorio Emanuele II sulla prosecuzione di corso Vinzaglio, estendendosi fino al largo Orbassano. Qui il corso, pur mantenendo il medesimo asse, cambia denominazione, diventando corso IV Novembre, in memoria della vittoria dell'Italia il 4 novembre 1918. Prosegue quindi fino a corso Sebastopoli, ove cambia denominazione diventando corso Giovanni Agnelli, in onore del fondatore della FIAT, e prosegue fino a piazza Caio Mario, all'incrocio con corso Settembrini. Si tratta di un ampio viale alberato costituito da una carreggiata centrale a due corsie per senso di marcia e due carreggiate laterali, separate da quella centrale da altrettanti viali alberati. Ha inizio all'altezza del numero civico 107 di corso Vittorio Emanuele II e si sviluppa in direzione nord-sud; poco prima dell'incrocio con corso Einaudi, trova alla sua destra la facciata principale del Politecnico di Torino. Divenuto corso IV Novembre dopo largo Orbassano, ove incrocia l'omonimo corso, trova alla sua sinistra la caserma Monte Grappa e subito dopo, attraversato corso Lepanto, costituisce, sulla sinistra, il lato lungo occidentale del rettangolo di Piazza d'armi (essendo quello orientale costituito da corso Galileo Ferraris), mentre sulla destra corre lungo la facciata principale dell'Ospedale Militare Alessandro Riberi. A partire dall'incrocio con corso Sebastopoli assume la denominazione di corso Giovanni Agnelli, fiancheggiando immediatamente sulla sinistra lo Stadio Olimpico Grande Torino, già Stadio Municipale Benito Mussolini, Stadio Comunale, Stadio Comunale Vittorio Pozzo e Stadio Olimpico (così denominato in occasione dei XX Giochi olimpici invernali del 2006), per proseguire andando ad incontrare corso Tazzoli, dopo il quale si trova a fiancheggiare sulla destra il lato sud degli stabilimenti della Fiat Mirafiori (palazzina direzionale ed uffici inclusa) e sulla sinistra l'ampio parcheggio pubblico destinato, di fatto, all'uso dei dipendenti dello stabilimento. Terminato questo giunge in piazza Caio Mario, ove attraversa corso Settembrini e quindi confluisce in Corso Unione Sovietica. Specularmente a Corso Duca degli Abruzzi, rispetto a Corso Vittorio Emanuele II, termina, sullo stesso asse, Corso Vinzaglio. Si tratta di un viale alberato ed a medesima struttura di Corso Duca degli Abruzzi, che giunge a Corso Vittorio Emanuele II da Via Cernaia.Deve il suo nome alla battaglia di Vinzaglio, ove il 30 maggio 1859, la divisione sarda del generale Giovanni Durando sconfisse gli austriaci. Procedendo verso via Cernaia, il marciapiede del lato sinistro (numerazione civica dispari) è coperto da eleganti portici fino alla fine del corso. Sul lato destro si affacciano i severi palazzi della Questura di Torino, dell'Intendenza di Finanza e del Circolo Ufficiali di Presidio. Prima degli anni 1950, tutto Corso Duca degli Abruzzi era chiamato Corso Vinzaglio. Renzo Rossotti, Le strade di Torino, Roma, Newton Compton Editori, 1997, ISBN 88-8183-113-9 Dove, Come, Quando - Guida di Torino '98-99, Torino, Gruppi di Volontariato Vincenziano, 1997 Stradario di Torino Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Corso Duca degli Abruzzi

Stadio Filadelfia
Stadio Filadelfia

Lo stadio Filadelfia, in origine campo Torino, è stato un impianto calcistico di Torino sito in Borgo Filadelfia; prendeva il nome dalla via che lo affiancava e ha dato il nome al quartiere su cui era edificato. Chiamato anche il Fila dai tifosi, o Fossa dei Leoni, fu terreno interno del Torino dal 1926 al 1943, dal 1945 al 1958 e dal 1959 al 1963, legando la sua fama principalmente all'epopea del Grande Torino nel corso degli anni quaranta. Lo stadio fu anche sede delle partite casalinghe delle giovanili del Torino fino al 1993. La società utilizzò la struttura anche per gli allenamenti fino al 1994, sia per la prima squadra che per le giovanili. Una volta chiuso alle attività sportive, l'impianto fu demolito parzialmente tra il 1997 e il 1998. Dopo la ricostruzione ultimata nel 2017, è divenuto un centro sportivo riservato agli allenamenti della prima squadra e ad alcune partite interne della