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Via del Colle

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Mura barbarossa via del colle
Mura barbarossa via del colle

Via del Colle (in genovese A Cheullia /a ˈkølja/) è una strada di Genova. Situata nel sestiere del Molo, si estende lungo il tratto esterno delle Mura del Barbarossa che da Porta Soprana e dal Piano di Sant'Andrea conduce verso il Ponte di Carignano e alla zona di Sarzano, costeggiando dall'alto la valle del rivo Torbido. Sino alla metà del Novecento zona caratteristica del centro cittadino, negli anni settanta del XX secolo è stata anch'essa soggetta agli sventramenti che hanno interessato l'intera zona riguardante la scarpata del Colle verso il tracciato del rivo Torbido e l'area su di esso edificata (borgo Lanaiuoli, via dei Servi e via Madre di Dio; le demolizioni hanno riguardato anche la demolizione della casa natìa di Niccolò Paganini). Demolita la maggior parte delle abitazioni, nell'antico sito - che ancor oggi mantiene il nome originario - rimangono soprattutto frammenti della terza cinta muraria genovese (1155-1559). L'area di via del Colle è stata immortalata nella cultura popolare anche grazie all'omonimo brano musicale A Cheullia (Mario Cappello - Pasquale Taraffo).

Estratto dall'articolo di Wikipedia Via del Colle (Licenza: CC BY-SA 3.0, Autori, Immagini).

Via del Colle
Via del Colle, Genova Centro Est

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16128 Genova, Centro Est
Liguria, Italia
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Mura barbarossa via del colle
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Piano di Sant'Andrea
Piano di Sant'Andrea

Il Piano di Sant'Andrea (o Pian di Sant'Andrea, meno comunemente Piani di Sant'Andrea; Cian de Sant'Andria o Cian de San Dria in ligure) è un luogo storico della Genova antica, situato sull'omonimo colle - detto anche colle del Brolio - delimitato dalle due alte torri che portano anch'esse il nome di Sant'Andrea e che racchiudono Porta Soprana (o Porta superana), nel medioevo il principale varco di accesso alla città. In direzione del mare, il Piano di Sant'Andrea scorre lungo le mura - principio di fortificazione della città - che un tempo racchiudevano il nucleo antico cittadino e che oggi sono meta di visite guidate tese a ripercorrere, in un viaggio a ritroso nel tempo, da Campopisano a Sarzano, la storia della Genova dei dogi. Dal Piano di Sant'Andrea si accede, attraverso il fitto dedalo di caruggi, alla pittoresca piazza delle Erbe - oggi fulcro della movida giovanile - e alla salita Pollaioli, in prossimità del Palazzo Ducale. Attiguo al Piano è il quartiere di Ravecca (o della Marina) e di Piazza Sarzano. Questa parte della città è ora sede di molti uffici della city che si affacciano sul moderno Centro dei Liguri attraversato dall'antico ponte di via Ravasco, ma tuttora caratterizzato da piccole botteghe artigiane e tipiche friggitorie nelle quali si possono gustare, assieme alle torte di verdura della cucina genovese, dell'ottima farinata di ceci o della focaccia con il formaggio all'uso di Recco. Raggiungibile attraverso salita del Prione, il Piano di Sant'Andrea ospitava fino agli anni cinquanta numerose case di tolleranza. Tale ambientazione è bene descritta da Gino Piastra nel suo volume Luci ed ombre della Superba: Il colle ospitava il complesso del monastero delle monache Benedettine di Sant'Andrea, risalente al XII secolo, poi espropriato ed adibito a carcere. Nel 1901 Francesco Podestà, pittore e studioso di storia locale, nel suo libro Colle di Sant'Andrea in Genova e le regioni circostanti, scrisse: Da alcune vecchie fotografie si può osservare come dal Piano di Sant'Andrea partisse un vicoletto che conduceva all'antico monastero e alla chiesa di Sant'Andrea, situata al limitare della collina del Brolio e demolita sul finire del XIX secolo in occasione della sistemazione della via XX Settembre (già via Giulia) e della adiacente via Dante. La demolizione dell'ex monastero, al tempo carcere, di Sant'Andrea e del relativo chiostro furono argomento di forte tensione tra Alfredo d'Andrade (allora Direttore dell'ufficio regionale per la conservazione dei monumenti del Piemonte e della Liguria e poi anche rappresentante del Ministero della Pubblica Istruzione nella trattativa relativa alla cessione delle carceri) e il consiglio comunale di Genova, quest'ultimo per buona parte intenzionato a portare a termine il restyling della zona (sostenuto peraltro anche da una forte campagna stampa a favore della demolizione). Il d'Andrade nei suoi rapporti al ministero sostiene che la demolizione non sarebbe stata dovuta a motivi di igiene o di pubblica utilità, ma solo per tentativi di effettuare una speculazione edilizia. Nel 1904 venne decisa la cessione delle carceri e la loro demolizione. Grazie alle pressioni del d'Andrade fu comunque salvato il chiostro, smontato e ricostruito nel 1922 nelle vicinanze di Porta Soprana. La strada dove si affacciava la casa di Colombo - e che fa parte integrante del Piano di Sant'Andrea - è una piccola salita che esiste tuttora (sebbene spoglia degli edifici che la adornavano) e che conduce da Porta Soprana alla sottostante piazza Dante. Un tempo tale piccola salita era chiamata vico dritto Ponticello, nome gli derivava da un piccolo ponte posto proprio sopra il rio Torbido, che scorreva seminterrato, e che collegava la strada romana proveniente dal borgo di San Vincenzo con la stessa Porta Soprana. Il ponte aveva il curioso nome di ponte delle conchette ed era così chiamato durante il XV secolo perché in quel punto venivano gettati i manufatti in ceramica rotti oppure difettosi provenienti dalle fabbriche poco lontane. Dal soprannome deriva l'antica espressione genovese che indica qualcosa di scadente "O no l'ha mai passòu o ponte de conchette" ("Non ha superato il ponte delle conchette"). Malgrado l'intervento dell'uomo e l'usura del tempo molte case di Ponticello e del Piano di Sant'Andrea conservarono, fino al sovvertimento della zona per la sistemazione della piazza Dante che chiude la via omonima, molti caratteri dei secoli XIV e XV e vestigia ancora più antiche, come quelle della casa d'angolo fra Borgo Lanaioli (ove si