formazione Primavera del club granata. Lo stadio venne creato dal conte Enrico Marone di Cinzano, a quei tempi presidente granata. Enrico Marone creò la Società Civile Campo Torino (SCCT), con quote versate a fondo perduto, e con il solo obiettivo di acquistare l'area e costruirvi uno stadio con annesso campo di allenamento. Il 24 marzo 1926 venne fatta richiesta di concessione edilizia presso il comune e, dopo l'accettazione, i lavori vennero affidati all'ingegnere Miro Gamba, docente del Politecnico di Torino; i lavori di costruzione vennero seguiti dal commendator Riccardo Filippa. Il terreno su cui sorse era, in quel periodo, in periferia e venne scelto per il basso costo dell'area. I lavori occuparono 5 mesi di lavoro e poco meno di due milioni e mezzo di lire. L'inaugurazione dell'impianto avvenne il 17 ottobre 1926, durante la partita tra il Torino e la Fortitudo Roma, alla presenza del principe ereditario Umberto, della principessa Maria Adelaide e di un pubblico di 15 000 spettatori. Il campo venne benedetto prima dell'incontro dall'arcivescovo di Torino, Monsignor Gamba. Originariamente lo stadio copriva un'area di 38 000 m² cintati da un muro; era formato da due sole tribune, con una capienza che raggiungeva le 15 000 unità (1 300 in tribuna centrale, 9 500 sulle gradinate, 4 000 nel parterre). Sotto la tribuna si trovava il parterre, disposto su 13 file. Il Filadelfia aveva delle gradinate in cemento e una tribuna in legno e ghisa costruita in stile Liberty. Le poltroncine della tribuna erano in legno e tutte numerate. Il muro che circondava la struttura era alto 2,5 metri. La facciata era composta da mattoni rossi, con colonne e grandi finestre dotate di infissi bianchi. Le varie finestre erano collegate tra loro da un ballatoio con la ringhiera in ferro. Davanti all'ingresso si trova un vecchio campo, noto in piemontese come Camp Cit, che veniva usato per gli allenamenti negli anni 1930. La struttura portante dell'edificio era in cemento armato, mentre quella delle tribune era composta da pilastri che sostenevano una rete longitudinale di capriate trasversali in legno su cui erano sistemati pannelli di eternit. Il parterre è formato invece da setti trasversali in muratura. Il sostegno della bandiera che si trovava all'entrata era alto sei metri circa; il suo basamento era coperto da bassorilievi raffiguranti greche in stile Art déco. Il campo misurava 110 × 70 metri ed era coperto di erba e dotato di un sistema di drenaggio. Sotto le tribune si trovava l'appartamento del custode e quattordici camere, che servivano, oltre ai giocatori e all'arbitro, anche l'infermeria, la direzione e una sala per rinfreschi. I giocatori potevano raggiungere il campo dagli spogliatoi attraverso un sottopassaggio. Lo stadio subì opere di ampliamento. Nel 1928 venne aggiunta la biglietteria e nel 1932 la gradinata della tribuna venne ingrandita portando la capacità totale a 30 000 persone. Questo stadio ospitò le partite casalinghe del Torino fino al termine della stagione 1962-1963. Qui i granata vinsero sei dei loro sette Scudetti (a cui va aggiunto anche quello revocato del 1927). In questa struttura il Torino è rimasto imbattuto per sei anni, 100 gare consecutive, dal 17 gennaio 1943 alla tragedia di Superga, compreso il famoso 10-0 contro l'Alessandria (ancora record per una gara di Serie A). È in questo impianto che si esibiva Bolmida (il tifoso trombettista poi reso famoso dal film Ora e per sempre). Il 13 luglio 1943, nel mezzo della seconda guerra mondiale, venne bombardato anche il Filadelfia. Tra le parti danneggiate ci furono il campo (poi utilizzato dagli alleati per giocare a baseball) e le gradinate di via Giordano Bruno. Nonostante la copertura della tribuna fosse intatta, le travi metalliche vennero asportate per rifornire probabilmente l'industria bellica e sostituite con altre in legno. Il Filadelfia rimase inagibile per molto tempo e il campionato del 1943-1944 venne disputato presso il motovelodromo di Corso Casale. Dopo la guerra i lavori di ristrutturazione vennero eseguiti dal nuovo presidente Ferruccio Novo. Nel 