trovavano numerose botteghe di cardatori di lana) e il vico dritto Ponticello sulla quale fino al 1860, anno dell'unità d'Italia si potevano vedere alcuni anelli delle catene che chiudevano il porto di Pisa, repubblica marinara rivale, espugnato nel 1290 dai genovesi. Il bassorilievo in marmo del 1280 che raffigurava il porto pisano - e che rimase collocato sulla suddetta casa fino alla sua demolizione - si trova ora nella chiesa di Sant'Agostino - situata accanto al museo omonimo - mentre gli altri anelli della stessa catena, che si trovavano su altri edifici, furono con l'unificazione nazionale restituiti alla città di Pisa. Risale al 1642, anno in cui fu prolungato l'acquedotto civico fino a Cavassolo, l'istanza che gli abitanti di Ponticello fecero pervenire ai Padri del Comune affinché fosse costruita nella loro piazza una fontana - denominata Barchile - considerata indispensabile per i viandanti e gli uomini rurali che continuamente trafficano in detto quartiere. I richiedenti si dissero disposti a contribuire alle spese e l'istanza venne accolta il 4 luglio di quell'anno; il 14 dello stesso mese il reverendo Cavazza effettuò il versamento della somma raccolta che ammontava a trecentocinquanta lire genovesi con il risultato che la pratica fu in breve tempo sbrigata e nel mese di agosto venne dato il primo acconto di cento lire per la fornitura dei marmi e la loro lavorazione ad opera dello scultore Gio Mazzetti. La fontana venne terminata nel 1643 e collaudata dall'architetto Francesco Da Nove. Era costituita da una base a forma di cubo su cui era scolpito lo stemma della città. In alto zampillavano quattro fili d'acqua e sulla base appoggiava una colonna arabescata che reggeva la vasca a forma ottagonale, da cui usciva altra acqua, a forma di testa d'ariete, mentre un putto, in alto al centro, soffiava l'acqua da una conchiglia. Al Barchile di Ponticello, così come alle altre fontane della città, attingevano l'acqua le cosiddette camalle d'aegua, le portatrici d'acqua, donne molto robuste e per la maggior parte della zona di Montoggio che, a pagamento, la consegnavano a domicilio a tutte quelle case che non possedevano il pozzetto o la cisterna privata. Per la sua bellezza ed eleganza, questa fontana venne paragonata a quelle della Peschiere e di piazza delle Erbe; tuttavia, già nel 1876 venne prospettata la possibilità di una sua rimozione in considerazione del fatto che aveva perso l'originaria utilità in conseguenza del trasferimento delle erbivendole da piazza Ponticello a via Fieschi, allora appena aperta. Inoltre, l'architettura era considerata un pericolo per i veicoli ed i carretti che salivano alla vicina basilica di Carignano. Rimase tuttavia al suo posto fino al 1935, quando fu decisa una nuova ristrutturazione della zona, per poi essere trasferita nel cortile di levante del Palazzo Ducale dove fu sistemata (con scopo puramente ornamentale) ad opera degli architetti Orlando Grosso e Giuseppe Crosa. Infine nel 1998, dopo un restauro, venne posizionata in Campetto. Vico dritto di Ponticello e il Piano di Sant'Andrea, in virtù della favorevole posizione di accesso alla città per chi arrivava dalla Val Bisagno, furono un luogo abitato da persone di rilievo. In prevalenza vi stabilirono i loro studi numerosi notai, tra i quali si ricorda Antonio Gallo che scrisse alcune opere latine tra cui "Cronache della Repubblica di Genova, comprese tra gli anni 1466 e 1478"; Andrea de Cario, Giacomo Bonvino (contemporanei di Gallo) e Bartolomeo e Giuseppe Rimassa, i cui atti vengono conservati nell'Archivio di Stato di via Tommaso Reggio. Tra gli artisti illustri che abitarono nella zona fu Lazzaro Tavarone, che aveva studio nella Torre Fieschi (l'edificio più alto del piano di Sant'Andrea, alle spalle della porta Soprana, attualmente con il paramento murario in mattini riportato a vista). Altri illustri abitatori del Ponticello si trovano anche nel campo dell'arte e della carità.Il pittore Giovanni da Padova, che verso la fine del secolo XIV abitò nella zona, affrescò le pareti dell'ospedale che vi ebbe sede durante i secoli XIV e XV e famosa è la casa di Ponticello dell'intagliatore Anton Maria Maragliano, geniale artista di figure del presepe genovese e di sculture devozionali, definito da Carlo Giuseppe Ratti artefice che congiunge ad una rara perizia una esimia generosità d'animo e soavità di costumi. In tale casa, Maragliano morì il 7 marzo 1739. In Ponticello abitò nel 1757 Lorenzo Garaventa (fratello di Niccolò Garaventa, anch'egli filantropo ed istitutore), il quale un giorno appese alla sua porta un cartello con sopra scritto "Qui si fa scuola di carità", dando così l'avvio ad un'attività che, con l'aiuto di molti benefattori, ebbe in Genova un notevole sviluppo, ad esempio attraverso la fondazione di scuole per bambini come quelle che saranno istituite solo oltre vent'anni dopo, nel 1780, in Svizzera, da Johann Heinrich Pestalozzi, così come da Robert Owen in Inghilterra nel 1816 e da Ferrante Aporti in Italia. Al Piano di Sant'Andrea e nella vicina Ravecca è ambientato quello che è il romanzo verista più conosciuto dello scrittore Remigio Zena, La bocca del lupo. In tale romanzo il personaggio più caratterizzato è la Bricicca, figura diventata con il tempo molto popolare, quasi a diventare una maschera rappresentativa della cultura popolare locale. Il lavoro di Zena (che di nascita non era genovese ma che a Genova legò e chiuse la sua vita, e il cui nome richiama quello della città espresso nella lingua locale, appunto Zena) fu trasposto per il teatro negli anni ottanta e messa in scena con protagonista un'attrice genovese, Lina Volonghi. La Bricicca è dunque la classica figura di popolana genovese del XIX secolo, del tipo di quelle di cui si può avere testimonianza ormai solo attraverso le vecchie fotografie del tempo passato, molte delle quali scattate da un fotografo di Dresda attivo a Genova, Alfred Noack, che documentò la vita nel capoluogo ligure nel XIX secolo. Approfondimento su Alfred Noack, su comune.genova.it (archiviato dall'url originale il 28 settembre 2007). Fotografie di Alfred Noack (PDF) , su unige.it. "La bocca del lupo" di Remigio Zena, su xoomer.virgilio.it. I Piani di Sant'Andrea, su xoomer.virgilio.it.