1959 venne approvato un nuovo piano regolatore generale secondo cui, dal 6 ottobre, per l'area veniva prevista una destinazione di gioco e sport e si accennava al riconoscimento del valore storico. L'impianto fu utilizzato, dal 1926 al 1993, anche per le partite casalinghe delle formazioni giovanili. Dopo la tragedia di Superga il presidente granata Ferruccio Novo diede in garanzia il Filadelfia alla Federcalcio e secondo qualcuno pensò addirittura alla possibilità di demolirlo. Nel dopoguerra l'area del Filadelfia divenne residenziale e nacque l'idea di abbattere il complesso per costruire nuovi edifici. Nel 1959 uscì il nuovo piano regolatore che definì l'area "verde pubblico" e il progetto fallì. Nella stagione 1958-1959 il club, ridenominato Talmone Torino per via dell'abbinamento con l'omonima azienda, si trasferì al Comunale, che avevano iniziato a utilizzare saltuariamente negli anni precedenti, soprattutto per gli incontri di maggior richiamo e, di conseguenza, con maggiore affluenza: la stagione si concluse con la retrocessione in Serie B. L'anno seguente, per una questione scaramantica, la squadra tornò a giocare al Filadelfia, e lo stadio ridivenne la casa del Torino per qualche anno. Il 19 giugno 1963 venne disputata l'ultima partita ufficiale prima dell'abbandono del Filadelfia: la semifinale di ritorno della Coppa Mitropa 1963 Torino-Vasas terminata 2-1, ma inutile ai fini del passaggio del turno per via della vittoria per 5-1 degli ungheresi nella gara d'andata. A partire dalla stagione seguente i granata si trasferirono definitivamente al Comunale. Lo stadio Filadelfia ospitò anche alcune gare casalinghe della Juventus: la prima volta nel 1936, in occasione dei quarti di finale della Coppa Italia 1935-1936 contro la Fiorentina (vinta per 3-1 dai viola). Poi, tra aprile e giugno 1962, a causa dei lavori di assestamento dello stadio Comunale, la Juventus disputò al Filadelfia la gara dei quarti di finale di Coppa Italia 1961-1962 contro il Lecco (vinta dai bianconeri per 3-0) e poi le gare interne di Coppa Mitropa 1962. Nel 1970 si tentò per la prima volta di recuperare il Filadelfia, quando il presidente granata era Orfeo Pianelli; la SCCT fece eseguire un progetto per la ristrutturazione. L'idea era di permettere l'allenamento della prima squadra con il recupero del campo e la costruzione di una palestra. I lavori subirono qualche problema e vennero annullati nel 1973, in quanto l'area risultava ancora destinata al verde pubblico. L'idea di Pianelli prevedeva l'abbattimento totale della struttura, la costruzione di campi di gioco e di una struttura per gli alloggi delle squadre giovanili. Il progetto originale fallì anche a causa di alcune minacce di morte ricevute dal presidente. Il 18 ottobre venne rilasciata la concessione edilizia, ma solo in forma precaria, e prevedendo un canone annuo. Il Torino continuò ad allenarsi al Filadelfia fino al 1994, quando si trasferì nella moderna struttura di Orbassano. La manutenzione dell'impianto di via Filadelfia però fu abbandonata e in pochi anni gli spalti si deteriorarono. Tra il 1985 e il 2008 vari imprenditori e politici annunciarono di volersi impegnare nella ricostruzione e nel ripristino dello storico stadio torinese: nessuno di essi tuttavia, per vari motivi, andò a buon fine. Nel quinquennio 1980-1985, più volte il Comune e la Soprintendenza richiamarono la società per le strutture fatiscenti, oltreché per il pericolo penale dovuto a eventuali crolli; tra gli altri, la Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici del Piemonte ordinò che il campo fosse sottoposto ad accurata verifica, da parte di un professionista diplomato, della condizione statica e del grado di conservazione delle strutture e che fossero rimosse tutte le parti instabili e pericolanti del medesimo. In questo periodo il presidente granata era Sergio Rossi. Il 4 marzo 1985, dopo l'ennesimo richiamo, la SCCT assunse l'ingegner Francesco Ossola, della Tecnogest Progetti, per effettuare uno studio dello stadio. Il 16 marzo vennero presentati i risultati, che tracciavano uno stato particolarmente cadente, e suggerivano la rimozione di parte della costruzione. Le tribune vennero chiuse al pubblico, che fu costretto a restare fuori dai cancelli anche durante le partite della Primavera. La risposta allo studio di Ossola arrivò il 29 marzo e impose alla società interventi precisi. Tre giorni prima Giacomo Donato, per conto del comune, aveva svolto un sopralluogo che era terminato con una relazione in cui accennava alla possibilità di recuperare l'agibilità (ma solo in parte) grazie allo svolgimento di alcuni lavori. Nel luglio 1986 il Torino presentò un piano di recupero, frutto dello studio dell'impresa Italresine. Alla fine dell'anno la SCCT, nella persona del presidente Lorenzo Rigetti, richiese al comune la concessione edilizia per lo svolgimento dei lavori proposti da Ossola. Sarebbero state ricostruite buona parte delle tribune, con l'obiettivo di recuperare una capacità di 5 000-6 000 posti. Le attività previste dopo i lavori comprendevano allenamenti della prima squadra, allenamenti e partite della Primavera e delle altre squadre giovanili. Il comune esaminò la richiesta e, prima di rispondere, decise di sentire il parere della Soprintendenza ai beni ambientali e architettonici del Piemonte, che rispose l'8 aprile dando parere favorevole e accennando al valore storico-architettonico di una parte del complesso. Il comune accettò la richiesta del Torino il 22 maggio 1987, l'Ufficio tecnico dei Lavori pubblici diede il consenso alla ristrutturazione, ma i lavori non furono mai iniziati. Nel 1989 il Torino tornò proprietario del Filadelfia. Lo stadio passò dal presidente federale Antonio Matarrese a quello granata Mario Gerbi, dietro un simbolico pagamento di venti milioni di lire. Il nuovo progetto venne affidato a Gino Zavanella. Il suo progetto era diviso in lotti che sarebbero stati sviluppati per gradi. La prima parte riguardava la tribuna in legno che, secondo Zavanella, era ancora recuperabile, il rifacimento della copertura e della tribuna Ovest. In seguito sarebbero state rifatte le strutture in cemento e il resto delle tribune, demolite e ricostruite da zero. Infine si sarebbe passati agli spogliatoi e agli altri spazi sotto le tribune. L'obiettivo era quello di raggiungere una capienza di 14 000 posti. Si iniziò anche a parlare della possibilità di includere un museo nella struttura. Il progetto di Zavanella divenne ufficiale il 13 novembre 1991, quando il nuovo presidente granata Gian Mauro Borsano chiese la relativa concessione edilizia. Il Servizio Sanitario Nazionale rigettò il progetto per alcune carenze e l'8 luglio 1992 la commissione igienico-edilizia rifiutò la concessione edilizia in quanto il progetto non rispettava l'articolo 85 della Legge regionale n. 56/7, essendo l'area considerata ancora "verde pubblico". Questo parere si concretizzò con l'ufficiale rifiuto del sindaco espresso il 16 ottobre 1992. All'inizio del 1993 venne ripresentata al comune la richiesta basata sul progetto di Zavanella, con le opportune modifiche richieste dal comune per adeguarsi al piano regolatore. Il comune chiese un parere alla Soprintendenza e, passati due mesi, venne ufficializzata la diffida di inizio lavori. A marzo il progetto di Zavanella venne definitivamente accantonato. Nel 1993 la presidenza del Torino passò a Roberto Goveani che, nel suo discorso di presentazione, affermò che il Filadelfia era per lui una priorità. Voleva uno stadio da 30 000 posti, prevedendo una spesa di trenta miliardi di lire. Si disse che l'Istituto per il credito sportivo potesse anticipare 10 miliardi a tasso agevolato e i restanti venti sarebbero stati raccolti tra finanziatori privati. L'8 luglio 1993 Mario Borghezio presentò un'interrogazione parlamentare ai ministri dell'Interno e dei Beni Culturali. Il 9 ottobre venne inviata al Torino una comunicazione che revocava l'agibilità del complesso. Per questo motivo vennero spostate le partite della Squadra Primavera presso il Campo Ruffini, anche se continuava ad allenarsi al Filadelfia. La concessione dell'agibilità sarebbe stata rilasciata solo dietro presentazione, entro