Casa di Niccolò Paganini
Casa di Niccolò Paganini

La casa di Niccolò Paganini a Genova era l'edificio nel quale visse in gioventù Niccolò Paganini. La casa in stile rinascimentale si trovava in Passo di Gattamora, 38 nel quartiere del Colle vicino a via Madre di Dio. Niccolò Paganini visse in questa casa dalla nascita, il 27 ottobre 1782, fino all'età di 14 anni quando si trasferì a Parma. Sulla facciata della casa era presente un'edicola del 1610-1620. In occasione del centenario della nascita il comune di Genova fece collocare una targa dettata dall'onorevole Anton Giulio Barrili: Durante la seconda guerra mondiale risultava già in cattive condizioni a causa dei crolli causati dai bombardamenti. Il "Piano particolareggiato" del 1966 prevedeva un grande edificio progettato da Marco Dasso, denominato "Centro dei Liguri", allungato verso il mare lungo la valletta del Rivo Torbido, contrapposto al quale è sorto un altro palazzo di uffici, caratterizzato dal rivestimento in pietra artificiale rosa, disegnato da Franco Albini e Franca Helg. L'architetto Dasso, al centro di un'aspra polemica tra "restauratori" e "innovatori", rifiutò le operazioni di restauro, scegliendo la via della totale demolizione delle strutture edilizie. Venne acquistata dalla curia genovese tramite la Società immobiliare San Gallo s.p.a., presieduta da Alberto Pongigllone, che aveva sede in Liechtenstein al di sotto del suo valore per la costruzione del Centro direzionale dei Liguri che costò 60 miliardi di lire prestati dalla Carige, mentre la società Cemar si occupò, il 3 luglio 1969, della demolizione lasciando solo la facciata fino al primo piano con l'edicola seicentesca. Il resto della facciata venne demolito, la sera del 13 settembre 1971, con mazze e picconi nonostante, nel nuovo piano regolatore, fosse stato promesso di non sacrificare la casa che sarebbe stata risparmiata e inserita in un giardino. Poteva essere salvata con la Legge 1089 del 1939 sulla Tutela delle cose d'interesse Artistico o Storico. L'architetto del comune, Oddi, che si occupava delle Belle Arti disse che la casa era in fase di "disintonacatura" e che doveva rimanere qualche traccia, mentre la dottoressa Terminiello della Sovrintendenza ai Beni Culturali aveva promesso di far svolgere un sopralluogo. La demolizione della casa provocò l'ira degli abitanti del Colle che cercarono di fermare la demolizione. La società San Gallo s.p.a. fallì e in seguito lasciò uno strascico giudiziario, la targa venne ritrovata in un magazzino comunale e nel 1982 l'amministrazione comunale insieme alla Carige propose la ricostruzione della facciata, ma poi quest'idea venne abbandonata. Nel 1981 nella vicina piazza Sarzano l'US Vecchia Genova fece erigere una targa come "colonna infame": La statua della Madonna Immacolata che si trovava nell'edicola votiva venne trasferita nel Museo di Sant'Agostino. La targa che si trovava sulla casa è stata trasferita nei Giardini Baltimora, a cui è stata aggiunta una targa nel 1992 dal comune di Genova: Nel 2005 venne aperta dall'antico complesso conventuale di Santa Maria delle Grazie la Casa Paganini/InfoMus Lab. Niccolò Paganini Carignano (Genova) Monumento a Niccolò Paganini Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Casa di Niccolò Paganini

Bombardamento navale di Genova (1941)
Bombardamento navale di Genova (1941)

Il bombardamento navale di Genova (nome in codice operazione Grog, in inglese operation Grog, conosciuto in Italia anche come beffa di Genova) ebbe luogo la mattina del 9 febbraio 1941 ad opera della Royal Navy. Fu il secondo e ultimo attacco via mare che subì Genova dopo il bombardamento navale del 1940, avvenuto il 14 giugno di quell'anno. Anche se l'obiettivo principale era Genova, l'operazione militare britannica fu però più ampia e riguardò anche un leggero bombardamento aereo dei porti di Pisa, Livorno e La Spezia per mano degli aerosiluranti Fairey Swordfish imbarcati sulla portaerei HMS Ark Royal. Da quel giorno, fino alla fine del conflitto in Italia, la città subì altri pesanti attacchi, ma esclusivamente aerei. Dopo la dichiarazione di guerra a Francia e Gran Bretagna, la penisola italiana subì una lunga serie di attacchi alleati, rivolti contro le sue città industrialmente più importanti, per tutta la durata della seconda guerra mondiale; nel corso del conflitto la città industriale di Genova fu pesantemente bombardata, soprattutto per la presenza di importanti cantieri navali e industrie metallurgiche. Un primo attacco via mare avvenne appena quattro giorni dopo la dichiarazione di guerra, da parte di una flotta francese alla guida dell'ammiraglio Émile Duplat, che bombardò via mare i poli industriali di Genova e Savona, causando però pochi danni. Seguirono poi una serie di attacchi aerei nei mesi estivi del 1940, ma dopo la resa della Francia (24 giugno 1940) il compito di colpire i centri liguri e quelli di tutto il resto della penisola toccò alle forze aereo-navali britanniche. Nella logica di queste azioni di bombardamento, i comandi inglesi decisero un'azione di forza contro le coste della città di Genova. Dopo la "notte di Taranto" dell'11-12 novembre 1940, in cui la flotta italiana era stata pesantemente danneggiata da un attacco di aerosiluranti britannici, la flotta rimanente venne spostata a Napoli, che il successivo 8 gennaio venne a sua volta bombardata. La corazzata Giulio Cesare venne lievemente danneggiata e fu trasferita il giorno dopo a Genova per le riparazioni e quindi, alla fine di gennaio del 1941, a La Spezia. Poiché gran parte della flotta italiana era stata trasferita nelle basi del mar Tirreno, gli inglesi pensarono di bombardare una di tali basi per dare un segnale alla Regia Marina che neppure nell'alto mar Tirreno le navi italiane sarebbero state al sicuro. Venne scelto come obiettivo il porto di Genova, perché si riteneva che vi fossero in riparazione tre navi da battaglia: la già citata Giulio Cesare, la Duilio e la Littorio. In realtà vi era soltanto la seconda, pesantemente danneggiata nella "notte di Taranto", ma, anche dopo essere venuti a conoscenza di questo particolare, gli inglesi decisero di procedere con l'operazione. Intanto il servizio segreto britannico era venuto a conoscenza che il 12 febbraio ci sarebbe stato, a Bordighera, un incontro fra Benito Mussolini e Francisco Franco, in cui il Duce avrebbe tentato di convincere Franco a entrare in guerra a fianco dell'Asse. Se la Spagna fosse entrata in guerra, Gibilterra sarebbe caduta e tutto il Mediterraneo sarebbe stato sotto il dominio dell'Asse. Per impedire a tutti i costi che il governo spagnolo facesse un tale passo, occorreva dimostrare la