due settimane, di un piano serio. Un incontro tra il Torino e i responsabili del comune delineò i lavori necessari urgentemente; tra questi il rifacimento completo del corridoio tra spogliatoi e campo, l'impianto elettrico e il riscaldamento, e i sanitari. Si sarebbe dovuta pagare una ditta esterna per svolgere studi sulla sicurezza della tribuna Liberty, protetta dalle Belle Arti. A questo punto l'idea progettuale di Goveani venne accantonata, superata dalla priorità dei lavori necessari a riottenere l'agibilità. Una crisi economica societaria obbligò Goveani a vendere la squadra e il suo progetto finì negli archivi. L'ennesimo rischio di fallimento favorì un nuovo cambio di dirigenza, che portò a capo del Torino Gianmarco Calleri, ex patron della Lazio. A differenza dei predecessori Calleri considerava il Filadelfia un peso, e affermò di non avere interesse al suo recupero. La mancanza di lavori di ristrutturazione costarono al Torino numerose sanzioni pecuniarie e, dopo l'ennesima proroga, il 27 settembre 1994 ne venne dichiarata la completa inagibilità a causa dei continui crolli. Nel 1995 si aprì una nuova speranza per il Filadelfia. L'ex sindaco di Torino, Diego Novelli, eletto consigliere nelle liste de La Rete, in seguito a un confronto con Calleri, decise di dare vita a una fondazione destinata al recupero dell'impianto. Alla fondazione parteciparono molte persone famose: lo stesso Diego Novelli, Giancarlo Caselli, Nino Defilippis, Gianpaolo Ormezzano, Giuseppe Tarantino, il Torino e l'allora sindaco di Torino, Valentino Castellani. La proprietà dell'impianto passò, quindi dalla società granata alla fondazione. Partì una sottoscrizione privata per recuperare i fondi; in cambio di un'offerta di 100 000 lire, l'offerente avrebbe avuto il proprio nome scritto su un mattone del nuovo stadio. Nel luglio 1995 venne abbattuta una parte della gradinata nord e si cominciò a parlare di una variante al progetto, che avrebbe permesso di portare la capienza a 25 000 posti. Il nuovo progetto venne presentato il 12 dicembre 1995: lo stadio avrebbe avuto 15 000 posti (seduti e coperti). La nuova sede, la palestra, il museo, la biblioteca e la videoteca si sarebbero trovati sotto alle tribune. Il vecchio campo di allenamento avrebbe dovuto fare posto a hotel e foresterie. Il parcheggio sarebbe stato interrato, strutturato su tre livelli, e fornito 300 posti auto. A parte la tribuna protetta dalle Belle Arti, tutto il resto sarebbe stato da demolire. Continue difficoltà burocratiche portarono a numerosi rinvii della presentazione del progetto alla Commissione igienico edilizia. Nel 1997 il sindaco Castellani fece stendere un progetto per risolvere il problema dello stadio delle Alpi, impianto costruito per il campionato del mondo 1990 che non piaceva né alla Juventus né al Torino. Secondo questa idea, la Juventus avrebbe ottenuto il Comunale, mentre al Torino veniva permesso di ristrutturare il Filadelfia portandolo a 20 000 posti. L'obiettivo era quello di far partire i lavori entro luglio dello stesso anno. Il 30 aprile 1997, dopo aver parlato con la Soprintendenza, la Fondazione Campo Filadelfia chiese al Comune di poter demolire quello che restava dello stadio. Il 6 e 7 maggio venne accettata la demolizione, con l'esclusione dell'ingresso su via Filadelfia e di parte delle gradinate. A questo punto, con l'autorizzazione in mano per uno stadio da 25 000 posti, si iniziò a pensare ai finanziamenti. Il 18 luglio 1997 iniziarono i lavori di demolizione a opera dell'Impresa costruttrice Recchi Spa – CO.GE. Ad aprile 1998 l'amministrazione comunale decise di bloccare i lavori di demolizione. Secondo loro l'autorizzazione non era mai stata data e i lavori erano illegali. Tuttavia, l'idea di ristrutturare e riutilizzare il Filadelfia non fu del tutto accantonata, anzi fu proposto di farlo diventare uno stadio di 23 000 posti. Contemporaneamente ai piani della società granata, la Juventus, che nel biennio 1996-1998 aveva intenzione di ristrutturare e riutilizzare il Comunale, decise di rinunciare al progetto, in favore del mai abbandonato