debolezza dell'Italia, incapace persino di proteggere le proprie coste. Quindi, su ordine diretto dello stesso Churchill, nel pomeriggio del 6 febbraio da Gibilterra fu fatta salpare la Forza H verso le coste liguri. Il bombardamento di Genova, progettato come operazione militare, divenne perciò una questione politica e per questo motivo doveva avvenire prima del 12 febbraio. Inoltre, voci raccolte dal servizio segreto inglese prospettavano un'ipotesi (rivelatasi poi falsa) di uno sbarco italiano nelle isole Baleari, che avrebbe comunque messo Gibilterra alla portata dei bombardieri a medio raggio dell'Asse. Il 2 febbraio 1941 Supermarina (l'alto comando navale italiano con sede a Roma) aveva posto in allarme la squadra che si trovava a La Spezia in conseguenza dei violenti bombardamenti cui era stato sottoposto il porto di Napoli. Intanto il 31 gennaio la Forza H, al comando dell'ammiraglio James Fownes Somerville, salpò da Gibilterra e lo stesso 2 febbraio, avvicinandosi alle coste occidentali sarde, alcuni aerei, partiti dalla portaerei HMS Ark Royal, attaccarono con siluri la diga del Tirso in Sardegna. La Ark Royal era equipaggiata all'epoca con 30 Fairey Swordfish, 12 Blackburn Skua, 12 Fairey Fulmar, appartenenti agli Squadrons 800, 807, 810 ed 820 della Fleet Air Arm, con l'807 dotato di bombardieri Blackburn Skua, l'810 e l'820 di bombardieri / siluranti Swordfish e l'807 di caccia / ricognitori Fairey Fulmar. L'intenzione degli inglesi era di dirigersi, la notte successiva, verso Genova, dove sarebbero dovuti arrivare il mattino dopo, ma il continuo peggioramento delle condizioni meteorologiche fino alla burrasca causò però notevoli ritardi alla navigazione. Resosi conto che, a causa del maltempo, le navi sarebbero giunte nei pressi di Genova solo nel pomeriggio (rischiando quindi di essere avvistate dalle pattuglie di ricognizione italiane,) l'ammiraglio Somerville fu costretto ad annullare l'operazione ed a rientrare a Gibilterra (non è comunque improbabile che si fosse trattato di una finta, in vista dell'imminente azione contro il capoluogo ligure). Una conseguenza delle avverse condizioni meteo fu una quantità rilevante di danni subiti dai cacciatorpediniere di scorta, che li costrinse a frettolose riparazioni a Gibilterra, necessarie per partecipare al nuovo attacco fissato per il 20 febbraio, data scelta per conseguire l'obiettivo politico della missione legato alla data dell'incontro tra Franco e Mussolini. Somerville non aveva molta scelta, essendo stato già accusato di scarsa intraprendenza contro la flotta italiana nella precedente battaglia di capo Teulada e sottoposto al giudizio di una commissione disciplinare; l'inchiesta lo scagionò, ma senza un limpido successo la sua carriera sarebbe stata compromessa. La forza H salpò di nuovo da Gibilterra il 6 febbraio, dirigendosi verso ponente come se dovesse uscire dal Mediterraneo; invertì poi la rotta di notte, al fine di confondere gli agenti italiani in osservazione ad Algeciras. Tuttavia Supermarina intuì la manovra e il 7 fece salpare da Messina la III divisione incrociatori (Trieste, Trento e Bolzano), diretta verso La Spezia, e il giorno 8 chiese che venissero intensificate le azioni di ricognizione per localizzare la squadra britannica. Avute notizie che navi britanniche della Forza H provenienti da Gibilterra erano in avvicinamento verso le coste italiane, una forza navale comandata dall'ammiraglio Angelo Iachino e formata dalla Giulio Cesare, dall'Andrea Doria e dalla Vittorio Veneto, con la scorta della X e XIII Squadriglia, uscì in mare alla ricerca del nemico. La flotta doveva incontrarsi il mattino seguente, presso l'Asinara a 50 miglia a ponente di capo Testa, con gli incrociatori provenienti da Messina (con la scorta dei cacciatorpediniere della XI Squadriglia). Si era convinti che l'obiettivo degli inglesi fosse la Sardegna, dato il fallimento dell'azione nemica di pochi giorni prima; si pensava, infatti, ad una ripetizione dell'attacco contro la diga del Tirso. Un'altra ipotesi era quella di un lancio di aerei verso Malta, e anch'essa presupponeva la presenza della flotta britannica a sud della Sardegna, come emerso in una conversazione telefonica tra Iachino e Inigo Campioni (sotto-capo di stato maggiore della Marina) alle 17 del giorno 7; il compito della squadra italiana rimaneva quello di "attaccare il nemico, ma solo se in condizioni favorevoli" e rientrare in porto in mancanza di contatto per la mattina del 9. Secondo i ricordi di Iachino, anche l'ipotesi di Genova come bersaglio venne formulata, ma lasciata cadere "data la notte lunare e la posizione della flotta inglese a sud delle Baleari". Gli avvistamenti aerei italiani del giorno 8 furono poco significativi, anche perché la ricognizione non venne predisposta a nord delle Baleari; pertanto, anche se venne segnalata la presenza di aerei da caccia in volo a sud delle Baleari e se ne dedusse la presenza della portaerei, non venne ipotizzata come possibile rotta della squadra da battaglia britannica l'alto Tirreno. Questa notizia fu quindi comunicata alla squadra italiana in navigazione, confermando la possibile presenza della Forza H a sud-ovest della Sardegna per il 9 mattina. Durante la notte fra l'8 e il 9 fu intercettato un forte traffico radiotelegrafico inglese, ma non fu possibile radiogoniometrarlo. Verso le 3 del mattino le due formazioni passarono a nord-ovest di Calvi (Corsica), a meno di 30 miglia di distanza senza avvistarsi, mentre la squadra inglese puntava indisturbata verso Genova. Stando invece al diario di guerra dell'Oberkommando der Marine (OKM – alto comando della marina) tedesco, sebbene i ricognitori italiani nella giornata dell'8 non fossero riusciti ad avvistare le navi britanniche, la flotta dell'ammiraglio Iachino fu inviata da Supermarina ad incrociare ad ovest della Sardegna nord-occidentale, con l'ordine di dirigere dapprima verso occidente e poi, tornando a nord, di portarsi nel canale tra la Corsica e la costa francese, a 100 miglia ad ovest di Capo Corso, nella posizione delimitata dalle coordinate 42°40′N 7°40′E42°40′N, 7°40′E. Tali coordinate sarebbero state comunicate da Supermarina al rappresentante della marina tedesca a Roma, ammiraglio Eberhard Weichold, e da questi trasmesse all'OKM, che le riportò nel diario di guerra. Dati presi da: e. Nel primo mattino del 9 febbraio sui cieli della città vennero avvistati alcuni aerei ricognitori; fino a quel momento Genova aveva subito tre incursioni aeree e una navale ed era stata posta in stato di allerta quarantasei volte e una ventina di volte in stato di pre-allarme. Quindi la presenza di aerei britannici atti ad azioni di ricognizione non era una novità per la popolazione, ma questa volta gli aerei non avrebbero scattato fotografie, bensì indirizzato il tiro delle artiglierie navali. Alle 5 del mattino del 9 la Ark Royal, scortata dai cacciatorpediniere Duncan, Encounter e Isis, deviò verso levante, posizionandosi a 70 miglia dalla costa spezzina, per consentire a venti bombardieri Swordfish di raggiungere Livorno, Pisa e La Spezia; alle 07:19 il Gruppo 1 fu in vista di Portofino e alle 07:33 venne avvistato da un motoveliero che faceva parte della catena di avvistamento antiaereo, che riferisce di "quattro torpediniere italiane con rotta nord-ovest" al suo comando di Genova, il quale doveva essere a conoscenza della presenza di eventuali unità navali amiche in quelle acque, ma non riferì niente a Supermarina; nello stesso momento gli aerei della Ark Royal iniziarono il bombardamento di Livorno e La Spezia. Il comando marina di La Spezia riferì invece a Supermarina della presenza degli aerei imbarcati, che però "non sganciano bombe", e in effetti quelle lanciate erano mine magnetiche a deterrente dell'uscita della squadra da battaglia, che però era già in mare; la conseguente ipotesi logica fatta dal comando marina spezzino era la presenza di una portaerei. Nessun allarme venne dato alla squadra da battaglia. Il resto della squadra - le corazzate Renown e Malaya, l'incrociatore Sheffield e i cacciatorpediniere Firedrake, Jupiter, Jersey, Fury, Foresight, Foxhound e Fearless - alle 7:50 ripiegò a ponente e prese a defilare a una ventina di chilometri dalla costa. Alle 08:01 la formazione britannica venne avvistata a 12 miglia dalla costa dal semaforo di Portofino, che trasmise l'informazione al comando marina di Genova, il quale solo alle 08:25 ne informò Supermarina, mentre per informare del bombardamento ci vollero le 08:37. Alle 07:35 Genova venne posta in allarme, mentre tre aerei della Ark Royal si portavano sulla città per guidare il tiro dei grossi calibri. Alle ore 08:14 (l'orario dell'azione è qui riportato con l'ora italiana. Gli inglesi, a bordo, avevano l'orologio un'ora indietro e perciò l'operazione, per loro, iniziò alle 07:14) del 9 febbraio 1941 l'ammiraglio Somerville diede l'ordine di aprire il fuoco. Le navi britanniche del 1º gruppo della Forza H aprirono il fuoco da circa 19 km di distanza dalla città di Genova, sparando 273 colpi da 381 mm, 782 colpi da 152 mm, oltre a numerosi altri di minor calibro. La Renown fu la prima ad aprire il fuoco, cannoneggiando dapprima il Molo Principe Umberto e quindi i cantieri Ansaldo, spostando poi il tiro sulle rive del Polcevera, sparando in tutto 125 proietti calibro 381 e 450 calibro 114; la Malaya prese di mira i bacini di carenaggio e i bersagli nelle vicinanze, sparando in tutto 148 colpi da 381 mm; lo Sheffield sparò sulle installazioni industriali poste sulla riva sinistra del Polcevera in tutto 782 proiettili da 152 mm. Da terra risposero al fuoco, senza alcun risultato di rilievo a causa della nebbia, la batteria Mameli di Pegli con 14 colpi da 152/50, il treno armato T.A. 152/4/T?, di stanza a Voltri, con 23 colpi da 152/40, il pontone armato GM-269 con 10 colpi da 190/39 e il GM-194 che, a causa di un'avaria all'impianto elettrico, sparò solo 3 colpi da 381/40. L'attacco terminò dopo appena mezz'ora e la risposta delle difese costiere fu inefficace, con la portata dei loro calibri costieri insufficiente contro la potente gittata dei calibri delle navi britanniche. Terminata l'azione, le navi britanniche virarono ed iniziarono tranquillamente il viaggio di rientro a Gibilterra. Alle 09:45 tutti gli aerei, tranne uno abbattuto nel cielo di Tirrenia, erano nuovamente sulla Ark Royal dopo aver bombardato Pisa e Livorno. Gli obiettivi iniziali del bombardamento furono i cantieri Ansaldo e le fabbriche che si trovavano sui due lati del torrente Polcevera, ma numerosi incendi e il relativo fumo costrinsero gli inglesi a spostare il tiro sul bacino commerciale; altri colpi raggiunsero poi la centrale elettrica e i bacini di carenaggio ed infine fu colpita la nave cisterna Sant'Andrea, che stava entrando in porto. Furono colpiti anche moltissimi edifici civili e storici, come la cattedrale di San Lorenzo - nella quale un proietto da 381 mm, dopo aver perforato due muri maestri, andò ad adagiarsi inesploso sul pavimento -, la chiesa della Maddalena, il Palazzo dell'Accademia ligustica di belle arti, l'ospedale Duchessa di Galliera - dove trovarono la morte 17 ricoverate -, alcuni palazzi all'inizio di via XX Settembre e l'Archivio di Stato. Una delle zone maggiormente colpite fu quella di piazza Colombo che, poco dopo, mutò il suo nome in "piazza 9 febbraio", per poi riprendere a guerra finita la vecchia denominazione. Molti proiettili inglesi caddero in acqua (circa il 50%); dei 55 piroscafi che erano nel porto ne furono danneggiati da schegge 29, mentre ricevettero colpi diretti il piroscafo Salpi (due di cui uno da 381 mm) e il piroscafo Garibaldi, che si trovava in bacino di carenaggio, che invece riportò tre squarci nella parte prodiera della carena per effetto di un colpo esploso all'interno del bacino; il danno maggiore lo ebbe la nave scuola Garaventa, che affondò, mentre le due navi militari in quel momento in porto per riparazioni, la Duilio e il cacciatorpediniere Bersagliere, non furono colpite. Danni non gravi li subirono gli impianti industriali, ma riportarono danni maggiori i fabbricati civili, dove alla fine dell'attacco trovarono la morte 144 cittadini, mentre i feriti furono 272. I danni materiali e sociali furono enormi; il Comune dovette provvedere ad alloggiare presso alberghi e pensioni circa 2.500 senzatetto, erogando vitto ed alloggio per 2.781.218 lire, aiuti in denaro per 955.289 lire, vestiti, scarpe, indumenti vari per 692.044 lire, articoli da cucina e masserizie per 315.374 lire, affitti per 77.765, mentre dalla "Cassetta del Podestà" vennero raccolte 1.472.649 lire, cui si aggiunse un milione di lire di contributo disposto dallo stesso Mussolini. Decine di abitazioni del centro storico furono vittima di crolli anche posteriori al bombardamento. Né l'aeronautica né il sistema di difesa costiero riuscirono a contrastare l'attacco su Genova. Il comando marina di La Spezia, poi, tardò nel diramare il segnale di avvistamento della formazione nemica e le prime informazioni sul bombardamento ("Allarmi aerei con probabile provenienza dal largo su La Spezia e zona ligure") raggiunsero la squadra italiana in navigazione solo alle 09:50, quando essa si trovava all'appuntamento con la III divisione a ponente dell'Asinara. Iachino si trovava in questa posizione dato che, dapprima, prendendo