progetto Delle Alpi, risalente al 1994. Questa decisione fu presa per evitare che, nella zona circostante lo stadio di Santa Rita, ci potessero essero problemi di ordine pubblico derivanti dalla presenza di due stadi calcistici nella stessa zona: infatti, nelle vicinanze c'era proprio il Filadelfia, storicamente legato al Torino e su cui era in vigore il progetto di rifacimento risalente al 1997. Il 27 marzo 1999 Diego Novelli annunciò di aver ricevuto una donazione di settanta miliardi da parte di Giuseppe Aghemo, industriale che da tempo voleva acquistare il Torino. Grazie a questo, Novelli decise di ricostruire lo stadio senza l'aiuto del club granata, che poi avrebbe pagato l'affitto per lo sfruttamento dell'area. Dopo due incontri distinti tenuti tra i "contendenti" e il Comune, il presidente del Torino, Vidulich, si disse soddisfatto e pronto a trovare un accordo con la Fondazione. Vidulich lasciò aperta la strada alla possibile ricostruzione effettuata dalla società granata senza aiuti esterni. Nell'aprile 2000 il Torino passò dalle mani della Bullfin dei genovesi, a quelle della Società Investimenti Sportivi (S.I.S.) di Francesco Cimminelli. La stessa S.I.S., durante quell'anno, acquistò il Filadelfia dalla Fondazione. Nel 2000 intanto il TOROC (il comitato olimpico), in vista dei XX Giochi olimpici invernali, cominciava a pensare all'idea di disputare le gare di hockey su ghiaccio al nuovo Filadelfia. Tuttavia, l'anno successivo, si decise di scegliere lo stadio Comunale come struttura di cui usufruire durante i XX Giochi olimpici invernali, dopo essere stato suggerito come alternativa al Filadelfia nel biennio 2000-2001. Dapprima, l'impianto di Santa Rita avrebbe dovuto ospitare le gare di hockey su ghiaccio (progetto bocciato nelle settimane successive), ma poi, nel 2002, fu scelto come location per le cerimonie di apertura e di chiusura dei giochi (finalità, inizialmente, destinata allo stadio delle Alpi, durante il biennio 2001-2002, salvo poi cambiare i piani). Sempre nel 2001, fu proposto di vendere lo stadio delle Alpi alla Juventus e al Torino in comproprietà (proposta già effettuata nel 1996, ma le due squadre rifiutarono per i prezzi troppo onerosi): le due società e il Comune furono concordi sulla soluzione. Nonostante ciò, il piano fu abbandonato al termine dello stesso anno, complice la mancanza di un accordo tra i due club per la gestione della struttura. Il Torino riprese così in mano il progetto Filadelfia, salvo poi abbandonarlo, parzialmente, nel 2002: si decise, infatti, di utilizzarlo non come impianto per le partite casalinghe, bensì come "stadio della memoria" con museo, sede sociale e centro commerciale. A causa della suddetta decisione, nello stesso anno, il sindaco Sergio Chiamparino propose ai granata di acquistare lo stadio Comunale. Il 18 giugno 2002, a seguito dell'accordo con il Comune che, per la cifra di 25 milioni di euro, assegnò il Delle Alpi ai bianconeri, il Comunale venne affidato ai granata, al prezzo di 6 milioni di euro. Il 19 dicembre 2002, il Filadelfia fu venduto dalla S.I.S. di Francesco Cimminelli al Torino dello stesso Cimminelli, al fine di designarlo ad altre attività. Tra il marzo e l'aprile 2004 la nuova proposta del Torino prevedeva una ricostruzione fedele del vecchio Filadelfia. Come aveva già proposto più volte nel corso del biennio 2002-2004, la società granata intendeva stabilire la sede sociale all'interno della struttura, insediarvi un museo, fare un impianto da 2 200 posti in erba sintetica, destinare il campo da gioco agli allenamenti della prima squadra e alle partite della formazione Primavera. Il 13 luglio il progetto, affidato a Rolla, venne respinto all'unanimità dalla Soprintendenza e dal Comune. A fine settembre Rolla presentò il progetto corretto e questa volta venne valutato accettabile. I tifosi, ormai in aperta contestazione con la società in preda ai problemi finanziari, arrivarono a formare il Comitato Dignità Granata, un'associazione con il compito di vigilare sul Filadelfia. Anche l'Associazione Ex Calciatori Granata si mobilitò. Quest'ultima