un'iniziativa non suffragata dagli ordini ricevuti che indicavano di dirigere verso occidente, e giustificandosi con l'arrivo di un segnale che indicava "Il Tirzo è in allarme", da lui poi cambiato nei suoi scritti in "allarme aereo", invece di raggiungere con rotta ovest il 6º meridiano aveva diretto proprio a sud-est dell'Asinara, ritenendo che la flotta britannica si trovasse da quella parte. La trasmissione risaliva ad un'ora addietro, ma la cifratura e decifratura del messaggio avevano fatto perdere agli italiani un vantaggio di una trentina di miglia nella direzione giusta a vantaggio della squadra britannica, anche se portava un'informazione fondamentale: c'era una portaerei in mare entro il raggio di azione degli aerei imbarcati da La Spezia e Livorno. Ciò nonostante, la portaerei non interruppe il silenzio radio e continuò in rotta a ponente. Un nuovo messaggio di Supermarina alle 09:37, decifrato alle 09:50, informò Iachino che Nessuna indicazione venne data sulla possibile rotta di fuga della squadra britannica. L'ammiraglio Iachino, appena operato il congiungimento, diresse subito verso nord, a tutta velocità, per tagliare la strada al nemico, ma il contatto tra le due squadre navali, anche a causa delle condizioni di visibilità molto variabili e complicato dall'avvistamento nei dintorni di Minorca di una flotta di piroscafi francesi, non avvenne. Verso le 14:30 le due squadre navali passarono di nuovo ad una trentina di miglia senza vedersi, quella inglese con rotta ovest-sud-est e quella italiana diretta a nord-nord-est, dove avrebbe dovuto trovarsi la Forza H. Questa errata segnalazione impedì l'incontro e la seguente battaglia navale; mancò comunque anche e soprattutto l'appoggio della Regia Aeronautica che, data la vicinanza delle basi, avrebbe dovuto intervenire massicciamente. Un idroricognitore rilevò la squadra britannica verso le ore 12, ma venne abbattuto prima di poter lanciare il segnale di scoperta; due aerei Fiat B.R.20 del 43º Stormo avvistarono la formazione navale alle 12:20, attaccandola con le bombe senza esito, ma fecero rapporto di avvistamento solo al loro rientro alla base e la notizia venne diramata solo alle 15:30. Altri due ricognitori italiani vennero abbattuti dagli aerei della portaerei britannica; nonostante questo, i 60 ricognitori e i 107 bombardieri italo-tedeschi utilizzati dalle potenze dell'Asse nel golfo di Genova e nel tratto di mare tra la Corsica e la costa francese all'altezza di Tolone quel 9 febbraio, durante l'intera giornata comunicarono solo quattro avvistamenti, per di più sbagliati. Vi fu quindi una grande massa di velivoli che polarizzarono la loro attenzione nelle acque in cui si trovava la Forza H, ma, incredibilmente, si ebbero sulla stessa soltanto quattro avvistamenti da parte di nove bombardieri B.R.20 del 43º Stormo, due dei quali attaccarono, mentre gli altri sette ritennero che le navi britanniche, avvistate in tre occasioni, fossero italiane. In una relazione gli errori di avvistamento degli equipaggi dei nove bombardieri B.R.20 furono giustificati dal comandante del 43º Stormo, colonnello Questa, come segue: Iachino, nel frattempo, assunse rotta per 330° alle 12:44 che, vista la sua posizione attuale, portava la squadra da battaglia italiana in direzione di Tolone, proprio in rotta convergente con la squadra britannica; alle 13 però un nuovo messaggio di Supermarina lo avvertì che era stata avvistata una squadra nemica a nord-ovest di Capo Corso e la squadra italiana invertì la rotta con velocità 24 nodi per intercettarla. Alle 15:38 dall'incrociatore Trieste venne avvistato il supposto nemico, ma dieci minuti dopo le navi vennero identificate come un convoglio di sette mercantili francesi, la cui presenza in area era stata debitamente notificata agli italiani in ossequio alle condizioni armistiziali. A quel punto la flotta britannica era già lontana e verrà fatta oggetto di una inutile ricerca fino alle 09:07 del giorno 10, quando alla squadra italiana venne dato l'ordine di rientro per Napoli, in quanto a La Spezia erano ancora in corso le operazioni di bonifica dalle mine navali britanniche. Il convoglio francese fu oggetto anche di attacchi aerei italiani, senza alcun esito, e lo stesso accadde ai MAS 510 e 525, scambiati dagli S.M.79 dell'8º Stormo bombardieri per incrociatori nemici; anche la Luftwaffe, appena arrivata in Sardegna, non riuscì a trovare traccia delle navi alleate, nonostante le operazioni di ricerca effettuate. Gli inglesi attribuirono il successo dell'operazione Grog alla cura meticolosa con cui avevano preparato l'azione, oltre alla loro preparazione, ma è indubbio che a loro favore giocò tutta una serie di circostanze favorevoli. Sebbene i risultati militari fossero scarsi, il bombardamento influì in maniera rilevante sul morale della popolazione genovese, ma non solo. Fu dal punto di vista politico che l'operazione Grog ebbe il maggior successo, ottenendo quello che probabilmente era il suo scopo principale: fare pressione sul generalissimo Franco, che si sarebbe dovuto incontrare con Mussolini a Bordighera tre giorni dopo, sulla inopportuna scelta di mettersi contro la Gran Bretagna. In seguito al rifiuto del dittatore spagnolo di schierarsi a fianco dell'Asse, dovette essere sospesa la progettata operazione Felix, con la quale i tedeschi volevano occupare Gibilterra. I fatti vennero descritti dalle parti nei rispettivi bollettini di guerra; quello italiano recitava: Questa fu la narrazione finale del bollettino intitolato "Il popolo di Genova all'ordine del giorno della Nazione", cui fecero coro nei giorni a seguire numerosi titoli propagandistici dei quotidiani. In ogni caso il bombardamento di Genova destò enorme impressione in tutta la nazione, soprattutto dopo aver appreso che l'azione non era costata al nemico la benché minima perdita. Ben più lungo il bollettino britannico: Sette giorni dopo, nella chiesa di San Siro venne officiata una messa in suffragio delle vittime, alla quale furano presenti tutte le maggiori autorità cittadine ed un'enorme folla che impegnò non poco i responsabili dell'ordine pubblico. Il 18 febbraio, con un treno speciale proveniente da Firenze, arrivò a Genova la principessa Maria José in divisa da crocerossina. Dopo una breve sosta a Palazzo Reale, si recò a visitare i feriti presso gli ospedali cittadini e le zone maggiormente colpite, ma si racconta che nel corso della sua visita la principessa di Piemonte trovò soprattutto visi chiusi e ostili tra gli ospedali e nelle strade, segno che la popolazione genovese iniziava a provare risentimento verso la guerra, nonostante le ondate propagandistiche di giornali e radio che si riversarono sulla città nei giorni a seguire. Gravi furono anche le conseguenza in seno alla Regia Marina, in quanto le prime accuse vennero formulate verso Iachino al momento stesso del rientro in porto la mattina dell'11, quando l'ammiraglio Riccardi chiese in una conversazione telefonica del perché Iachino non fosse riuscito ad intercettare la squadra britannica; immediatamente questi rispose che si era mosso sulla base degli ordini e delle informazioni inoltrate da Supermarina, ribaltando quindi la direzione delle accuse ed annunciando un dettagliato rapporto al più presto. La relazione arrivò nella mattina del 13, con espressioni come Contestò inoltre come sulla base di questi ritardi almeno un'ora e mezzo fosse stata persa con la squadra da battaglia sulla rotta sbagliata e che due aerei imbarcati (che sulle navi italiane non erano recuperabili, ma che si dovevano dirigere verso uno scalo amico a missione conclusa) fossero stati lanciati nella direzione sbagliata. La conclusione era che Poiché Riccardi non poteva ribattere in alcun modo, assolse formalmente e per iscritto Iachino da ogni accusa, riconoscendo che «l'operazione è stata condotta con giusti criteri e sulla base di un razionale apprezzamento della situazione desunto dalle notizie possedute». Ad una successiva richiesta dello Stato Maggiore Generale, presieduto all'epoca da Ugo Cavallero, inoltrata il 13, che recitava « [...] si sono verificati inconvenienti nel tempestivo riconoscimento delle unità avversarie. Necessita approfondire cause e responsabilità. Mi sarà gradito conoscere provvedimenti adottati», Riccardi dovette rispondere addebitando la causa a condizioni meteo negative (inesistenti), alcuni inconvenienti nella catena di avvistamento e nella coordinazione tra aeronautica e marina", di fatto evitando la ricerca di colpevoli in una versione di comodo che venne accettata, dapprima da Cavallero e poi dallo stesso Mussolini in un incontro con Riccardi e Iachino nel quale, come ammesso dallo stesso Riccardi con il suo sottoposto, Mussolini «era stato preparato a dovere». Di conseguenza nessun provvedimento venne preso per migliorare la cooperazione tra le due armi e questo ebbe un peso negli eventi successivi, a cominciare dai fatti che portarono alla battaglia di Capo Matapan. La cattedrale di San Lorenzo venne colpita il 9 febbraio da un proietto perforante inglese da 381 mm sparato dalla corazzata HMS Malaya, che in quel momento si trovava in navigazione a sud-ovest di Genova con rotta da est verso ovest. I danni risultanti da tale colpo, secondo una relazione del giorno seguente stilata dal soprintendente ai monumenti Carlo Ceschi, consistettero in un «foro d'entrata nel tetto e nella volta della navata destra, in una considerevole breccia nel muro portante destro della navata centrale, al di sopra degli archi dei matronei, e nella caduta di un arco del matroneo di sinistra». Il proietto, poi, urtò contro la parete interna settentrionale ma, avendo ormai esaurito gran parte della sua forza cinetica, non riuscì a sfondarla, cadde a terra e rotolò attraverso la navata centrale fino a fermarsi nella navata di destra senza esplodere. Le navi inglesi che bombardarono Genova avevano una dotazione di colpi da 381 mm ripartita in proietti APC (Armour Piercing Capped, dotati di cappuccio tagliavento e di cappuccio balistico sottostante), proietti CPC (Common Pointed Capped, dotati di solo cappuccio tagliavento) e proietti HE (High Explosive, altamente esplosivi), ma nell'azione vennero utilizzati solamente i primi due tipi perché lo scopo principale della Royal Navy era colpire le corazzate italiane Duilio, Giulio Cesare e Littorio, che i servizi segreti britannici credevano fossero in porto, o ingaggiare un'eventuale battaglia navale contro formazioni della Regia Marina in alto mare. I proietti utilizzati per bombardare la città erano stati forniti dalla Hadfield's Foundry di Sheffield, che li produceva con il nome commerciale ECLON (per gli Armour Piercing Capped) ed ERON (per i Common Pointed Capped), entrambi caricati con polvere nera, ed erano stati imbarcati a Malta, dove si trovavano stoccati dal 1915 per la campagna di Gallipoli. Il modello ECLON era lungo 142 centimetri, quindi 20 centimetri più corto rispetto al modello ERON, che era lungo 162 centimetri. Quest'ultimo terminò di essere prodotto intorno al 1920 e restò a disposizione delle autorità militari fino a esaurimento delle scorte. La mancata detonazione del proietto in San Lorenzo venne vista come un segno miracoloso dalla popolazione e fu sfruttata dalla propaganda, ma l'alta percentuale di colpi inesplosi, fra cui proprio quello che centrò la cattedrale, era dovuta sia alla vetustà dei proietti (prodotti decenni prima e caricati con obsoleta polvere nera invece di moderna shellite), sia al fatto che tale tipologia di munizioni, utilizzate dalla Royal Navy principalmente contro navi da battaglia dotate di pareti d'acciaio corazzate spesse decine di centimetri, risultavano inefficaci contro strutture edilizie terrestri "morbide", le quali venivano facilmente trapassate senza riuscire a innescare la spoletta per l'esplosione. In base alle fotografie scattate nei giorni immediatamente successivi al bombardamento, il proietto che trapassò i muri della cattedrale era un Armour Piercing Capped ECLON. Su tale proietto circolarono poi, per molti anni, alcune notizie false, supportate anche da una lapide contenente informazioni errate posta all'interno della cattedrale stessa. Nella navata di destra, infatti, è presente la seguente iscrizione: In realtà, il proietto che colpì la cattedrale venne rimosso e scaricato in mare. Un telegramma del 17 febbraio 1941 del questore di Genova al prefetto della stessa città, infatti, indicava: «Proiettile rimosso da Duomo S.Lorenzo caricato su chiatta è stato rimorchiato dalla Diga Foranea di Molo Galliera ove sarà vigilato a cura autorità militare che ha provveduto rimozione in attesa che condizioni mare ne consentano trasporto ed affondamento in mare aperto». Il giorno dopo, 18 febbraio, sul quotidiano Il Secolo XIX venne pubblicata la notizia: «Ieri, sotto la direzione delle autorità militari preposte alla difficile e pericolosa operazione, è stato rimosso da S.Lorenzo il proiettile rimastovi inesploso la mattina del 9. A mezzo di una grue costruita appositamente da artiglieri e da operai specializzati nell'interno del Duomo, il proiettile, a cui era stata tolta la spoletta, è stato sollevato e caricato su un carrello con le ruote di gomma, quindi trasportato fuori della Chiesa, dove, a mezzi della grue dei Vigili del Fuoco, è stato susseguentemente trasbordato sopra