associazione, composta da giocatori che avevano giocato nel vecchio Filadelfia, affermava di voler ricomprare il terreno. Il 26 giugno 2005 il club granata festeggiò la promozione in serie A dopo la vittoriosa finale play-off sul Perugia, ma una settimana dopo venne dichiarato non idoneo all'iscrizione in massima serie. La mancata iscrizione al campionato della società granata rischiava di farla sparire completamente e quindi Pierluigi Marengo, con altri piccoli imprenditori, si prese la responsabilità di far rinascere la squadra chiedendo l'ammissione al Lodo Petrucci, che avrebbe permesso la ripartenza dalla Serie B invece che dalla C. La FIGC non considerava sufficiente la proposta economica, e quindi alla cordata si unì la Società Metropolitana Acque Torino. Il 19 agosto 2005, durante la conferenza stampa che avrebbe dovuto presentare la nuova società, venne annunciato l'acquisto della stessa da parte di Urbano Cairo. Nel frattempo, il 12 agosto 2005, il Filadelfia veniva acquistato dal Comune, il quale, nello stesso giorno, si riappropriava anche del vecchio Comunale. Il successivo 17 novembre fu definitivamente sancito il fallimento del Torino. Il 2 febbraio 2006, l'assessore Elda Tessore, responsabile delle olimpiadi invernali, dopo un sopralluogo, consigliò di nascondere l'impianto coprendolo con alcuni teloni. La scelta fece infuriare la tifoseria granata, che lo ritenne inaccettabile, soprattutto perché non erano stati stanziati fondi per il suo recupero. Il 25 maggio 2006 venne stipulato un accordo tra Comune, il curatore fallimentare e le altre società interessate all'area: Bennet, Mo.Cla. e Italcostruzioni. Dopo un incontro con i rappresentanti dei tifosi, il 31 luglio fu siglato un accordo tra il Comune e le altre società che volevano costruire; in questo accordo si precisò che i palazzi sarebbero stati spostati in un'altra zona. Un progetto prevedeva la creazione di due campi da calcio (per l'allenamento delle giovanili e per preparazione e amichevoli della prima squadra). Di fianco a questi campi sarebbe sorta un'area commerciale da 3 000 m², alta due piani, che avrebbe dovuto permettere di racimolare i soldi necessari per il finanziamento del progetto. Il 9 maggio 2008 un emendamento del consigliere regionale Gian Luca Vignale (AN) venne approvato e la Regione si impegnò a entrare nella Fondazione Filadelfia quale socio fondatore. Nel frattempo il vecchio stadio Comunale venne restaurato e ribattezzato in Olimpico, in vista dei XX Giochi olimpici invernali. Nel 2006 il Torino si stabilì definitivamente nel rinnovato Olimpico condividendolo con la Juventus stabilitasi transitoriamente, in attesa del restyling dello stadio delle Alpi. Inizialmente intenzionata a giocare nell'impianto di Santa Rita per la sola stagione 2006-2007, in modo da attuare un veloce ammodernamento del Delle Alpi, il suo coinvolgimento in Calciopoli durante l'estate 2006 convinse la società bianconera a riesaminare i suoi piani edilizi ed estendere fino al 2011 la convivenza all'Olimpico con la squadra granata; dopodiché si trasferì nel suo nuovo impianto di proprietà, lo Juventus Stadium, sorto sulle ceneri del vecchio Delle Alpi. A partire dal 2011, l'Olimpico divenne quindi destinato esclusivamente all'uso del Torino. Tuttavia, a pochi metri da un Olimpico restituito all'uso calcistico, negli anni tra il 2008 e il 2015, c'era un Filadelfia recintato, abbandonato, divenuto dimora di rovi ed erbacce, luogo di spaccio e dimora di senza tetto e si era persino arrivati a usare il campo come se fosse un orto. Sotto la presidenza di Urbano Cairo, vi fu una nuova svolta per il progetto di recupero dello stadio con la nascita della seconda "Fondazione Stadio Filadelfia", costituitasi nel 2011 con l'obiettivo di una riqualificazione dell'intera area del vecchio impianto. L'8 febbraio 2011 la stessa Fondazione acquistò il Filadelfia dal Comune. Il 10 maggio 2013 Cairo confermò l'avvio della ricostruzione del Filadelfia con un progetto di due campi, dei quali uno con tribune da 4 000 posti per le amichevoli della prima squadra e alcune partite della Primavera (prevedendo la conservazione dei monconi superstiti del vecchio impianto). Il 24 aprile 2014 Cairo versa alla Fondazione 333 000 euro, pari al 33% della cifra garantita per la ricostruzione; tale cifra però poteva essere incassata solo a seguito di una modifica statuaria della Fondazione, irrogata il 13 gennaio 2015; frattanto, il 23 dicembre 2014, fu fissata la scadenza del bando di gara per provvedere alla ricostruzione della zona. Il nuovo Fila è diverso dal semplice stadio del passato (nonostante due porzioni dei vecchi spalti, tutelate dalla sovrintendenza, siano state integrate nel progetto di recupero): il nuovo complesso, concepito come «Casa del Toro», è infatti un centro sportivo dotato di un campo principale da gioco da 4 000 spettatori e di un campo secondario, destinati a ospitare gli allenamenti della prima squadra e alcune partite casalinghe della formazione Primavera. Completeranno il complesso la sede della società, il museo del club, la sede della fondazione e una foresteria per i ragazzi del settore giovanile. Il 26 gennaio 2015 sono cominciati i primi lavori di disboscamento dell'area, ricerca e bonifica dei residuati bellici. Dopo che, il 17 ottobre 2015, è stata effettuata la posa della prima pietra, sul terreno hanno avuto, poi, inizio i lavori di costruzione del nuovo centro sportivo omonimo, completato e inaugurato nel maggio 2017. La prima partita ufficiale dei granata all'interno dell'impianto, si disputò il 17 ottobre 1926 (lo stesso giorno in cui venne inaugurato), in occasione della terza giornata nel girone B della Divisione Nazionale 1926-1927 contro la Fortitudo Pro Roma. L'incontro terminò con la vittoria dei padroni di casa per 4-0. L'ultimo incontro ufficiale (prima dell'abbandono dell'impianto), disputato dal Torino all'interno della struttura, ebbe luogo il 19 giugno 1963, in occasione della semifinale di ritorno della Coppa Mitropa 1963 contro gli ungheresi del Vasas e si concluse con la vittoria dei granata per 2-1. Dopo aver abbandonato il Filadelfia, il Torino vi disputò appena due partite ufficiali. La prima si giocò l'11 dicembre 1963, in occasione del secondo turno della Coppa Italia 1963-1964 contro il Varese. La sfida terminò 2-1 per la squadra torinese. Il secondo (e ultimo) incontro ufficiale disputato dal club piemontese al Filadelfia, a seguito dell'abbandono dell'impianto, si giocò, in via del tutto eccezionale, durante il Torneo Estivo, in occasione della terza partita del girone 1 della seconda fase, disputatasi il 14 giugno 1986. Ospite del match, il Pisa, che, al termine della sfida si impose per 2-1 sui padroni di casa. Questa fu l'ultima partita ufficiale disputata dal Torino all'interno dello stadio Filadelfia. Lo stadio Filadelfia è stato sede di quattro incontri della nazionale di calcio dell'Italia: la gara di Coppa Internazionale del 13 dicembre 1931 contro l'Ungheria e terminata con il punteggio di 3-2 in favore degli Azzurri, oltre a tre precedenti amichevoli giocate contro la Francia (3-4 per gli ospiti, disputata il 17 marzo 1912), il Portogallo (3-1 per i padroni di casa, svolta il 17 aprile 1927) e la Germania (1-2 per gli ospiti, giocata il 28 aprile 1929). Lo Stadio Filadelfia è divenuto location per tre film, due dei quali dedicati al Grande Torino: Tutti giù per terra (1997), di Davide Ferrario, con Valerio Mastandrea, Caterina Caselli, Anita Caprioli, Luciana Littizzetto e Giovanni Lindo Ferretti. Ora e per sempre (2004), regia di Vincenzo Verdecchi, con Kasia Smutniak, Giorgio Albertazzi e Gioele Dix. Il Grande Torino (2005), fiction Rai, con Ciro Esposito, Beppe Fiorello e Michele Placido. Marco Lazzarotto, Il patrimonio storico-sportivo della città di Torino, tesi di laurea in "Architettura per il restauro e la valorizzazione dei beni architettonici", Politecnico di Torino, anno accademico 2007-2008. Borgo Filadelfia Filadelfia (centro sportivo) Wikiquote contiene citazioni sullo Stadio Filadelfia Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sullo Stadio Filadelfia Stadio Filadelfia (Campo Torino), su museotorino.it, Città di Torino.