un autocarro che si è poi diretto al mare. Il micidiale ordigno è stato poi caricato su una chiatta e trasportato al largo, dove è stato gettato in mare. La difficoltosa operazione è costata cinque ore di lavoro». Il 31 luglio dello stesso anno, un telegramma dell'Ufficio Tecnico Armi Navali, inviato al prefetto di Genova e classificato come Segreto, informava che: «Giusta gli ordini dell'Altezza Reale il Duca di Spoleto è stata spedita a questo Navalarmi una granata perforante inglese scarica da 381 ricuperata a suo tempo in questa sede. Tale granata deve essere consegnata all'Eccellenza il Prefetto affinché ne faccia a sua volta la consegna al parroco della chiesa di San Lorenzo. Poiché la granata è attualmente in possesso di questo Navalarmi si prega voler comunicare le modalità della consegna». Le autorità militari e religiose italiane dunque decisero, a scopo propagandistico, di posizionare all'interno della chiesa un proietto inglese - per altro di tipo diverso da quello che colpì l'edificio il 9 febbraio - spacciandolo per quello originale, probabilmente confidando che la popolazione avesse dimenticato che l'originale era stato smaltito in mare aperto. Il telegramma che annunciava l'arrivo del proietto da Navalarmi imponeva il segreto sull'operazione proprio perché un proietto non originale non sarebbe stato testimone del "miracolo" e, quindi, non avrebbe avuto lo stesso valore psicologico. Falsa è anche la storia secondo la quale i proietti, anziché prodotti dalla Hadfield's Foundry di Sheffield, sarebbero stati realizzati dalla Ansaldo e venduti agli inglesi prima della guerra. Erminio Bagnasco, Augusto De Toro, Le navi da battaglia della classe "Littorio" 1937-1948, Parma, Ermanno Albertelli Editore, 2008, ISBN 88-87372-66-7. Carlo Brizzolari, Genova nella seconda guerra mondiale (IV volumi), Genova, Valenti editore, 1992, ISBN non esistente. Gabriele Faggioni, Il Vallo ligure. La linea difensiva allestita dalle forze nazifasciste, Genova, Ligurpress, 2010, ISBN 978-88-6406-037-8. Manlio Fantini, Operazione Grog - assalto a Genova, in Genova 7, 7 febbraio 1975. Ian Johnston, Ian Buxton, The Battleship Builders: Constructing and Arming British Capital Ships, Naval Institute Press, 2013, ISBN 9781591140276. Francesco Mattesini, Capitolo VI: Il bombardamento navale di Genova del 9 febbraio 1941, in L'attività aerea italo-tedesca nel Mediterraneo. Il contributo del X Fliegerkorps, Gennaio – Maggio 1941, 2ª ed., Roma, Ufficio storico dell'Aeronautica Militare, 2003, ISBN non esistente. Arrigo Petacco, Le battaglie navali nel Mediterraneo nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1976, pp. 253, ISBN non esistente. Gianni Rocca, Fucilate gli ammiragli. La tragedia della marina italiana nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1987, ISBN 978-88-04-43392-7. Antonino Ronco, Dossier: Genova 9 febbraio 1941. 300 tonnellate di bombe a colazione, Genova, De Ferrari, 2007, ISBN 978-88-71-72830-8. Battaglia delle Alpi Occidentali Bombardamento navale di Genova (1940) Bombardamenti di Genova nella seconda guerra mondiale Italia nella seconda guerra mondiale Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Bombardamento navale di Genova Il bombardamento di Genova, su scmncamogli.org. La notte di Taranto e la beffa di Genova, su digilander.libero.it.

Campopisano
Campopisano

Campopisano (o Campo Pisano, secondo il nome tradizionale) è una zona del centro storico di Genova, situata al limite orientale del sestiere del Molo. La zona, citata inizialmente come "Campus Sarzanni" poiché situata in prossimità della piazza di Sarzano, sarebbe stata ribattezzata con l'appellativo di Campo Pisano dopo la vittoria riportata dalla flotta genovese sui pisani nella battaglia della Meloria (1284). Infatti, secondo la tradizione in questo luogo, all'epoca appena fuori dalle mura, sarebbero stati confinati migliaia di prigionieri pisani, la maggior parte dei quali, morti di fame e di stenti, sarebbero stati sepolti in quello stesso luogo. Si accede a Campopisano attraverso una mattonata che inizia da piazza Sarzano, nei pressi della stazione Sarzano/Sant'Agostino della metropolitana. Sulla piccola piazza (circa 200 m²), di forma irregolare, si affacciano alte case a schiera con le facciate dipinte a tinte pastello; il selciato, rifatto nel 1992, è realizzato con ciottoli di mare bianchi e grigi, tipica pavimentazione ligure in uso fin dal Medioevo, detta rissêu. Al di là della tradizione legata alla presenza dei prigionieri pisani, sembrerebbe confermato che la zona di Campopisano, situata appena fuori della cinta muraria detta del Barbarossa, fosse utilizzata come luogo di sepoltura per i forestieri, e quindi probabilmente anche per i pisani morti durante la prigionia. Un decreto del 1403, emanato dal maresciallo Boucicault, governatore di Genova per conto del re Carlo VI di Francia, stabiliva l'inalienabilità e l'inedificabilità dell'area, divieti confermati varie volte nel corso del XV secolo, ma in parte venuti meno negli ultimi anni di quel secolo e decaduti definitivamente nel 1523, quando un decreto dei Padri del Comune consentì a chiunque di acquistare terreni e costruire edifici nella zona, che pochi anni dopo veniva inglobata nella nuova cerchia muraria cittadina. Il Giustiniani, nei suoi Annali ricorda come nello spazio sopra la fonte pubblica di Sarzano in breve tempo siano sorte ben 47 case. In vico di Campopisano, nelle immediate vicinanze della piazzetta, fino alla fine dell'Ottocento esisteva un popolare teatrino della marionette; quello stesso locale ospita oggi un ristorante. In occasione delle celebrazioni colombiane del 1992 un gruppo di volontari ha ripristinato la pavimentazione a risseu della piazza, con al centro l'immagine di una galea con bandiera della Repubblica di Genova, a rievocare i fasti dell'antica repubblica marinara. Il 5 agosto 2021, a 737 anni dalla battaglia della Meloria i pisani prigionieri sono stati commemorati in Campopisano alla presenza del vicesindaco di Genova, Massimo Nicolò, dell'assessore alle politiche culturali, Barbara Grosso e di una delegazione di circa 30 pisani, guidati dal sindaco di Pisa, Michele Conti. Nella base cartografica comunale o storica sono riportati i seguenti odonimi: Piazza Campo Pisano (o Campopisano) Vico di Campo Pisano (o Campopisano) Vico superiore di Campo Pisano (o Campopisano) Vico inferiore di Campo Pisano (oggi non più esistente) Piazzetta Campopisano inferiore Guida d’Italia - Liguria, Milano, TCI, 2009. Centro storico di Genova Molo (Genova) Sarzano Wikiquote contiene citazioni di o su Campopisano Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Campopisano